Ha scritto Michele Serra in una Sua corrispondenza –
“Cattivi per scelta e non per necessità”
– del 22 di gennaio 2021, a seguito dei fatti del “6 di gennaio” nell’America
di Trump, corrispondenza pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica”:
(…),
quasi tutti gli arrestati per l'assalto al Congresso hanno un lavoro e una
condizione sociale non disagiata. Fanno parte, almeno formalmente, del ceto
medio (quello che il marxismo classico chiamava "piccola borghesia").
Daniela Ranieri, sul Fatto, ha definito quel tumulto "sedizione
satolla". Mi pare una sintesi felice. Non erano sottoproletari e
disoccupati. Non è stato un assalto ai forni, è stato un assalto alla democrazia.
Naturalmente si può replicare che il ceto medio è stato duramente colpito dalla
crisi, i suoi margini di benessere intaccati, le sue ambizioni frustrate: e si
ritorna all'idea che l'economia sia il solo vero motore del mondo, e le idee
(le ideologie) solo la veste che i conflitti di classe, di volta in volta,
assumono. Sono d'accordo al 51 per cento (mi è rimasto in corpo, dunque, un
tasso di marxismo ancora maggioritario). Resta un 49 per cento, non poca cosa,
che mi permetterei di definire: l'incognita umana. Qualcosa che sfugge alle
analisi socio-economiche (anche Marx, del resto, mise in guardia contro
"l'economicismo"...) e ci rimanda, mi scusi se mi allargo, alla
commedia umana, ai romanzi russi, ai romanzi francesi, a Shakespeare, ai
Promessi sposi... Un giorno di parecchi anni fa mi ritrovai a cena con Renato
Zangheri, ex sindaco di Bologna e importante studioso di storia. Mi disse che
c'era un conto che non gli tornava. Questo: l'anima del socialismo emiliano,
secondo lo schema interpretativo classico, avrebbe dovuto essere composta da
salariati e braccianti. Il proletariato agricolo. Ma molti dei padri del
socialismo agrario e del movimento cooperativo furono invece piccoli
proprietari (come i fratelli Cervi), assetati di innovazione e di modernità.
Gli chiesi se si era fatto una ragione di quella "anomalia". Il
marxista Zangheri allargò le braccia e rispose: la storia non è un meccanismo
di precisione, e noi abbiamo sempre sottovalutato l'animo umano. Per farla
semplice, (…), uno che assalta il Congresso inneggiando ad Auschwitz ha
certamente qualche ferita sociale che gli brucia. Ma è anche, se non
soprattutto, una cattiva persona, perché a milioni di altri offesi, esclusi,
emarginati, non viene in mente di diventare nazisti. Le idee, i sentimenti, le
attitudini umane contano quasi quanto l'economia: e nei momenti decisivi,
quelli in cui si sceglie che persona essere, contano persino di più. È la
“rabbia” della gente d’oggi, per l’appunto. Di questa “rabbia” ne ha scritto “profeticamente”
Maurizio Ferraris in “Nell’età della
rabbia rivive la dittatura del proletariato” pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del primo di febbraio dell’anno 2019: Il populismo ha realizzato, a sua
insaputa, una delle profezie dell’autore del "Capitale". Viviamo
infatti in un mondo in cui i governanti sono schiavi degli umori e
dell’applausometro dei follower: un insieme di monadi cariche di odio. Le
persone possono finalmente esprimere le loro opinioni, hanno gli strumenti e il
tempo per farlo, e queste opinioni sono per lo più manifestazioni di paura,
odio, invidia. Immagino l’obiezione: non è granché, (…). No, in effetti non è
granché, lo sapeva e lo prevedeva anche Marx, che aveva concepito la dittatura
del proletariato come fase intermedia nella transizione fra capitalismo e
comunismo, e ne riconosceva con esattezza la carica d’odio (aveva in mente la
Comune di Parigi). Ora, che cosa sono i populismi contemporanei, se non la
realizzazione della dittatura del proletariato? Da questo punto di vista, non
c’è nulla di più ingannevole del paragone tra i populismi mediatici e il
fascismo. Quest’ultimo era un governo autoritario, come del resto lo stalinismo.
