"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 21 aprile 2025

Uominiedio. 60 Albrecht Durer: «Queste crudeli ferite io porto per te, o uomo, E curo la tua mortale malattia con il mio sangue».

 In memoria di Jorge Mario Bergoglio che ci ha lasciati in questa giornata.


Difficile immaginare un Cristo più umanamente affranto: tanto da non poterne vedere nemmeno il viso, per non gettarci davvero nello sconforto. Si direbbe disperato, se solo fosse possibile immaginare un dio disperato. Non è il Cristo del Getsemani, né quello deriso della flagellazione: no, i buchi dei chiodi nelle mani e nei piedi ci dicono altro; la passione è già avvenuta, il venerdì santo è passato. Possiamo allora immaginare che sia il Cristo chiuso nel sepolcro nei giorni che lo videro, come ogni umano, sotto il dominio nella morte. O invece pensare, con Erwin Panofsky, che si tratti di una «visione del Cristo eterno che ha portato a termine la sua passione sulla terra, eppure continua a essere torturato dai peccati degli uomini». Nell'invenzione analoga con cui Dùrer aveva aperto la serie della Grande Passione, il Cristo si rivolgeva a ciascuno di noi con questi versi: «Queste crudeli ferite io porto per te, o uomo, E curo la tua mortale malattia con il mio sangue.\ Riscatto le tue piaghe con le mie, la tua morte \ Con la mia - un Dio che si è fatto uomo per te. \ Ma tu, ingrato, ancora fai sanguinare le mie ferite con i peccati; \ Sarò ancora flagellato per i tuoi atti colpevoli. / Sarebbe dovuto bastare soffrire una volta. Per mano di ostili giudei; ora, amico, vi sia pace!» Anche in parole così piene di umanità, si insinuava un odio violento, quello verso la diversità degli ebrei: colpiti per secoli, e proprio ogni venerdì santo, dall'antisemitismo della Chiesa cattolica. È una lezione preziosa, per noi che oggi difendiamo le radici cristiane della nostra identità europea ed occidentale: abbiamo forse imparato la lezione? Quel Cristo continuava a patire anche per l'odio razzista dei suoi seguaci cristiani. E oggi, in questo venerdì santo 2025, continua a patire per l'odio congiunto verso l'altro popolo che vive nella sua terra, quello palestinese: anche questo un odio al fondo alimentato da razzismo, dal nostro non considerarli "come noi". Eppure, in questo Cristo che sopporta in silenzio e non ha la forza nemmeno di guardarci negli occhi, dovremmo pur riuscire a vedere, finalmente, l'unica cosa che conta: la natura umana, piegata e schiantata per mano di altri umani. Chi chiede armi, chi adora il potere, chi non si cura dei corpi avvolti in sudari che sono uguali alla sindone, almeno oggi capisca che queste parole sono dette proprio a lui: «Ma tu, ingrato, ancora fai sanguinare le mie ferite». E che ora, davvero, vi sia pace. (Tratto da “Il Cristo che soffre in silenzio e non ha la forza di guardarci” di Tomaso Montanari pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 18 di aprile 2025).

“Identikit di un traditore”, intervista di Marco Cicala al “biblista” Gianfranco Ravasi pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 18 di aprile 2025: (…). «In una delle mie librerie ho cercato di sistemare non foss’altro che i romanzi dedicati al personaggio. Non è facile, sono moltissimi» sorride il cardinale Gianfranco Ravasi, teologo, ebraista, biblista fra i più autorevoli. Lo incontriamo a Roma, nei suoi uffici di via della Conciliazione, perché ci aiuti ad orientarci almeno un po’ nel labirinto-Giuda».

(…). Razionalmente parlando, se Giuda è vittima o strumento del piano divino la sua sarebbe una libertà per così dire “a responsabilità limitata”. E la colpa del tradimento si farebbe più problematica.

«È questa aporia, questo aspetto se vogliamo enigmatico della questione, ad aver affascinato, penso, filosofi e scrittori come l’agnostico Borges che le dedica un racconto della raccolta Finzioni. Con il problema di Giuda ci troviamo in un intreccio complesso, situato tra antropologia, dimensione umana, e soteriologia, dimensione della salvezza».

Tornando sul piano storico: proviamo a tracciare un identikit dell’uomo-Giuda. Età? «Direi sulla trentina, tendenzialmente coetaneo di Gesù».

Il nome ebraico “Giuda” era alquanto diffuso, mentre l’appellativo "Iscariota" potrebbe contenere qualche indizio sul personaggio. «Forse indicava la provenienza dal villaggio di Kariot, nella Palestina meridionale. Ma vi si è vista pure una deformazione del termine sicario, cioè un ribelle alla dominazione romana. Secondo altre interpretazioni ish-karja designerebbe invece un “uomo della falsità” o più oscuramente un “tintore”. Tra gli esegeti si predilige tuttavia la chiave del riferimento topografico. Va notato comunque che nella narrazione evangelica Giuda è l’unico tra gli apostoli a non provenire dalla Galilea, il solo originario della Giudea».

