"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 20 dicembre 2020

Lalinguabatte. 100 «La sovranità è sempre popolare».

C’è da diffidare alquanto allorquando, da qualche antro malsano e maleodorante della politica, si invoca il popolo sovrano quale arbitro supremo, o illuminato, delle dispute politiche. C’è sempre da temere il peggio allorquando gli uomini della politica, sfiancati da anni ed anni di insalubre ribalta politico-mediatica, si aggrappano all’ultima scialuppa di salvataggio: il popolo sovrano per l’appunto. Anche nei paesi del socialismo reale si faceva tutto in nome del popolo sovrano; dagli stermini di massa agli insalubri gulag siberiani. Ché di solito, il popolo sovrano, ragiona di pancia, e quindi per un fatto anche anatomo-funzionale è per lo più poco illuminato. E come per i sovrani di un tempo solitari sul loro scranno, sovrani che di illuminato avevano spesso ben poco, anche oggigiorno c’è da temere della ragionevolezza del popolo sovrano, fatto di una moltitudine mediaticamente ben addestrata a sonnecchiare sulle cose importanti dell’esistenza e ad infatuarsi delle castronerie serotine del piccolo schermo. Nel fatale destino del bel paese poi, è potuto accadere che per le sue ubertose contrade si siano avvicendati erranti, ieri come nei giorni correnti, cavalieri dall’aspetto tronfio, cavalieri inneggianti al popolo e vogliosi di scegliere e comandare in nome suo; una disdetta storica di già vissuta in verità, ché se solo si avesse un briciolo, dico un briciolo, di sana memoria storica, le ultime distorcenti invocazioni venute da cavalieri o capitani erranti nell’etere al popolo sovrano avrebbero meritato un’unica onorevole sorte: di essere sepolte sotto una spettacolare sghignazzante risata. Ma il popolo, nel secolo ventunesimo, dove sta? Quale è divenuta la sua natura? O torna comodo farlo divenire e credere una entità immateriale, come l’etere ed i suoi immaginifici messaggi? Cerco ansiosamente una risposta. Di seguito trascrivo, in parte, una nota di Francesco Merlo - “Quanti abusi nel nome del popolo” - pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 20 di novembre dell’anno 2007; nota invero straordinaria, sia per la qualità della sua prosa che per il suo dotto, molto dotto contenuto: (…). Nessuno sa definire il popolo, che non è la classe di Marx, non è la moltitudine della nuova mistica rivoluzionaria alla Toni Negri, non è la folla solitaria di Ortega, non è la gente di Sergio Endrigo, non è la curva sud degli ultrà, non è il pubblico della democrazia americana, non è l’audience della televisione, non è il mercato dei consumatori. Non è la comunità spontanea, non è la società weberiana, non è l’insieme degli eletti e nemmeno degli elettori, non è un paese in guerra, non è il terzo stato, non è la plebe, non è nemmeno il protagonista delle canzoni rivoluzionarie - «avanti popolo alla riscossa» o «el pueblo unido jamás será vencido» - che sono ritornelli tanto nostalgici quanto ridicoli, da cantare come si canta «ciuri ciuri». E difatti la parola popolo resiste solo nell’accezione anglosassone, folk in inglese e volk in tedesco, che è il pittoresco, è il folklore, è il mondo che abbiamo perduto, non il sostantivo dell’indistinto ma l’aggettivo del semplice e dimesso, e anche dell’etnico, nel senso profondo di sangue e terra: c’è il popolare della destra (völkisch) che rimanda ai furori germanici e c’è il popolare della sinistra che rimanda ai canti, alle musiche, ai proverbi. E possono essere popolari i peggiori vizi della folla, le orecchie del pettegolezzo, le dicerie e i venticelli delle calunnie. Ma anche i più efficaci rimedi medici sono popolari, come le migliori ricette di cucina. In democrazia, la sovranità è sempre popolare. Ma «in nome del popolo italiano» si esercitano sia la giustizia sia l’ingiustizia. «Noi, popolo degli Stati Uniti…» è l’incipit della Costituzione americana. Uccidersi a vicenda nella nomenklatura dei regimi comunisti era il modo più sicuro di risolvere «le contraddizioni in seno al popolo». Come si vede, popolare è meno insignificante di popolo. Sicuramente non è solo un alibi linguistico, non è solo l’ipocrisia delle finte democrazie comuniste (come la Cina popolare, per esempio) che è la stessa ipocrisia delle “banche popolari” italiane che si blasonano ancora con l’aggettivo pur non essendo più le risorse dell’Italia contadina e cattolica, con l’azionariato diffuso e il piccolo risparmio investito in attività marginali ed agricole. In fondo il merito della parola popolare è quello di togliere pesantezza alle cose grevemente oscure, spostarle dalla realtà e renderle idealmente aggraziate, armarle di ingenuità, di naturalezza e di immediatezza. Il parlare scurrile, per esempio, viene giustificato e, persino apprezzato, perché