Ha scritto Wlodek Goldkorn in “Progresso”, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 3 di gennaio
2021: C’era una volta, un’epoca in cui gli uomini e le donne di quel pezzo
del mondo che ci ostiniamo a chiamare Occidente credevano che il futuro, loro
personale e dell’umanità intera, sarebbe stato migliore del presente. E che il
presente fosse preferibile al passato. La macchina a vapore, la luce elettrica,
gli esploratori delle terre lontane, gli scienziati che con il microscopio
scoprivano bacilli e germi erano indizi che il modo di pensiero razionale, la
fede nei Lumi, contrapposta al buio delle superstizioni considerate
“medievali”, la Scienza, avrebbero debellato la povertà, portato istruzione
alle masse e sconfitto le malattie. Quello sforzo verso il costante
miglioramento delle condizioni di vita, oltre a coinvolgere scienziati e
ingegneri, avrebbe dovuto essere guidato da uomini saggi in grado di prendere
decisioni non sempre facili, ma sempre per il “bene del popolo” e che di
mestiere facevano i politici. Scienza che avanza e politica che conduce e
organizza: era questo ciò che nel corso dell’Ottocento è stato chiamato
Progresso. O se vogliamo: era l’epoca degli ingegneri e delle Esposizioni
Universali, con i Crystal Palace di Londra e Torre d’Eiffel di Parigi e la loro
geometrica bellezza.Il Novecento segna la scoperta dell’altra
faccia del Progresso: non solo Shoah e Hiroshima come approdo della Tecnica, ma
anche i conti da fare con il colonialismo, con il patriarcato, la devastazione
del Pianeta Terra. Ma in questi giorni il vaccino contro Covid 19 ha riportato
la scienza al centro del nostro immaginario. Non più Frankenstein ma di nuovo
il buon dottore (spesso donna) che ci salverà e ci fa sperare. E alla Casa
Bianca, dopo quattro anni di un potere che disprezzava l’idea del bene comune
ed elevò la menzogna al rango di verità di Stato, arriva un uomo da tratti
ottocenteschi: razionale, moderato, convinto della centralità della politica
per ricostruire la nazione e forse l’Occidente. È tornato, pur con tutte le
antinomie di cui siamo consci, il connubio Scienza politica. È tornato il
Progresso. È a quel connubio “scienza-politica”, tanto caro a Wlodek
Goldkorn, che fa riferimento Ezio Mauro nel Suo editoriale “Restituire un futuro al Paese” pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 21 di dicembre dell’anno 2020, editoriale che di seguito trascrivo
in parte: (…) …scopriamo che mentre noi lo misuriamo col metro della giornata,
rinnovando ogni giorno la stessa fatica nella valutazione dei suoi progressi e
delle nostre difese, il virus va oltre e sfugge a ogni misura, perché in realtà
si nutre del nostro futuro. L'agente infettivo è anche un agente sociale. Ha
modificato le nostre abitudini, lo stile di vita, le relazioni interpersonali,
oltre ai corpi ha attaccato il lavoro, la produzione, la scuola, il commercio e
l'economia. Agisce sullo spazio, comprimendolo nel divieto di viaggiare, nel
distanziamento che segnala il pericolo reciproco tra ognuno di noi e gli altri,
nell'isolamento come forma finale di difesa, separandoci dal corpo sociale. Ma
soprattutto, il virus si è impadronito del tempo, insidiandolo fino a dominarlo
e stravolgerlo nell'uso comune che eravamo abituati a farne. È lui che
scandisce il ritmo della nostra vita, noi dobbiamo conformarci adattandoci alle
forme, ai modi, alle dimensioni del suo attacco. Il nostro tempo non è più
autonomo ma subordinato, perché non è libero. E noi siamo di conseguenza frastornati
dal provvisorio, confusi dall'indefinito, disorientati dal precario, perché non
siamo abituati a vivere fuori dal tempo, dove tutto diventa transitorio e ogni
riferimento è instabile, in una disconnessione universale in cui l'unico punto
fermo è la nostra condizione di vittime comunque designate. Non potendo più
investire sul futuro, non riuscendo a vincere, ci accontentiamo di trovare un
rifugio dentro il presente, che ci garantisca la condizione di scampati. E
fatalmente, quando il tempo non scorre la dinamica sociale impazzisce,
