"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 1 maggio 2025

Lastoriasiamonoi. 58 Francesco Pallante: «Tornare alla concezione del lavoro come diritto: quella della Carta».


(…). …ci sono i referendum sul lavoro. Uno riguarda la sicurezza: i morti aumentano ma, chiacchiere a parte, la politica sembra disinteressarsene... «La mancata sicurezza sul lavoro è una ferita costituzionale sanguinante. Il lavoro non solo è precario e povero, oramai sempre più spesso è anche mortale. Gli esperti spiegano che le catene di appalti e subappalti rendono impossibile assicurare la sicurezza a chi lavora nei cantieri. È chiaro che è lì che occorre intervenire, ma sinora la politica è rimasta inerte. Il referendum mira a sanare questa ferita».

Precarietà: l'esempio della Spagna, che è tornata indietro, non è servito... «Il caso spagnolo è interessante perché dimostra che, contrariamente a quanto viene ripetuto, rafforzando i diritti dei lavoratori si rafforza il sistema economico nel suo complesso. Per questo i referendum che puntano a ostacolare i licenziamenti e a ridurre i contratti a termine sono fondamentali: procurano beneficio a tutti, non solo ai lavoratori dipendenti».

L'abolizione del Jobs Act crea imbarazzo nel Pd. È solo una questione simbolica o cambierebbe davvero qualcosa? «I referendum sui licenziamenti e sui contratti a termine produrrebbero cambiamenti immediati e importanti nella vita dei lavoratori, inclusi quelli che lavorano nelle piccole imprese (la gran parte di quelle italiane). Per i datori di lavoro il licenziamento disposto in violazione della legge sarebbe più costoso e si amplierebbero le ipotesi di reintegra. Quanto ai contratti a termine, il loro utilizzo sarebbe circoscritto a situazioni connotate da esigenze produttive oggettive. Chiaramente tutto ciò avrebbe anche un'enorme portata simbolica. L'idea alla base del Job Act (ma, ancor prima, del "pacchetto Treu" e della "legge Maroni") era che il lavoro fosse un mero costo di produzione, da ridurre al minimo. I referendum puntano a tornare alla concezione del lavoro come diritto: quella della Carta. (Tratto da “Referendum oscurati, temono che il lavoro ritorni un diritto”, intervista di Silvia Truzzi al costituzionalista Francesco Pallante pubblicata su “il Fatto Quotidiano di oggi, giovedì primo di maggio 2025).

“Chi ha paura dell’égalité”, testo della intervista di Riccardo Staglianò all’economista Thomas Piketty pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” di oggi, giovedì primo di maggio 2025: (…). A giudicare da chi governa in America, Francia, Italia, mi sembra che “socialismo” sia un termine in dismissione… «Può essere, ma credo che gli intellettuali come me non esistano per ripetere ciò che tutti dicono, in particolare in questo periodo in cui il ripiegamento identitario e nazionalista è molto forte, o per prendere la strada più facile e scontata. La storia ci mostra che le società umane hanno tutta l’immaginazione per trovare nuove forme di cooperazione e, nel lungo termine, spingere il sistema economico verso più uguaglianza. Cioè, io penso fondamentalmente che la storia del progresso umano esista. Passa attraverso la sicurezza sociale, la scuola gratuita e universale, le elezioni. E che questo processo, nonostante tutto, continuerà».

La sua fama, semplificando al massimo, è dovuta dall’aver spiegato che, nel corso dei secoli, il valore delle rendite è quasi sempre cresciuto più di quello del lavoro. E nell’averci ricordato, (…), che sebbene le disuguaglianze siano oggi molto gravi erano peggiori nei secoli scorsi. Ma questo non ci può bastare, no? «Certo che no! Ci sono state letture pessimistiche del mio Il Capitale nel XXI secolo e questo mi ha intristito perché io sono di indole ottimista. Nei libri successivi, soprattutto in Breve storia dell’uguaglianza, ho insistito molto su questa dimensione ottimista e, spero, mobilitante. Ovvero che il movimento estremamente potente che negli ultimi due-tre secoli, dalla Rivoluzione francese in poi, ha portato dall’abolizione della schiavitù alla sovranità popolare verso l’uguaglianza, è un movimento ancora in marcia».