Portava avanti un progetto politico incurante delle idee dei governati, e
questa, nel breve termine, era la sua debolezza rispetto alle democrazie
liberali, che dovevano fare i conti con l’opinione pubblica. Ma per quanto
influente fosse questa opinione resta che Churchill, nel luglio del 1940, con
la Francia arresa, l’Urss alleata alla Germania, gli Usa neutrali, poté
rifiutare le offerte di pace di Hitler. Oggi non avrebbe potuto, e, sarebbe
stata una eventualità molto peggiore della Brexit. Ecco il paradosso del
populismo. Nel momento in cui le merci più pregiate sono i documenti, diventa
facile proporre un programma elettorale vincente. Questo però non garantisce a
chi va al governo un qualche potere dispotico, magari rafforzato dal controllo
a mo’ di panopticon che sbircia nella vita dei governati. Succede esattamente
il contrario. Il panopticon (da Wikipedia: “Panopticon o panottico è un
carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham”
n.d.r.) è un panopticon privato, non statale, ed è un panopticon capovolto, per
cui il governante è lo schiavo dei sondaggi e del web
che l’hanno portato al potere, e dunque deve eseguire gli ordini di una
moltitudine che non è classe, e meno che mai è popolo, bensì una somma di
monadi tenute insieme dall’odio e dall’invidia sociale. I governati governano i
governanti, e questo non perché questi ultimi abitino una qualche casa di
vetro, ma semplicemente perché il Palazzo conosce davvero troppo bene cosa
vogliono gli elettori. Si è detto che i politici attuali ricordano gli
influencer sul web. Il paragone va preso alla lettera: come questi, sono
l’applausometro degli umori dei follower, dunque a ben vedere sono degli
influenced. Questa non è la realizzazione della democrazia e della politica, ma
è oclocrazia (concretamente: vi fareste governare da quelli che posteggiano in
terza fila? Bene, l’oclocrazia è questo). Quest’odio e questa invidia hanno
bersagli inadeguati e passatissimi, per esempio le banche, il grande complotto,
i poteri forti. Non considerano, ad esempio, che prestano i loro soldi alle
banche, mentre regalano i loro dati alle compagnie, e lo fanno probabilmente
perché non si rendono conto che si tratta di una ricchezza molto superiore in
sé di quanto non lo siano i soldi che mettono in banca. Nulla di più sbagliato,
ripeto, del vedere nel populismo un ritorno del fascismo, e uno stato
totalitario. Il fascismo è un governo autoritario e totalitario con una
progettualità immensa e catastrofica; il populismo è un governo irresponsabile
e parcellizzato, in balia dei molteplici e contraddittori desideri dei suoi
elettori. Ossia è la completa mancanza di progetto. Il vero compito, dunque, è
formare noi stessi un progetto, essere capaci di decisioni. Per farlo, è
necessario preliminarmente rispondere a un interrogativo. Come mai, se è
scomparsa la differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, se l’alienazione
è finita, se vige la dittatura del proletariato, le persone sono così
arrabbiate? Banale: perché lavorano gratis, però non lo sanno, tanto è vero che
il loro malumore si indirizza verso obiettivi immaginari. Difficile non
cogliere l’asimmetria tra dare e avere. I documenti che gli archivi forniscono
ai mobilitati sono generali e accessibili a tutti, per definizione: dunque non
offrono vantaggi competitivi. Le informazioni che i mobilitati offrono agli
archivi sono individuali e accessibili solo a chi li sa maneggiare dunque
offrono enormi vantaggi competitivi. Si aggiunga che i mobilitati pagano di
tasca loro i mezzi di produzione: apparati e abbonamento con il provider. Il
rapporto tra i mobilitati e le piattaforme riproduce dunque il classico rapporto
tra capitale e lavoro, con una variante importantissima, e cioè che qui il
lavoro non viene retribuito, e, prima ancora, non è neppure riconosciuto come
tale. Malgrado questo, è sentito sulla pelle delle persone e nella rabbia
sociale che è la reazione a un problema che ignora, e di cui avverte soltanto
il disagio. I populisti non vedono un punto cruciale: il problema non sta nel
capitale finanziario e nella globalizzazione, bensì nella grande asimmetria fra
mobilitanti, chi gestisce le piattaforme del web, chi interpreta i dati, e
mobilitati, chi naviga sul web. Mentre si maledicono le banche, non si pensa
che i veri "poteri forti" sono altri: Google, Apple, Amazon (e sin
qui lo sappiamo tutti); Tencent, Alibaba, Baxt, WeChat in Cina (e questi nomi
sono meno noti). E che i più forti tra questi poteri forti sono ignoti ai più,
e sono i nomi dei "miner" che scavano i dati e li interpretano:
Acsion, Criteo, Equifax, Experian, Quantcast, Tapad – chi li ha sentiti
nominare? E chi ha sentito nominare Privacy International, l’organizzazione che
ne indaga e ne denuncia le attività? Si tratta di conoscere e di riconoscere
che lo scambio che ha luogo tra le compagnie di gestione e ognuno di noi non è
uno scambio equo ma, proprio come nel caso del capitale industriale, comporta
una ingiustizia fondamentale, per cui i dati (che costituiscono il capitale del
XXI secolo proprio come le merci erano il capitale del XIX secolo e le finanze
quello del XX secolo) sono distribuiti in maniera iniqua. Da parte degli utenti
ha luogo una mobilitazione incessante e che non è neppure riconosciuta come
lavoro, né da chi lo offre né da chi lo riceve, eppure è lavoro a tutti gli
effetti, dal momento che produce valore. Dalla parte dei gestori, ha invece
luogo una capitalizzazione dei dati che produce dei guadagni molto superiori a
quelli del capitale finanziario. Riconoscere la natura del plusvalore
documediale costituisce un compito filosofico non meno necessario di quello
svolto da Marx al suo tempo, ed è preliminare a un’opera ancora più importante,
evitare che il Panopticon capovolto paralizzi la democrazia.
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