Tratto da “Il
silenzio dei cuori infranti” di Giuseppe Genna, pubblicato sul settimanale “l’Espresso”
del 10 di gennaio 2021: (…). La scuola, come l’amore, è simile a un
albero: purché sia seminato, spunta e penetra in profondità con le sue radici
in tutto il nostro essere e continua a verdeggiare anche sopra un cuore in
rovina. Ed è la rovina dei cuori che va osservata in questi incredibili e
patologici nove mesi, l’età del silenzio della scuola, dei portoni chiusi,
degli insegnanti ridotti a totem parlanti in Ffp2 o via etere: l’infarto della
programmazione e il black out delle relazioni. La sindrome Hikikomori, quella
psicosi con cui i ragazzi si confinano a videogiocare in stanze inaccessibili
senza più uscire, da emergenza rischia di farsi norma. I disturbi generalizzati
dell’apprendimento deflagrano nella popolazione giovane. I giovani, che
l’attuale età adulta riguarda come spiriti inermi, rischiano il danno
collaterale. Incombe un antico allarme, che un poeta sintetizzava così:
«l’Italia che ha insegnato a leggere al genere umano, l’Italia oggi non sa
leggere!». E non sa deliziarsi negli orrori della preadolescenza e prepararsi a
fare da cavia al mondo, prima di rivoluzionarlo, il che è un altrettanto antico
compito dell’adolescenza. La libertà di insegnamento e la fame di altri viventi
messe a repentaglio dalle molecole virali: un’ulteriore sconfitta di quell’ideologia
progressiva, con cui abbiamo cercato di trattare noi stessi e il mondo. La
constatazione del dolore è inutile, o semplicemente consolatoria, se quel
dolore non costituisce il motore con cui lo stato e le persone elaborano un
piacere maggiore, un vantaggio sull’aridità del reale. Il progesso diventa una
chimera, a cui nessuno bada più, perché i tempi sono fin troppo saturi di
progresso, cioè di aggiornamento tecnico. Ed è ciò che sta capitando, in un
crescendo wagneriano e contraddittorio, per cui si inneggia alla resilienza
(questa parola di successo, diventata gommosa) e al contempo alla rovina di una
generazione perduta. Bisognerà chiedersi: perduta a cosa? Resiliente a cosa? La
scuola, che è un universo dentro il mondo, lamenta lo stop ed è giusto che lo
faccia. Non si è tuttavia intercettato nessuno che abbia applicato alla scuola
la retorica per cui, dopo il virus, nulla sarà come prima e tutto dovrà essere
mutato. L’ignoranza nazionale è anzitutto esercitata,
più che a scuola, sulla scuola. Il Paese ha colpevolmente ignorato le
evidenti storture di un sistema educativo che fu d’eccellenza e che dalla
riforma Berlinguer (Luigi) è stato distrutto, attraverso altre riforme nominali
(Moratti, Gelmini, Renzi). E continua, questa ignoranza nazionale, a
perpetrarsi nell’uso eccessivo di vittimismo in questi mesi pericolosi. La
realtà non sembra sottoporre una pedagogia al consorzio umano, figurarsi se la
sottopone alla pedagogia stessa. Eppure qualcosa non tornava e non torna, in
una scuola che, a partire dalle elementari, e adesso anche dalle materne,
diagnosticizza i bambini e li inserisce nella condanna a vita dei Dsa (disturbi
specifici dell’apprendimento) e dei Bes (bisogni educativi speciali) e delle
cosiddette leggi 104 (il riconoscimento di handicap), tutti percorsi obbligati
a colpi di acronimi (sopra tutti il Pdp, il piano didattico personalizzato). Una
confusività in cui l’insegnamento diviene non lo strumento di una liberazione
personale, bensì il grande afflittore. La scuola non produceva benessere prima,
sottoponendo la generalità degli allievi a un delirio di performance cattivo e
inefficiente, attraverso l’impiego di mezzi ottocenteschi inadeguati alla
realtà del 2021. La pandemia esalta queste incrinature sociali, le allarga a faglie,
accelera i processi di senescenza, portandoli a morte. La risposta da fornire,
in termini di collettività, è proprio la presa di coscienza che oggi, col
Covid, tocchiamo con mano le storture di un sistema educativo che era già
putrescente tra i suoi Invalsi e le sue Lim (test di valutazione per insegnanti
e lavagna elettronica). Si finisce per sfinirsi, a essere genitori di chi
frequenta oggi la scuola in ogni ordine e grado. E ciò stando al discorso
didattico. Non parliamo di quello relazionale, estenuato da deliri di
performance che rasentano il dadaismo. Le ricerche sul metodo analogico di un
maestro di buona volontà e di certo genio, Camillo Bortolato, il cui nome e i
cui libri sono ricercatissimi e frequentatissimi, definisce il fallimento di
uno dei pilastri nazionali: su scuola e sanità si gioca il futuro di un Paese,
in entrambi è evidente che l’Italia è messa malissimo. Quali pensamenti sono
stati fatti in merito, in questi mesi di costrizione alla distanza? Quali cifre
sono state previste per la rivoluzione del sistema scolastico, nel piano
italiano di Recovery? La legge del mondo materiale è l’equilibrio, la legge del
mondo morale è l’equità: stiamo mancando questo principio. Non è affatto vero
che stavamo garantendo a tutti le stesse chance. Deve esserci una scuola prima
e dopo la pandemia. È richiesto un pensiero sistemico. L’equità sociale non è
una ricetta, ma l’esigenza politica e morale di tutti noi. Se manca questo
passo, siamo morti noi e i nostri figli, a cui tanto teniamo. Non si ricorda,
negli ultimi decenni, un movimento di massa che queste cose le abbia pretese.
Non gli adulti e non i giovani hanno su questo punto preteso il cambiamento. Il
buco nero della scuola risiede anzitutto qui. C’è un fattore decisivo, a questo
proposito. Secondo l’ordine costituito il trauma è la forma del male. Ovunque e
sempre, si è detto, ragazze e ragazzi hanno a che fare con traumi. È a partire
dalla cautela e dall’impossibilità di resipiscenza intorno al trauma, che la
società italiana contemporanea ha tratto una sua religione laica, pervasiva e
indiscutibile: tutto è trauma. Il Covid mostra che non c’è trauma, quando il
danno è esteso nello spazio e nel tempo. La scuola non subisce un arresto per
trauma. Invece matura il danno, enorme, per un’interruzione lunga, per un
esaurimento di forze. Le cicatrici dovranno suturare le ferite, ma le cicatrici
non sono solo questione di medico: sono questione di pelle, della reattività di
chi è stato ferito. Questa enorme materia, che ragazze e ragazzi affrontano in
questi mesi, è ciò che sembra sempre meno interessante insegnare o apprendere:
è la storia. La stiamo, la stanno vivendo. (…).
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