Nei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale la disuguaglianza tra ricchi e poveri in Occidente si è ridotta. Complice il fatto, mai abbastanza ripetuto, che nonostante (o a causa di?) imposte enormemente più alte, fino al 90 per cento, anche in America negli anni 50 e 60, la produttività fosse ai massimi. Perché allora, se tutto andava bene, dagli anni Ottanta si impose il neoliberismo di Reagan e Thatcher? «Prima della Prima guerra mondiale, le spese pubbliche erano meno del 10 per cento del reddito nazionale in tutti i Paesi. Oggi, in quelli europei, siamo al 40-50. Nessuno vuole tornare indietro sopprimendo la scuola, la sanità, le infrastrutture pubbliche. Ma se un secolo fa avessimo detto alle élite dell’epoca che saremmo passati a spese pubbliche pari a metà del reddito nazionale, avrebbero obiettato che si trattava di comunismo, che sarebbe stata una rovina economica. E invece è stata la più grande crescita della produttività e della prosperità che abbiamo mai visto. Quindi questa battaglia, che io chiamo la rivoluzione dello Stato sociale, o la rivoluzione socialdemocratica, è stata vinta. A partire dagli anni 80-90, il movimento socialdemocratico in senso lato si è esaurito innanzitutto perché vittima del proprio successo. Nel senso che c’era la sensazione che non ci fosse più bisogno di far progredire il sistema sociale. Le risorse pubbliche messe sull’istruzione, per dire, sono decuplicate dal 1910 al 1990, passando dallo 0,5 per cento del Pil a circa il 5-6. E lì sono rimaste, nonostante una popolazione studentesca da allora raddoppiata. Ma il neoliberismo si è rafforzato anche in seguito alla caduta del comunismo sovietico. Malgrado l’immenso fallimento che ha rappresentato, infatti, finché il socialismo reale è esistito metteva pressione sul sistema capitalistico. Mentre, a partire dal 1990-2000, i socialdemocratici occidentali si sono forse un po’ seduti sugli allori».

L’euforia neoliberale, scrive, comincia a sgretolarsi con la crisi del 2008, poi il Covid, fino al trumpismo di oggi… «Se la promessa di prosperità del reaganismo avesse funzionato, cioè se la diminuzione delle imposte sui più ricchi e la deregolamentazione avessero portato a una crescita senza precedenti dei redditi della classe media negli Stati Uniti, oggi andrebbe tutto bene. Se invece le cose vanno così male, e il partito repubblicano è diventato quello che è diventato, è perché il fallimento del reaganismo ha condotto a una fuga in avanti verso il nazionalismo. Un’evoluzione quasi inevitabile. Reagan era un ottimista, credeva nella crescita e nel mercato. Trump no. E ha iniziato a dire “Beh, il resto del mondo – messicani, cinesi, europei – vi ha tolto il lavoro, vi ha derubato”. È ancora di più della fine del neoliberismo: bisognerà imparare a ripensare il mondo perché gli Stati Uniti hanno cessato di essere un paese affidabile. Con un capo totalmente instabile ed erratico e nessuna forza democratica che permetta di calmare le acque».

Ma perché ha vinto proprio Trump, un miliardario famoso per sfruttare i lavoratori? E perché lo votano anche i poveri? «Io penso che ci sia una responsabilità molto forte dei democratici. Che, sia sotto Clinton, Obama e Biden hanno dimenticato le classi popolari. I repubblicani hanno catturato una parte importante del voto popolare col protezionismo. Si dovrebbe abbandonare la religione del libero scambio assoluto: ci possono essere alcune protezioni commerciali ma alla fine servirà comunque della redistribuzione. Ciò che vorrei, soprattutto oggi, in Europa, è che sia la destra che la sinistra capiscano che dobbiamo rilanciare il nostro continente. Bisogna uscire da questa specie di maltusianesimo in cui non osiamo investire, non osiamo spendere. Spesso in Europa amiamo stigmatizzare i surplus della Cina, ed è vero che la Cina fa surplus commerciali enormi inondando di merci il Pianeta mentre sarebbe meglio aumentare i salari in Cina. Ma in Europa abbiamo un po’ la stessa tendenza, perché siamo ossessionati dalla questione dei deficit pubblici. Se prendiamo gli ultimi quindici anni, l’Europa ogni anno ha un surplus della sua bilancia dei pagamenti dell’ordine del 2 per cento del Pil, il che sembra poco ma invece è molto. Significa che in Europa consumiamo e investiamo meno di quello che produciamo, proprio quel deficit commerciale che ci rinfacciano gli Stati Uniti. A prescindere da Trump, l’Europa deve tornare a investire nel suo futuro».

