(…). «Per me questa è una storia amara», (…). A sedici anni ebbi la tubercolosi e fui ricoverato in un sanatorio, ed è lì che io, già impegnato nell’antifascismo, diventai comunista. Quando uscii, avevo 18 anni, degli amici mi portarono a ballare e incontrai questa giovane donna, Lina, che aveva già due figli perché i genitori benestanti l’avevano fatta sposare giovanissima, a 13 anni, con un uomo molto più anziano di lei. Ci innamorammo subito e mi trovai militante clandestino e con un amore illegale. Avvenuta la Liberazione le chiesi di metterci insieme, con lei e con i suoi due bambini andammo a vivere in una piccolissima casa. Poi la mamma ci diede una casa un po’ più grande. Una mattina presto bussò alla porta il maresciallo Vacirca, che aveva fatto le elementari con me, e mi disse: «Ho un mandato di cattura, vi debbo arrestare». E così ci portarono in carcere per adulterio. I miei avversari politici avevano spinto il marito a fare denuncia, ci fu il processo e fummo condannato a sei mesi di carcere, ma fummo liberati con la condizionale. Allora ero nella segreteria del partito a Caltanissetta. Uscito dal carcere, quello che era stato il mio capocellula, Boccadutri, mi disse che avevo sbagliato, che la gente non capiva e così andai a fare il segretario della Camera del lavoro, poi Di Vittorio mi chiese di fare il segretario regionale della Cgil, dove rimasi fino al 1958». (…).
Macaluso, facciamo questa intervista a 35 anni dalla morte di Enrico Berlinguer, che lei ha conosciuto molto bene. «Berlinguer, del quale per anni sono stato il più stretto collaboratore, soprattutto in ragione dell’intervista sulla questione morale concessa a Eugenio Scalfari nel 1981, viene presentato come un moralista, ma credo che sia molto riduttivo. Berlinguer è stato un erede di Togliatti e della via democratica al socialismo, un gradualista. Anche il compromesso storico restava nell’ambito dell’impostazione togliattiana poiché Enrico pensava che andassero coinvolte le masse popolari cattoliche, a partire però dall’unità tra comunisti e socialisti. Il suo merito maggiore fu distaccare il Pci dall’orbita di Mosca. Nel 1976, intervistato da Giampaolo Pansa sostiene che il socialismo si costruisce meglio stando nel Patto Atlantico; poi va a Mosca e afferma il valore universale della democrazia, accolto da una freddezza glaciale. Quando torna firma insieme alle altre forze politi- che democratiche un ordine del giorno nel quale si riafferma che la politica estera italiana è retta dal patto atlantico e dall’europeismo. Questo è un passaggio di campo, tant’è vero che Mosca da quel momento considerò Enrico uno dei nemici principali».
Lei custodì per molti anni un segreto importantissimo che lo stesso Berlinguer le aveva rivelato... «Nel 1973 Enrico andò in Bulgaria dove ebbe un incidente automobilistico molto grave, tanto che il suo accompagnatore morì e Berlinguer fu portato in ospedale, ma volle rientrare subito in Italia con un volo speciale. Quando tornò a Botteghe Oscure andai a salutarlo e lo trovai molto turbato e allora gli domandai: ma tu credi che non sia stato un incidente? E lui mi disse: “Non penso che sia stato un incidente, ma tu non devi dirlo a nessuno, neppure a tua moglie. Mai”, perché temeva che si sarebbe scatenato un cataclisma internazionale. Lo disse solo a me, a sua moglie e ai suoi figli. Diversi anni dopo, Giovanni Fasanella, che allora lavorava a Panorama, venne a farmi un’intervista e contestava la profondità della rottura di Enrico con l’Urss. Io gli dissi: guarda che mi hai rotto i coglioni, tu non sai cosa ha rischiato Berlinguer e gli raccontai l’episodio. Lui lo scrisse e partì una raffica di smentite: il fratello Giovanni, il segretario del partito, Natta. Ma la moglie intervenne e confermò le mie parole».
Impossibile parlare di Berlinguer senza parlare dei suoi rapporti con Bettino Craxi. «All’inizio non ci fu una pregiudiziale anti-craxiana, anche perché il primo congresso con Craxi segretario, a Torino, era stato dedicato all’alternativa. Il problema si pone dopo la morte di Moro: nessun partito ha più una strategia. La Dc torna al pentapartito abbandonando la politica morotea di apertura al Pci, che non era, come scioccamente si sostiene, quella di portare il Pci al governo, ma di condurlo dentro l’area di governo per dare poi vita all’alternanza tra schieramenti alla guida del paese. Ma il filo del dialogo con i socialisti regge anche dopo l’intervista sulla questione morale del 1981. Prima delle elezioni del 1983 c’è l’incontro delle Frattocchie, tra due delegazioni guidate da Berlinguer e Craxi che si conclude con un comunicato congiunto. Quindi non è vero, (…), che dopo l’intervista sulla questione morale c’è stata solo la guerra. Questo è quello che pensava Scalfari che aveva fatto la campagna elettorale a favore di De Mita, non certo del Pci, titolando il giorno del voto: O Craxi o De Mita. Ma la Dc perse quasi 7 punti, il Pci rimase attorno al 30 per cento, i socialisti al 14. A quel punto De Mita propone a Craxi di guidare il governo. È allora che Berlinguer si sente tradito da Craxi, e pensa che la guida socialista di un governo nato contro il Pci avrebbe inevitabilmente acuito la contrapposizione tra socialisti e comunisti. E lui non solo l’accetta bensì l’accentua, ma Craxi fece anche delle cose positive, penso a Sigonella. Insomma, non si può certo dire che il suo fosse un governo di destra. La discussione con Enrico comincia quando, dopo il terremoto dell’Irpinia, compie la “svoltina” di Salerno abbandonando il compromesso storico e lancia l’alternativa democratica, senza specificare con chi. E su questo la polemica l’avevo aperta io. Contestavo che il Pci potesse fare l’alternativa da solo. Poi, dopo l’intervista sulla questione morale, Giorgio Napolitano e Gerardo Chiaramonte gli contestarono che la politica non può essere ridotta alla questione morale».
