"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 9 novembre 2020

Storiedallitalia. 88 «L’indignazione dura il tempo della fiammella di un cerino. La smemoratezza è un effetto collaterale del nostro essere misirizzi».

 

Tratto da “Scaricabarile, teoria e prassi. Gli italiani, perfetti misirizzi”, intervista di Antonello Caporale all’antropologo Marino Niola pubblicata su “il Fatto Quotidiano” di oggi 9 di novembre 2020: Teoria e pratica dello scaricabarile. “È una forma profonda del nostro carattere. Noi siamo un popolo di misirizzi, il balocco che bascula, oscilla ma non cade perché ci troviamo sempre dall’altra parte della colpa. Lo scaricabarile è la nostra quintessenza, la radice, il genoma”.

Lei, professor Niola, ha scritto che l’italiano è il popolo della terza persona. “È sempre l’altro a dover fare, spiegare, e la responsabilità è sempre del precedente governo, e poi ancora di quello prima, e poi prima e prima ancora. Un modo perfetto per disconoscere, dimenticare, nascondersi, basculare dentro la nuvola dell’indeterminatezza. Il misirizzi perfetto”.

Esiste una secrezione naturale delle responsabilità. La nostra società e la nostra burocrazia è costruita in modo che a nessuno venga mai in mente di associare il volto a un impegno, men che mai a una disfatta. “Esistono collettori prodigiosi di responsabilità. Se qualcosa va storto c’è sempre un presidio, naturalmente impersonale, che ha ostruito la nostra volontà. Una soprintendenza, o il sindacato, o i vigili urbani. Qualcuno – se non al di sopra – sicuramente al di fuori di noi. Lo scaricabarile diviene il passaggio essenziale per sopravvivere e continuare a patteggiare con la realtà”.

Siamo come quegli studenti che si presentano impreparati all’interrogazione e poi si dolgono del quattro. “Esattissimo. L’insegnante, al pari dell’arbitro di calcio, è il perfetto parafulmine. Con questa aggravante: se negli anni passati i figli – nel ruolo di studenti caproni – non riuscivano a trovare sponda in famiglia, perché i genitori per principio assolvevano il maestro, oggi invece non c’è più barriera. Spesso la famiglia si coalizza e il colpevole è colui che dà i voti cattivi non il figlio impreparato”.

Ci sono esempi limpidi di scaricabarile. Il presidente della Lombardia Fontana che con diecimila infettati al giorno accusa il governo di aver schiaffeggiato l’onore lombardo. “Poi le dirò sull’uomo d’onore. È il presidente Fontana ad aver assestato uno schiaffo alla sua Lombardia per non aver saputo gestire al meglio una crisi comunque difficile. Però è certo che la Lombardia l’ha eletto con convinzione ed egli la rappresenta molto fedelmente. Oggi più che mai la classe politica è lo specchio integro della sequela di vizi della società civile (che infatti oggi non chiamiamo più così)”.

I napoletani ce l’hanno col governo per l’esatto opposto: avrebbero preferito la zona rossa. “Potevano bussare alla regione Campania, no? Oppure potevano comportarsi con più rigore per evitare questa disfatta. Sa che i quartieri a più alta incidenza di positivi sono quelli dove vive la borghesia napoletana? Chiaia e Posillipo. Una borghesia che non sa essere classe dirigente, che fa strame di regole e invoca l’altro. Lo invoca mostrandosi sorda a ogni responsabilità. Costoro compongono il più fenomenale quadro del tipico uomo d’onore”.

Ah, l’onore italiano. “L’onore è tenuto alto solo in famiglia. Appena fuori l’uscio di casa esso assume i caratteri della devianza. Siamo il popolo dell’onore familistico, e siamo il popolo dell’indulgenza. Nessuna colpa è assunta, nessuna responsabilità pagata. Tutto patteggiato, perdonato, condonato. I protestanti sono nati come reazione alla società dell’indulgenza: l’individuo risponde in solitudine e pienamente dei propri atti”.

Nonostante i nostri vizi e le collusioni, spesso ci indigniamo. “L’indignazione dura il tempo della fiammella di un cerino. La smemoratezza è un effetto collaterale del nostro essere misirizzi”.

Non ci salveremo. “Ci salveremo, ma pagando un pegno più alto del necessario. Facciamo spesso il paragone con i tedeschi: con la loro efficienza e organizzazione. Se ci pensa la nostra considerazione non muove dalla volontà di emularli ma solo dalla scelta di autodenigrarci pur di assolverci. Non saremo mai come loro, non lo possiamo essere. E qui torniamo al punto di partenza”.