Suona bene ma, in pratica, investire su cosa? «Destra e sinistra non avranno le stesse priorità. Forse la destra metterà più risorse, che so, per fare muri contro i migranti o per la difesa militare. Ma non ne sono nemmeno sicuro, perché i nazionalisti oggi in Europa non sono particolarmente militaristi. Mentre la sinistra metterà forse più l’accento sull’istruzione, la sanità. Insomma serve costruire strumenti che permettano di proiettarci nel futuro. Uscire dall’illusione che vivremmo al di sopra dei propri mezzi, quando è vero il contrario».

I dazi imposti da Trump: è davvero la fine della globalizzazione? E se sì, bisogna solo rammaricarsene o è necessario un giudizio più articolato? «Penso che l’Europa debba rivolgersi ai paesi del Sud, al Brasile, all’India, al Sudafrica, all’Africa subsahariana e proporre di mettere in atto un’altra forma di globalizzazione, un multilateralismo molto più sociale, ecologico, al posto del multilateralismo liberale che abbiamo avuto finora. In pratica significa sostenere le rivendicazioni dei Paesi del Sud per riformare finalmente la governance del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale, dove sin qui hanno comandato i Paesi che avevano il potere nel… 1945. Cristallizzando così un insostenibile sistema di sfruttamento del Sud. In Sahel il budget per l’istruzione di un bambino non è nemmeno di 200 euro all’anno, a parità di potere d’acquisto. Ovvero 40 volte meno di un bambino europeo, 50 meno di un americano. E poi parliamo di crisi migratoria? Come vogliamo che quei Paesi si sviluppino in condizioni del genere? È il momento di cambiare. L’anno scorso al G20 l’Europa si è opposta alla proposta del Brasile di introdurre più giustizia fiscale a livello mondiale. La Ue, inclusa Francia e Italia, ha votato contro un progetto di convenzione quadro all’Onu per una fiscalità più equa dal momento che i Paesi europei, come gli Stati Uniti, vogliono mantenere queste questioni dentro all’Ocse, un club di Paesi ricchi. Ma oggi, con l’atteggiamento di Trump, è veramente il momento di rivolgersi ai paesi del Sud e l’Italia potrebbe avere un ruolo importante in questo dialogo. Quindi ci vuole una nuova globalizzazione, più favorevole ai paesi del Sud».

Lei auspica un “socialismo partecipativo”, intendendo che almeno metà dei diritti di voto delle aziende vada ai rappresentanti dei lavoratori, che sarebbe una vera rivoluzione. E parla di “socialismo democratico”. Ma socialismo è una parola ancora pronunciabile se si aspira a governare? «Per me “socialismo democratico” è semplicemente la continuazione della socialdemocrazia, il più grande successo del XX secolo. Quindi sì, possiamo continuare a utilizzarla. Se poi a qualcuno non piace la parola e preferisce parlare di socialdemocrazia, non ho alcun problema con questo».

Se in America ogni giorno va in scena un nuovo episodio del Trump Horror Picture Show anche in Europa cominciano a succedere cose inedite. Con Ursula von Der Leyen che vuole mettere 800 miliardi di euro non sull’auspicabile difesa comune ma su un riarmo individuale degli stati. Sono soldi ben spesi secondo lei? «Penso che sarebbe un errore destinare così tante risorse ai bilanci militari. Il vero argomento sarebbe unire le difese europee. Se si sommano i bilanci militari di tutti i Paesi europei si ha già un bilancio che è molto superiore a quello della Russia. Quindi il vero obiettivo non dovrebbe essere accumulare sempre più carri armati e caccia da stipare negli hangar. Mettere più soldi è la cosa più facile, fa piacere alle industrie della difesa. Ma la questione è politica: trovare meccanismi per arrivare a decisioni congiunte in modo tale che, coi mezzi di cui già disponiamo, si possa pesare sul serio nei confronti della Russia».

Sempre sul dove trovare i soldi, e tornando alle altissime aliquote dell’età d’oro del capitalismo, si potrebbe dire: rialziamole ai più ricchi e le cose miglioreranno per tutti gli altri. Eppure, anche a sinistra, nessuno osa parlarne: perché? «Penso che l’imposta sulle grandi fortune farà la sua riapparizione molto presto nel mondo perché, vista la progressione vertiginosa dei patrimoni dei miliardari, è semplicemente irragionevole privarsi di questi mezzi. Dunque credo che su questi temi i politici siano semplicemente un po’ in ritardo rispetto all’opinione pubblica. Dovranno adattarsi abbastanza velocemente».