l'accumulo produce confusione, ribellione, sovvertimento. Nel sistema aperto in
cui vivevamo operava tacitamente uno scambio continuo tra presente e futuro che
teneva insieme dentro una regola condivisa - familiare, sentimentale,
professionale, previdenziale - i vecchi e i giovani garantendo il ricambio, il
passaggio delle stagioni italiane, la connessione tra oggi e domani, la pratica
del welfare, la disciplina generazionale, la trasmissione del sapere e persino
la continuità dei valori di fondo in cui un Paese si riconosce. Il virus ha
spezzato il filo naturale che collega l'oggi al domani, separando
definitivamente i giovani dai vecchi, segnalandoli come portatori di interessi
opposti o almeno concorrenti, e infine contrapponendoli nel momento supremo:
quando i regolamenti dei reparti di terapia intensiva prescrivevano che in caso
di emergenza con troppi malati a intasare gli ospedali, si dovesse operare una
selezione tra i pazienti, privilegiando nella cura quelli che avevano una
maggiore aspettativa di vita, dunque lasciando gli anziani in balia del male. Questo
è storicamente un punto di rottura nella nostra società che consideriamo
cristiana nella sua tradizione, democratica nelle sue regole, solidale nella
sua cultura. E la rottura sfonda esattamente la curva del tempo, interrompe la
sua fluidità, spezza la continuità tra oggi e domani, spacca il divenire
naturale tra il mondo dei padri e quello dei figli, come se non dovesse più
essere lo stesso. Valutando con una contabilità speciale gli esseri umani con
più anni da vivere, infatti, si svalutano necessariamente gli anni vissuti, la
ricchezza di ciò che si è incontrato, ciò che si è generato, ciò che si è
amato. Soprattutto si perde il significato morale e civile della trasmissione
dell'esperienza e della conoscenza che lega insieme in un continuum le
generazioni che si susseguono, in un deposito di senso che forma la coscienza
di una comunità e persino di una nazione: ed è l'unico antidoto al trascorrere
del tempo, cercando di governarlo trasportando nel futuro il segno più
significativo di ciò che abbiamo capito e vissuto, cioè la traccia di ciò che
resta perché è ciò che vale, e dunque dura. Esiste uno strumento nato per
mettere in connessione il presente e il futuro, ed è la politica. Vive
nell'oggi, giudica le scelte di ieri, promette il domani. È il ponte
necessario, la politica non soltanto come governo e amministrazione, come
potere, ma come sistema di idee e di valori, concezione del Paese, coscienza
del suo divenire, dei suoi obiettivi, della sua identità sociale e culturale. (…).
Solo la politica può infatti interpretare l'Italia di oggi nel cuore della
crisi, può darle un traguardo, può indicarle i sacrifici e le difficoltà che si
dovranno incontrare e infine può suscitare uno sforzo comune per trasformare la
lotta alla pandemia in una ricostruzione nazionale, che restituisce un futuro
al Paese. Ma bisogna che sia consapevole, autentica, credibile, come oggi non
è. L'anno terribile finisce autorizzando una doppia speranza, per la prima
volta dopo mesi, con l'avvio congiunto dei vaccini e dei fondi del Recovery
europeo. Sono due strumenti indispensabili per uscire dallo stato di necessità,
tornare a credere nel domani, contrastare con ottimismo la disperazione per la
pandemia e la sua capacità di aggiornarsi, mutando, e per avviare un percorso
di recupero e addirittura di rinascita. Soprattutto sono un investimento nel
futuro, il primo, dopo la lunga fase di difesa e di contenimento. Questo
significa dire responsabilmente ai cittadini che l'Europa è la cornice di
sostegno alla nostra civiltà, che scienza e medicina possono rimettere in
movimento il progresso e lo sviluppo paralizzati dal virus, che la democrazia
può riprendere il controllo dell'emergenza e governare l'eccezione, domandola.
Ecco perché non si può sprecare la doppia occasione: dopo l'incubo possiamo
riscattare il tempo, ritrovare un futuro, liberare la storia. Ricominciare.
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