Moriremo misirizzi. “Basculando di qua e di là”.

Due “pennellate” d’Autore tratte da “Il Paese del pressappoco” (Garzanti editore, 2007) di Raffaele Simone, la prima dal capitolo trentaduesimo - “Il disprezzo verso altrui” -: (…). “Come viene viene” è una potente formula popolare, che va ad arricchire la raccolta di espressioni che usiamo per indicare l’approssimativo, il rabberciato, il rimediato, il fatto male. La formula ha molti sinonimi: “alla carlona”, “alla garibaldina”, “alla meglio”, oppure – (…) – “all’italiana”! Tutte alludono a un dovere eseguito senza passione né cura, tanto per farlo ma senza nessuna speciale sollecitudine per la qualità dell’esito. Purtroppo nel mondo abbiamo esattamente la reputazione corrispondente: tolti alcuni campi in cui eccelliamo per tradizione, all’Italia e agli italiani si associa spesso un’idea di impreciso, di approssimativo e di generico, una fama inveterata di gente poco puntuale, poco capace di mantenere la parola, i cui prodotti funzionano maluccio, i cui servizi arrancano, che tende a scegliere la soluzione che richiede il maggior tempo, la procedura più bizantina, amante dei rinvii e delle proroghe… (…). Seconda “pennellata” d’Autore tratta dal capitolo trentaquattresimo “Sic et non”: (…). …il pressappochismo si osserva non solo nell’orizzonte degli oggetti materiali, (…), ma anche, in modo metaforico ma pesante, in quello delle relazioni tra le persone e della qualità delle decisioni. Alludo al fatto che da noi sembrano impossibili sia la vera fermezza (il cui principio è “sic et non”, questo sì, questo no) sia il vero conflitto. L’una e l’altro sono infatti temperati dalla perpetua possibilità di mediazione, di una sfumatura e di un’intesa, e creano così le premesse di quei paradigmi che chiamiamo trasformismo e consociativismo.Entrambe queste tendenze sono la manifestazione politica di un cocktail di proprietà del nostro carattere: lo scarso rispetto dei limiti, la tendenza ad “aggiustare” i conflitti, l’anarco-servilismo, il perdonismo, la speranza nell’immunità e nell’impunità, una certa inesprimibile pigrizia dinanzi alle fatiche che comporta la fermezza…In nome di questi fattori, a che serve tenere una posizione in modo rigoroso, anche a costo di esporsi e di “rimetterci di tasca propria”? Meglio mettersi d’accordo con la controparte, stabilire accordi “programmatici, non politici” (termini tecnici del gergo politico), “convergenze parallele”, fare comunella o maturare altre forme d’intesa con il nemico fondata sullo scambio di favori e di prestazioni.Èstato osservato acutamente che il consociativismo è la “maniera cattolico-barocca” di far politica. È “cattolica” perché, alla maniera dei credenti, non vede nemici da nessuna parte, anzi non è capace di concepire avversari: siamo tutti esseri umani destinati a soffrire, tutti navighiamo nella stessa barca: quindi a che servono i contrasti? Tanto vale mettersi d’accordo e vivere in pace. Una sorta di generico irenismo oltremondano (che si declina però sotto forma di estremo cinismo) si distende su tutte le tensioni. Ed è “barocca” perché induce a temerarie acrobazie logiche di evitare di essere severi o intransigenti, di dover dire “no” a qualcosa o qualcuno.  Gli intransigenti sono persone disposte a sacrificare il proprio particolare per l’idea in cui credono o per il giudizio che hanno maturato. In Italia, però, non c’è nulla di meno apprezzato di una persona veramente ferma. “Povero scemo” è il parere che si insinua nelle menti più diverse (a volte, lo ammetto, anche nella mia) quando si sente raccontare di una persona che, a forza di intransigenza, si è messa nei guai o ha corso dei rischi, “non ha capito niente della vita”.“L’intransigenza non appartiene al carattere degli italiani”, ha spiegato infatti sconsolatamente Bobbio: “Gli intransigenti sono rari, sono un’élite”. “Se no, no!”, come dice Mazzini. Da questo punto di vista, Gobetti è stato un bell’esempio. Lo stato italiano non lo è. (…).

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