A me sembra che “patrimoniale” sia ancora una parola radioattiva. Il suo ex presidente Hollande aveva vinto le elezioni promettendo di imporla ai multimilionari. Poi fece retromarcia quando Gérard Depardieu minacciò di lasciare la Francia. È anche vero, però, che in Spagna ne esiste una da qualche anno, come pure in Norvegia e in Svizzera. E se ne parla anche altrove… «Credo che chi ha accumulato fortune importanti utilizzando le infrastrutture del proprio Paese – il sistema d’istruzione, quello sanitario e tutto il resto – deve continuare a pagare un’imposta su questa fortuna, anche se cambia Paese. Infatti se uno ha nazionalità statunitense, anche se va a stare altrove, continua a pagare le imposte in America. Potremmo anche noi adottare un sistema analogo. Meglio ancora sarebbe non guardare alla nazionalità ma al numero di anni trascorsi nei diversi Paesi. Mi spiego: se hai vissuto 50 anni in Italia e poi un anno in Svizzera, beh, continuerai a pagare 50 parti di tasse sul patrimonio in Italia e una in Svizzera. È solo una questione di buon senso».

Sono totalmente d’accordo che far pagare una patrimoniale sarebbe assoluto buon senso. Lo diceva (e continua a dirlo) il senatore Bernie Sanders negli Stati Uniti. Ma nel 2016 non è diventato il candidato dei democratici e non ce l’ha fatta neanche nel 2024… «Vero, ma ci è andato molto vicino. E io penso che gli Stati Uniti, e il mondo, oggi starebbero meglio se avessero avuto Sanders o Elizabeth Warren come presidente. Bisogna ricordare che nel 2020, nelle primarie del partito democratico tra Biden da un lato e Sanders e Warren dall’altro, tra i più giovani c’era una grandissima maggioranza per questi ultimi. Biden ha vinto solo con i voti dei più anziani, il che va benissimo, ma dimostra che avrebbe potuto finire diversamente. È stata solo un’occasione mancata, in futuro ce ne saranno altre».

Non voglio intignare troppo ma nel suo Paese i socialisti sono letteralmente scomparsi. Io e lei possiamo essere d’accordo, ma poi la maggioranza vota diversamente e tocca farci i conti, no? «Allora, ogni Paese ha una storia diversa con i suoi partiti politici. In Francia, come in Italia, c’è spesso stata una forte concorrenza a sinistra tra diverse organizzazioni. Per molto tempo, nel dopoguerra, il Partito comunista è stato più forte del Partito socialista. Poi i socialisti hanno avuto la meglio. E poi la France Insoumise di Mélenchon li ha superati a sua volta. Ora siamo in un periodo di parità. Forse ciò di cui avremmo soprattutto bisogno è di una Federazione democratica della sinistra che permetta a ciascuno di apportare qualcosa. Agli elettori questi conflitti tra diverse parti della sinistra, tra apparati partitici, non interessano molto. Sono molto pragmatici. Il Partito socialista è stato molte volte al potere in Francia nell’ultimo secolo, e tanti elettori ne sono rimasti delusi. Una federazione della sinistra in Francia, invece, oggi potrebbe vincere. Era già in testa alle elezioni legislative l’anno scorso e mi spiace che non le abbiano dato la responsabilità di governo e la chance di fare meglio di Hollande quando era al potere».

In un’intervista a El País di qualche anno fa lei ha dichiarato: “Siamo a un livello di disuguaglianza che ricorda quello prima della Rivoluzione francese”. Se è così, perché le persone non si arrabbiano sul serio? «Non ho sottomano il testo completo dell’intervista ma articolerei meglio il concetto. Se si pensa al livello di ricchezza dei più grandi miliardari, abbiamo effettivamente un livello di concentrazione che è estremo. Ma sotto altri aspetti viviamo ovviamente in una società molto più egualitaria che alla vigilia della Rivoluzione. Ciò lo dobbiamo a mobilitazioni politiche estremamente forti contro la considerevole resistenza delle élite e dei gruppi facoltosi. Dunque la marcia verso l’uguaglianza è un processo che si è sempre fatto nel dolore, nelle difficoltà, nelle lotte e reinventando le regole del gioco. Per esempio puntare a un federalismo democratico che permetta in Europa di avere imposte in comune e un bilancio comune. È una sfida enorme: costruire la fiducia dei cittadini su istituzioni di questo tipo non è facile. Non solo per la resistenza delle élite. Serve uno sforzo di immaginazione prima, e di deliberazione poi, che nel lungo termine potrà superare ogni difficoltà. A condizione però di riconoscerle».

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