A Gaza la gente non chiede più la pace. Chiede pane, acqua, vita. Da oltre 40 giorni, più di due milioni di palestinesi sono intrappolati sotto assedio, non solo da bombe e proiettili, ma anche dalla fame. I bambini piangono di notte non per paura, ma per lo stomaco vuoto. Le madri crollano, incapaci di nutrire i loro bambini. I padri camminano per chilometri per un tozzo di pane che potrebbe non arrivare mai. Israele non ha solo bloccato i camion ai valichi, ha bloccato la speranza. Ha deciso che i gazawi devono soffrire di più, non perché sono combattenti, ma perché sono lì. Perché sono vivi. I ministri israeliani lo hanno detto apertamente: l'obiettivo è combattere una popolazione stanca, affamata e debole. Non nascondono il piano: prima affamare la popolazione, poi attaccare. Usare il cibo come arma. Guardare le donne mangiare la terra, vedere i bambini crollare per la stanchezza. Aspettare la morte non come incidente di guerra, ma come strategia. Il tema non è la mancanza di aiuti, ma la negazione deliberata degli aiuti. Camion pieni di cibo e medicine vengono fermati al confine. Le organizzazioni internazionali sono pronte ad aiutare, ma Israele pretende il controllo - non per aiutare a distribuire gli aiuti, ma per decidere chi merita di mangiare e chi no. Nel frattempo, i gazawi deperiscono in silenzio. Un ragazzo a Deiral-Balah è svenuto per la fame. Una bambina di Jabalia ha chiesto a sua madre se il sole poteva essere mangiato. Una nonna di Khan Younis ha dato il suo ultimo biscotto al nipotino ed è andata a letto affamata, di nuovo. Dicono che a Gaza c'è "cibo a sufficienza". Ma cosa significa quando gli aiuti non arrivano da oltre un mese? Quando la gente mangia foglie e cibo per animali? Quando un pezzo di pane viene diviso tra sette persone? Il governo israeliano ha ora approvato un nuovo piano: espandere l'operazione militare, occupare più terra e rafforzare il controllo degli aiuti. Parlano di strategia e di vittoria. Ma Gaza non è un campo di battaglia. È un cimitero di sogni, una terra di morte lenta. "Lasciateci mangiare": è l'ultimo grido di un popolo che il mondo non può continuare a ignorare. (Tratto da “La nostra fame è un preciso obiettivo del governo d’Israele per poi attaccarci” della corrispondente palestinese da Gaza Aya Ashour).
“Gaza e la Pace: il nuovo Papa dovrà partire da lì”, testo di Raniero La Valle pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, martedì 6 di maggio 2025: (…). Due sono oggi le crisi che più gravemente sfidano il Vangelo. La prima è quella di Gaza, nella quale il genocidio in corso infligge alla storia che stiamo vivendo il vulnus di una crudeltà e di una violenza che non credevamo oggi possibile, mentre secondo la parola culminante di Gesù alla Samaritana "la salvezza viene dai Giudei" (Vangelo di Giovanni). Questa parola viene oggi smentita non solo per quanto riguarda i palestinesi, e probabilmente gli stessi ebrei di Israele, ma la stessa pace del mondo. Inoltre la tragedia di Gaza rischia di travolgere anche la storia futura, nella quale secondo la promessa dovrebbe giungersi alla ricomposizione dell'intera famiglia umana, quando "tutto Israele sarà salvato" (Lettera ai Romani). Questo doveva essere invece "il tempo favorevole", il kairòs del tempo di ora. La Chiesa pertanto, intesa nell'accezione più larga attribuitale da papa Francesco come "popolo di Dio" non può non farsi carico di questa contraddizione e non considerarla prioritaria, anche rispetto ad aspettative e riforme pur necessarie nella presente vita e sviluppo della compagine ecclesiale. Perciò le Chiese, non solo la cattolica romana, ma anche le altre che stanno vivendo la tragedia del vicino Oriente e di Gaza, sono particolarmente coinvolte nelle scelte di questo Conclave. La seconda crisi che mette più gravemente in questione non solo il Vangelo ma l'intera profezia biblica, è il rovesciamento del mandato di Gesù di istituire (e preparare) la pace, "non come il mondo la dà". Secondo Isaia la pace non come il mondo la dà starebbe nel non imparare più l'arte della guerra (cioè "disimpararla") e di mutare le spade in aratri e le lance in falci. Per tutta la storia si è fatto il contrario ("se vuoi la pace prepara la guerra") ma oggi le proporzioni di questo rovesciamento sono inaudite, non solo per il volume del mercato delle armi e per la trasformazione in armi dei principali mezzi di produzione (e ora anche delle "terre rare"), ma qui da noi anche per l'esplicita e proterva volontà politica dell'Europa di abbandonare la sua momentanea dedizione alla pace e di farsi un esercito da almeno 800 miliardi di dollari, nel contempo alimentando e perpetuando la guerra tra la Russia e l'Ucraina. Qui le Chiese implicate sono le Chiese europee, quelle ortodosse, ora più che mai scisse, e quella cattolica, sicché la dimensione ecumenica del problema si aggiunge a quella