"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 5 maggio 2025

Lavitadeglialtri. 85 Virginio Colmegna: «Come facciamo a richiamare alcuni principi, se poi non li radichiamo nella dignità della persona? Se non mettiamo al centro della nostra riflessione la persona e la sua dignità?».


“La giustizia è degli ultimi”, testo venuto fuori dal confronto tra Gustavo Zagrebelsky e Virginio Colmegna pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, domenica 4 di maggio 2025: «In un mondo di grandi disuguaglianze, i problemi si possono impostare partendo dai potenti o dai deboli. Papa Francesco è stato rivoluzionario perché ha indicato la necessità di guardare i nostri problemi a partire dai deboli. Purtroppo la separazione tra deboli e potenti è stata ben rappresentata in piazza San Pietro, nell’“evento” in cui è stato trasformato il suo funerale: in prima fila i governanti e lo schieramento dei cardinali, il “popolo” tenuto lontano, oltre le transenne» commenta Gustavo Zagrebelsky.

(…). …don Virginio Colmegna: «Il grande insegnamento di papa Francesco è che dalla povertà viene un richiamo alla carità in rapporto con la giustizia, che chiede la conversione degli stili di vita, sull’esempio dei Vangeli. Papa Francesco ci ha fatto sognare una Chiesa povera, una Chiesa dei poveri, in un messaggio di condivisione della fraternità. In fondo, il grande insegnamento che ci ha lasciato con le encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, è superare l’assistenzialismo e portare i poveri al centro della costruzione di una società giusta».

Gustavo Zagrebelsky: «Sono stato colpito, durante una recente visita a Parigi, dalla vista del Palais de Justice, con i simboli imponenti della giustizia associata al potere, alla potenza e alla sovranità; una “giustizia” che schiaccia, che celebrava i riti del suo adempimento anche simbolico nell’annessa Conciergerie, l’ultima sosta dei condannati a morte prima di salire al patibolo. Dopo tanti, troppi anni di pratica nel mondo del diritto, rifletto. Quando ho iniziato, se mi fossi interrogato sulle ragioni d’essere diventato giurista, avrei forse detto a me stesso che il diritto ha un compito, la difesa e il sostegno delle ragioni degli impotenti contro i prepotenti. Gli umiliati, i deboli, gli sconfitti a che cos’altro possono appellarsi perché le loro ragioni siano riconosciute? I potenti hanno tanti mezzi per farsi valere. Hanno la forza e possono anche trasformarla in legge. Posso dire d’essere un tecnico al servizio d’una scienza la cui nobiltà consiste precisamente nell’essere protetta dalle perturbazioni delle passioni. Così è possibile non prendere posizione; cosa molto difficile da evitare se, invece che dal diritto, si procedesse a partire dalle esperienze concrete di vita delle persone. Non prendere posizione, tuttavia, significa evidentemente prenderla a favore dello status quo, spesso denominato il “sistema”, un concetto che codifica e, in un certo senso, nobilita gli squilibri di potere da cui derivano le grandi ingiustizie sociali. Prendere posizione può significare costruire alleanze: è possibile un’alleanza tra laici e credenti? C’è qualcosa che la impedisce? Laico o credente fa differenza, davanti alla Costituzione? Questo è il tema».

Virginio Colmegna: «Credo che la giustizia sia il terreno privilegiato su cui costruire quest’alleanza. Da parte mia, voglio provare a portare l’esperienza, l’incarnazione di questa possibilità. Quando il cardinal Martini volle affidarmi la costruzione della Casa della Carità, dove avrei vissuto per oltre vent’anni, andai da lui e obiettai: “La parola carità non mi convince, viene confusa con beneficenza, elemosina, sussidio; è ormai impoverita, nel senso comune, del suo valore di condivisione e di alternativa”. Lui mi rispose: “No, la parola carità va rispolverata, non dobbiamo privarcene; dobbiamo invece riappropriarcene, farla nostra, perché abbracci la giustizia spingendola oltre l’utilità sociale. Valorizza questa parola”. La solidarietà, si pensava allora, è il terreno dei laici, mentre la carità, la benevolenza, la bontà sono il terreno dei credenti. Il superamento di quella divisione nacque durante un dibattito dove riuscimmo a connettere i vari aspetti partendo da un diverso punto di riferimento: l’ingiustizia, la disuguaglianza, la debolezza, la fragilità; tutto ciò che mostra l’incrinatura del confine che attraversa la complessità».