sarebbe popolare. E così le scorrettezze e le sgrammaticature vengono fatte passare per virtù di popolo, per realismo, per semplicità. Tanto più che oggi popolare significa anche di larga diffusione, di forte consenso interclassista, di simpatia, (…). Eppure se si cerca “folk” in un buon dizionario inglese imprevedibilmente si trova oltre a popolo, gente e razze, anche band of warriors, banda di guerrieri. Certo, è vecchio inglese, ma in fondo è lo stesso sapore vaghissimo che c’è ancora nella parola italiana “popolo”, quel significato lontano, la cui forza stava tutta nel senatus populusque, popolo nel senso militare della Repubblica romana, vera democrazia contadina affidata alle armi, al verbo populor che vuol dire devastare, saccheggiare, desolare, e in senso traslato consumare e guastare. Il populus, contrapposto da un lato agli aristocratici e dall’altro alla plebe, era fatto di piccoli proprietari terrieri che usavano il vomere, vale a dire la lama dell’aratro, sia per tagliare le zolle della propria terra sia, impugnandolo come una spada, per tagliare la gola ai nemici. E populatio significa infatti saccheggio, devastazione, preda e bottino. Dunque davvero è sepolta l’anima della parola popolo nell’uso e nell’abuso, nell’usura del tempo, anche se rimane difficile capire come abbia fatto una parola a diventare insignificante, a perdere ogni aderenza con la realtà fosse pure un’aderenza ideale. Machiavelli per esempio usava ancora il popolo nell’accezione romana, voleva rilanciare il popolo armato contro l’uso dei mercenari. E nel socialismo ottocentesco il popolo era il titolare della bandiera rossa, dunque dell’avvenire, e la casa del popolo (chi ricorda il romanzo?) era una costruzione che mai si portava a compimento. Nel Risorgimento dicevi popolo e capivi che bisognava buttare fuori lo straniero. Era sinonimo di nazione e di Patria, magari con la connotazione religioso- mazziniana del massone che santificava il popolo: lo sostituiva ai santi. Il popolo della prima guerra mondiale fu “carne da cannone” secondo il linguaggio dell’antimilitarismo anarco-socialista. Poi nel fascismo il popolo diventa oceanico, una figura spettacolare del nazionalismo imperialista, un’opera di coreografia della grande proletaria, alla quale «è fatto assoluto divieto – diceva un editto di Achille Starace – di portare il colletto della camicia nera inamidato». E ancora nel dopoguerra aveva un senso dire popolo, e non solo per la sinistra che si riaggancia al Risorgimento e con “il blocco del popolo” ripropone Garibaldi, ma anche per i cattolici che organizzano il popolo dei credenti, con le parrocchie che diventano il popolo di Dio… Nessuno può dire quando esattamente la parola ha smesso di significare ed è diventata la risorsa difensiva delle teste confuse, il marchingegno retorico che permette di giustificare, senza peraltro esibire alcuna reale giustificazione, qualsiasi politica, (…). …in Italia chiunque riempie di rancori una piazza, o affoga Internet di cattivi umori, o fa botteghino con gli sberleffi, o viene applaudito nei talk show, o affolla piazza San Giovanni per un concerto… Insomma chiunque partecipa al lento sfaldarsi del nostro ordine civile lo fa con il popolo dalla propria parte: tutti populisti senza popolo, tutti pronti a lusingare una parte di folla, a sfruttare le sue paure e ad alimentare i suoi pregiudizi, a trasformare il mal di pancia in macchina di consenso e di attrazione, in nome del popolo che non esiste, abusando di una parola che ormai suona peggio di una parolaccia. Ha scritto Michele Serra al tempo della “pandemia” in “Potere al popolo” sul quotidiano “la Repubblica” di sabato 19 di dicembre: (…). …dopo tutti questi mesi è diventata fermissima la convinzione che molto, anzi quasi tutto, dipende da me (da ciascuno di noi). Alle istituzioni non possiamo chiedere più di tanto. Magari, ecco, di non fare troppa confusione. A noi stessi, invece, moltissimo: il futuro è nelle nostre mani. È il principio dell’autogestione, a ben vedere un principio ultrademocratico, perché dà molto potere al popolo (ma il “popolo”, nel secolo ventunesimo, dove sta? O ne è divenuto sparuta minoranza? n.d.r.). Il prudente, il rispettoso, il distanziato, sono i custodi, anzi gli esecutori diretti, della salute pubblica. Il menefreghista, l’appiccicoso e ovviamente il negazionista sono nemici pubblici, e quelli che individuano nel Covid il pretesto per la “dittatura sanitaria” sono i peggiori complici della malattia. (…). C’è una gentilezza evidente, nell’attesa disciplinata e distanziata che la peste trascorra, e che la scienza la domi. E c’è un’arroganza demente nell’idea che niente, nemmeno la peste, deve impedire il nostro diritto al capitone.

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