diplomatica e politica; e qui dovrebbero particolarmente essere chiamate in causa le Chiese in Europa che hanno una più avanzata tradizione non di gelida neutralità, ma di profezia della pace. È possibile attivare queste dinamiche di eccezionale portata, contro la tentazione di ricadere nell'abitudine e nell'ovvio dopo il carismatico ministero di papa Francesco? Potrà la società, potrà l'etica pubblica assecondare questa "nuova creazione" nonostante il pensiero unico dominante, contro il senso comune laico che regola la comunicazione sociale? Certo, è una sfida alla Secolarizzazione. Ma questa è davvero così compiuta? L'entità del consenso che si è manifestato in occasione del funerale di papa Francesco, che però era tangibile anche prima, dimostra che il commiato dalla fede non è così generalizzato come si ritiene, non è sostituito nel migliore dei casi da una generica spiritualità; e anche l'insincerità del compianto di molti leader, tanto sottolineato, non era forse così diffusa: se tutti davvero fossero così falsi e malvagi non ci sarebbe nulla da sperare, perché sono purtuttavia questi potenti, o quelli che riusciremo a mettere al posto loro, che debbono cambiare il corso delle cose. E davvero è così inarrivabile l'ideale sociale propugnato da papa Francesco? Egli proponeva a tutti cose semplici e familiari, la pace, la pietà, il soccorso in mare, carceri più umane, ricordarsi dei vecchi, non bombardare i bambini: chi davvero poteva non volerlo? E anche la misericordia di Dio, l'inferno vuoto: a chi non piacerebbe? Papa Francesco non era a capo di un'agenzia umanitaria, svelava una nuova prossimità di Dio. I post-teisti non c'erano arrivati, avevano scoperto che, con la modernità, Dio non lo si può pensare nell'alto dei cieli: ma perché, prima stava lì? Francesco ha spiegato, e mostrato con la sua vita e la sua morte, che più che dichiararlo perduto, si tratta di incontrarlo altrove: meta-teisti, un più di Dio, non post-teisti, un Dio che c'era, e ora non c'è più. «Che cosa significa occupazione totale?». Questa é la domanda che si sussurra tra le strade di Gaza. A bassa voce, perché nessuno ha più la forza di urlare. Quando il governo israeliano ha annunciato un piano per prendere il pieno controllo della Striscia, a tutti è sembrato di ascoltare una condanna a morte. La gente non si chiede più se morirà, ma quando accadrà. «Non abbiamo altra scelta, se non quella di continuare a vivere da dentro la morte», dice Khalil. Nessuno più analizza, dibatte o discute i piani di Israele. «Le cose sono peggiorate e tutto ciò che ci preoccupa ora sono acqua, elettricità e cibo», continua il ragazzo con una voce calma che trasuda angoscia. L’annuncio di un’occupazione totale di Gaza per molti è solo un altro titolo in una serie infinita di incubi. Le persone sono ormai «morte», come dice Khalil. «Non possiamo fare più nulla. Il mondo guarda. E noi siamo costretti ad andare avanti». Tra le strade vuote c’è solo paura. Tutti aspettano, ma nessuno sa cosa. Non c’è più un posto dove scappare. Il cielo non è nostro. Il mare è troppo lontano. Le frontiere sono muri senza porte. Eppure nessuno urla più, nemmeno dopo questa notizia. Forse perché lo shock è troppo forte o perché sanno che il mondo non li ascolterà. La verità è che Gaza è già sotto occupazione completa da mesi. Israele afferma che le sue azioni servono a fare pressione su Hamas per il rilascio degli ostaggi. Ma la verità è che a morire sono bambini, donne, anziani e famiglie rimaste nelle loro case perché non hanno un altro posto dove andare. Non ci sono “attacchi di precisione” né “bersagli intelligenti”, quando case e i campi profughi sono obiettivi. Fuggire da tutto questo è ormai impossibile. «Voglio solo scappare. Non mi interessa quanto costa», racconta una ragazza che ha perso la sua borsa di studio all’estero perché non è riuscita ad andare via da Gaza. Ce ne sono a centinaia come lei - anzi, migliaia. Giovani che hanno perso il futuro. Questo assedio non affama soltanto, ruba la speranza. Il messaggio è chiaro: «Non vi lasceremo vivere qui, e nemmeno andare via». Gaza somiglia a una gigantesca prigione, senza porte né finestre, circondata da muri di fuoco e ferro, sorvegliata da ogni direzione. Nessuno entra, se non raramente. Nessuno esce, se non da morto. I volti sono pallidi, gli spiriti svuotati. Gaza non è solo assediata da fuori, ma anche da dentro: dal caos, dalla paura, dalla disperazione. E questo, forse, è il tipo di prigionia più crudele. Ormai anche il silenzio è diventato un mezzo di sopravvivenza. (Tratto da “Ora in silenzio aspettiamo solo la morte”, dal «Diario da Gaza» di Rita Baroud).
N.d.r. Le corrispondenze sopra riportate sono state pubblicate – nell’ordine - su “il Fatto Quotidiano” e sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, martedì 6 di maggio 2025.
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