Quasi lo si volesse presentare preventivamente come un elemento eccentrico in seno al gruppo? «Possibile. Tra gli apostoli esistevano del resto divisioni molto nette».

Per inquadrare la figura dell’Iscariota dobbiamo inseguirla attraverso i quattro Vangeli canonici, che però sono testi ellittici. Ci danno parecchio filo da torcere. «Non sono la biografia di Gesù né un manuale storico o un verbale di polizia! L’uso meramente storiografico di quelle scritture è errato di sua natura. Ciò non significa naturalmente che l’approccio storico non sia legittimo o che vada trascurato. Ma i Vangeli costituiscono un genere particolare. Non siamo in presenza di un coacervo di miti, tesi o leggende teologiche, ma di una storia accaduta, che viene interpretata in chiave teologica e dove i personaggi diventano anche degli emblemi. I Vangeli – dal greco euanghélion, “lieta notizia” – sono testi finalizzati all’annuncio e alla catechesi».

Anche se gli evangelisti non ce lo raccontano tutti nello stesso modo, Giuda entra in scena con la chiamata all’apostolato. Subito ci viene svelato che tradirà. Poi però nel racconto stranamente si eclissa… «Sì, ma fra i dodici non è l’unico di cui sappiamo poco. Alcuni non riusciamo a identificarli con esattezza. Si pensi a Bartolomeo o all’altro di nome Giuda, Giuda Taddeo…».

In Giovanni ritroviamo l’Iscariota a ridosso dell’ultima Pasqua di Cristo, nell’episodio della cena di Betania. E qui apprendiamo qualcos’altro su di lui. «Ci viene detto che all’interno della comunità apostolica Giuda ricopriva una funzione non proprio secondaria: teneva la cassa del gruppo. Una sorta di economo, di tesoriere, colui che doveva gestire le eventuali donazioni da destinare ai poveri».

Proprio sul tema delle donazioni, vediamo Giuda muovere a Cristo un rimprovero che ce lo mostra come un apostolo intransigente. «Giuda argomenta che il costo del balsamo con cui Maria, sorella di Lazzaro, ha profumato Gesù avrebbe potuto essere devoluto ai poveri. Ma Giovanni precisa subito: “Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro”».

Un manigoldo. «Non c’è da sorprendersi, tra pubblicani, prostitute, peccatori, discepoli un po’ raccogliticci, Gesù era in cattiva compagnia! Ad ogni modo, presentandolo come un ladro, Giovanni sottolinea l’ipocrisia di Giuda. E questo in contrasto con una scena, quella di Betania, dove ritroviamo una dimensione importante della figura di Gesù. L’atto della donna che lo unge col balsamo è infatti in linea con quei gesti di gratuità, di generosità, di delicatezza, di tenerezza che il Cristo evangelico esalta sempre. È l’eccesso del dono che risuona nel “Va’ e vendi tutto ciò che hai” e che rimanda anche a un aspetto originale, rispetto al contesto ebraico, nella concezione dell’amore. Gesù ha sempre assunto il principio del Levitico “Ama il prossimo tuo come te stesso”, però lo rompe, va oltre. Nell’ultima sera della sua vita terrena, scrive Giovanni, Cristo afferma che non c’è amore più grande di quello di colui che dà la vita per la persona che ama. L’amore supera perciò i confini del “te stesso”».

Benché i contorni del patto delatorio tra Giuda e i sacerdoti non siano chiarissimi, tre evangelisti ci informano che esso avvenne in cambio di denaro. Ma soltanto Matteo quantifica il conquibus nelle celebri trenta monete d’argento. Cifra abbastanza irrisoria. Dunque il movente economico non regge… «Direi di no. La quantità delle monete potrebbe essere un rinvio ai trenta sicli d’argento di un passo del profeta Zaccaria. No, il tradimento sembra motivato soprattutto dalla frustrazione di un apostolo che, equivocando, ha visto in Gesù una figura messianica di tipo politico. Cristo è un personaggio che attira le folle e che, nella visione di alcuni, dovrebbe mettersi a capo di un movimento. Mentre il suo orizzonte è più alto».

Qualcuno ha avvicinato la reazione vendicativa di Giuda a quella di un amante deluso. «La delusione è certamente una categoria. Se è accompagnata dal tradimento genera amarezza, rimorso, solitudine. Il deluso non può celebrare la propria vittoria».