Nel febbraio del 1984 ci fu la polemica sul gerundio: Berlinguer denunciò che il governo Craxi era diventato pericoloso per la democrazia, mentre l’Unità diretta da lei titolò: sta diventando pericoloso. «È possibile. I titoli li facevo da solo e Berlinguer li leggeva il giorno dopo. Un giorno accadde che scrissi uno dei miei corsivi polemici (…) su una dichiarazione di Achille Occhetto sulla Rai. Allora Berlinguer mi telefonò, ma io gli dissi: guarda Enrico, io giudico le cose secondo la mia visione, non quella dei dirigenti del partito, altrimenti questo non è più un giornale. Il mio rapporto personale con Enrico, però, non si incrinò mai».
Perché oggi al popolo di sinistra, (…), manca così tanto Berlinguer e perché i giovani sembrano affascinati più da voi, ragazzi del ’900, che dai dirigenti attuali e del recente passato? «Perché siamo di fronte a un vuoto. L’immaginario collettivo, anche dei più giovani, secondo me rimane colpito dal modo in cui Enrico ha vissuto, e anche da quella sua morte, su un palco, a Padova, in piena campagna elettorale, tamponandosi la bocca con un fazzoletto per arrivare fino alla fine del suo discorso. Egli appariva totalmente disinteressato, e lo era, al proprio tornaconto personale. La generazione di D’Alema e di Veltroni, dopo Occhetto, ebbe come preoccupazione principale quella di andare al governo e in effetti ci andarono tutti: D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani. Io non critico il fatto che siano stati al governo, il problema è che tanto il Pds e ancor di più il Pd hanno smesso di coltivare una presenza nella società, di suscitare lotte e movimenti, trasformandosi in puro ceto politico preoccupato solo di stare al governo».
Macaluso vedo che tiene in bella vista il numero dell’Espresso dedicata al nuovo segretario del Pd. Anche per lei Zingaretti è il compagno Boh? «Parliamoci chiaro: Nicola Zingaretti non ha lo spessore culturale dei grandi leader che ha avuto la sinistra. Come, a parte la grinta, non l’aveva neppure Matteo Renzi. Dal punto di vista della cultura politica sono molto modesti, ma oggi sul mercato politico non è che ci siano grandi leader, se la politica è dominata da due personaggetti come Salvini e Di Maio. Credo che Zingaretti abbia capito che deve cambiare il modo d’essere del Pd e mi fa piacere che abbia conferito a Martina il compito di riformare lo statuto del Pd che è davvero incredibile: organismi sterminati e perciò pletorici, le primarie per eleggere il segretario. Ma se gli iscritti non possono eleggere il segretario, che cazzo fanno? Il Pd non è un partito, è un aggregato politico-elettorale. Comunque nella situazione attuale non c’è il meglio, possiamo scegliere solo il meno peggio. Per questo ho sempre votato e suggerito di votare per il Pd. A me sembra che Zingaretti sia il meno peggio, ma non è detto che debba fare il candidato premier che, lui sì, deve essere scelto con le primarie: Gentiloni sarebbe un ottimo candidato e anche Sala ha fatto molto bene come sindaco di Milano».
Si torna a parlare di scissioni nel Pd. «Io non amo il Pd, ma ho duramente criticato la scissione di Bersani e D’Alema. E continuo a criticare anche quella di cui si parla oggi. Il Pd è oggi l’unica forza di centrosinistra che ha un consistente bacino di consensi elettorali che può anche crescere, se si scinde non resterà nulla. Né chi fa né chi subisce la scissione ne trarrebbe alcun vantaggio, perché il risultato sarebbe condannarsi all’impotenza. Io spero che Renzi sia più intelligente dei suoi accoliti che lo spingono alla scissione. Lo scissionismo è stato la vera malattia della sinistra, da sempre e ha reso la sinistra incapace di essere essa stessa un’alternativa e più debole anche la democrazia italiana». (…).
Giunti alla fine di questo racconto, lanciando uno sguardo alle sguaiatezze della politica di oggi, fatta di polli in batteria e gente senz’anima, colpisce l’immagine di quei ragazzi che giovanissimi dovettero compiere scelte drammatiche, senza perdere la voglia di vivere: «Vede, il mio amico Leonardo Sciascia non prese mai la tessera del Pci, ma, lo scrisse nelle “Parrocchie di Regalpetra”, gli anni dell’antifascismo furono i più tersi e migliori della sua vita. E lo furono anche per me».
Nessun commento:
Posta un commento