G.Z.: «“Solidarietà” parola laica, “carità” parola cristiana. Può essere, ma non sono in contraddizione. Semmai, la seconda aggiunge una motivazione ulteriore alla prima. Giustamente, da credente, parli di spiritualità, e la spiritualità la possiamo riscontrare dappertutto. Altrettanto giustamente, secondo me, ne vedi la sostanza anche nella Costituzione, che è un documento, diciamo così, secolare. La Costituzione italiana è il risultato di diverse “confluenze” politiche e ideali. Il segno dell’umanesimo cristiano c’è ed è ben visibile, così come c’è un umanesimo che si fonda su radici culturali autonome. Oggi ci si sorprende che quella confluenza ci sia stata, in anni di contrapposizioni radicali. Pensiamo, tuttavia, che al tempo si avevano alle spalle la dittatura, il colonialismo, il razzismo, l’ideologia fascista, la guerra: un coacervo di esperienze vissute, non una biblioteca di teorie politiche dalle quali attingere fior da fiore».

V.C.: «Per trovare il senso della giustizia bisogna dubitare. Rifuggo da chi ha una visione manichea di cosa sia giusto e cosa sbagliato. Fu Martini a dirmi: “Per credere, devi far parlare il non credente che è in te”. Mi consegnò l’orizzonte laico del discorso. Per credere bisogna anche dubitare, far parlare il non credente che è in noi».

G.Z.: (...) Quella tensione tra credente e non credente che, forse, è presente in ogni umana esperienza quando facciamo opera di autoriflessione a contatto con le esperienze della vita non è un modo per collegare inevitabilmente ed essenzialmente l’astratto con il concreto?».

V.C.: «Dal punto di vista di un cristiano, dunque di uno che è animato dal Vangelo, ritorna sempre la stessa domanda: come facciamo a richiamare alcuni principi, se poi non li radichiamo nella dignità della persona? Se non mettiamo al centro della nostra riflessione la persona e la sua dignità? Il cardinal Martini citava la parabola del Samaritano per dire che non sempre i sacerdoti si fermano ai bordi delle strade: spesso vanno avanti tranquilli, hanno le loro funzioni da svolgere. In quel caso la religione si “accomoda” al potere, al massimo fa qualche beneficenza, ma senza essere capace di radicarsi nei diritti. Il Samaritano, invece, scende dalla cavalcatura, si prende carico, si fa carico, si ferma a deporlo in quella che chiamo “l’osteria dei diritti”. Dice all’oste: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”».

G.Z.: «E poi ritorna. Ritorna per controllare come stanno le cose».

V.C.: «Esatto. Si fa artigiano di cura. Questa è una lettura del potere. Quando ero insegnante di religione, il preside della mia scuola chiese alla diocesi di esonerarmi dall’insegnamento perché leggevo in classe Lettera a una professoressa di don Milani. A quei tempi era una lettura scomoda, forse lo è anche adesso. Il nodo continua a essere la dignità della persona che segna il superamento dell’assistenzialismo, della pietà generica, per diventare assunzione di responsabilità, condivisione, reciprocità. L’assistenza è una forma subdola di potere. “Hai bisogno di soldi, ti do i soldi, ma il potere lo tengo io”. Rovesciare le prospettive, questo va fatto. Vale anche per la giustizia. Pensiamo a don Andrea Gallo, una grande figura che senz’altro riprenderemo a proposito della Costituzione, o a don Primo Mazzolari che, vissuto in periodo democristiano, nel Giovedì Santo del 1958 tenne una predica su «nostro fratello Giuda» che fece grande scandalo nella sua parrocchia di Bozzolo».

G.Z.: «La conosco bene. Avevo quel discorso su un 78 giri in vinile.

V.C.: «Anch’io ho ascoltato quel 78 giri, e sono cresciuto con l’idea di nostro fratello Giuda, il reietto per antonomasia. Oggi, chi è più reietto di chi si consuma nelle nostre carceri? Dovremo parlare del dramma che si vive oggi nel carcere inteso come contenitore di scorie; e dovremo parlare di potere».

G.Z.: «Certamente dobbiamo parlare del carcere, e di povertà, di malattia, di abbandono, mettendoci in ascolto delle voci dei respinti ai margini; chiedendoci se la Carta fondativa della nostra democrazia costituzionale – così come il Vangelo è fondativo per i credenti – sia davvero messa in atto; se sia fatta vivere nel suo dettato e nel suo spirito più vero e profondo, ovvero se esista una “Costituzione dei poveri”; o se invece da quella nostra casa comune proprio i poveri siano sostanzialmente respinti. Ogni politica dovrebbe cominciare da qui, e quando non accade, si dà il fallimento delle politiche che chiamiamo sociali, democratiche, progressiste, e il ritorno delle pulsioni più egoistiche, feroci, e al fondo potenzialmente criminali».

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