Nei Vangeli si evoca anche l’intervento di Satana. Se Giuda ne fosse preda non sarebbe totalmente padrone delle proprie azioni. «Giovanni scrive che Satana “entrò in lui” mentre Giuda era seduto con Gesù all’ultima cena. Ma, come diceva Dario Fo, “Non è sempre tutta colpa del Diavolo”. Qui torniamo alla questione della libertà di cui parlavamo all’inizio. La figura di Satana è quella del tentatore. Anche Cristo è tentato da Satana, la cui funzione è di mettere in azione il movimento della libertà. Giuda è colui che ha consapevolmente accettato la tentazione, ossia uno stimolo che non dev’essere per forza vincente».

Il riconoscimento, l’arresto. Gesù è acclamato dalle folle. Il suo volto dovrebbe essere noto. Può dunque apparire curiosa la necessità di farlo riconoscere con un bacio. Forse la pattuglia di sbirri capitanata da Giuda non aveva presente la fisionomia dell’uomo che doveva catturare? «È difficile districarsi sul piano fattuale. Ma, rimanendo nel campo delle ipotesi, non si può escludere che nel contesto storico di Gerusalemme la conoscenza di Gesù fosse circoscritta all’ambito del potere clericale giudaico, quello a cui Cristo dava più fastidio, e del potere politico. Quanto al bacio, potrebbe essere stato una sottolineatura narrativa dell’evangelista per accentuare la doppiezza del discepolo che consegna il suo maestro con un gesto apparentemente fraterno».

Nella cerchia degli apostoli qualcuno mette istintivamente mano alla spada. Gesù girava con una scorta armata? «Nelle norme giudaiche era legittimo, magari per chi andava in posti poco sicuri come i deserti, portare con sé una spada. È plausibile che Pietro o qualcun altro al seguito ne avesse una».

Per far scattare l’operazione i sacerdoti attendono un’occasione propizia. Perché la individuano proprio nella Pasqua? «C’è una ragione di natura politica: a Pasqua il governatore Pilato, che detestava gli ebrei e se ne stava per lo più nella sua villa di Cesarea marittima, è presente a Gerusalemme. La seconda ragione è forse legata alla classe dirigente giudaica, la quale voleva che il processo e la condanna di Gesù avessero un forte impatto sulla popolazione, nonché ovviamente sui suoi seguaci».

In Matteo, Giuda si ripresenta dai sacerdoti in preda al rimorso, ma quelli lo mollano: “A noi che importa?”. È la traiettoria abbastanza tipica di un esecutore scaricato dai propri mandanti. «Ne ha tutto l’aspetto. Ci si potrebbe chiedere come mai avessero scelto proprio lui. Era forse un soggetto più debole degli altri, che si sarebbe prestato meglio a quella manovra? Avevano raccolto informazioni infiltrandosi nel gruppo degli apostoli? Di certo Giuda viene strumentalizzato e si rende conto di essere stato usato».

Sempre in Matteo, si impicca. «Mentre negli Atti degli apostoli gli viene riservata una morte più atroce. Giuda “precipitando in avanti, si squarciò e si sparsero fuori tutte le sue viscere”. Forse si tratta del rimando a un passo biblico del Libro della Sapienza circa il destino dei malvagi».

Ma non c’è solo il tradimento di Giuda. Assaliti dalla paura, gli apostoli abbandonano Gesù e fuggono. Pietro lo rinnega, anche se poi se ne pentirà. I Vangeli non sono testi auto-apologetici, altrimenti avrebbero omesso queste circostanze, diciamo, imbarazzanti. «È vero. Ci mostrano quella apostolica delle origini come una comunità fortemente umana, fragile. Soprattutto di fronte all’evento capitale della resurrezione, che li coglie increduli. Nelle ultime frasi del vangelo di Matteo si dice che dinanzi al Cristo risorto i discepoli si prostrarono, ma che “Essi dubitarono”. Essi. Non alcuni di essi, come era stato tradotto in un’edizione della Cei, poi corretta».

Nel 1978 fu ritrovato un manoscritto in lingua copta, forse risalente al IV secolo, il cosiddetto Vangelo di Giuda. Venne pubblicato nel 2006, forse non casualmente in pieno “effetto Dan Brown”. Di che si tratta? «È un apocrifo di orientamento gnostico, espressione di un cristianesimo di nicchia, che sente il bisogno di concepire la fede in maniera separata, raffinata, esoterica, provocatoria, e legge Giuda come il depositario di un cristianesimo alternativo. La pubblicazione del testo è stata accompagnata da un grande battage mediatico, ma per quanto interessante non penso che sia tra gli apocrifi più significativi».

A proposito di provocazioni, magari a suo modo lo era anche quella di don Primo Mazzolari che in una grande omelia del 1958 chiamò Giuda “fratello nostro”. Come a dire: non giudicatelo, non andatelo a cercare tanto lontano, Giuda siamo noi. «Il proverbio non recita forse: “Quando punti il dito per giudicare qualcuno, guarda la tua mano: altre tre dita sono puntate verso di te”?».

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