Mi sono lambiccato per tutto il pomeriggio ove
collocare la notizia del trapasso di Gigi Proietti, ovvero in quale delle “rubrichette”
collocarne il ricordo. Una rubrichetta che fosse all’altezza di quel genio, “protagonista”
del giorno. Alla fine mi sono risolto a parlarne in “ifattinprima” poiché Gigi
è stato uno straordinario osservatore dei “fatti” vissuti dalla “ggente”, ne ha
saputo cantare quegli aspetti più straordinari che in quei “fatti” riusciva
sempre brillantemente a scoprire e mostrare a tutti gli altri, questi ultimi disattenti
o superficiali i più. Un primato questo come quell’altro primato di Gigi stabilito
proprio ieri, per come sempre avviene per i “pre-destinati” (come per quell’altro
“Bardo”): nascere e morire nello stesso giorno, ovvero, per Gigi nostro, il 2
di novembre. Ha scritto Michele Serra in “Uno
da fargli una statua” sul quotidiano “la Repubblica” di oggi: Non è
per niente facile cantare nun me rompe er ca' per cinque minuti filati senza
mai un'ombra di volgarità. Gigi Proietti ci riusciva, la sua maniera al tempo
stesso virile e leggera, spavalda ed elegante, gli consentiva questo e altri
lussi. E stava prendendo per i fondelli Brel, un vero mostro sacro, mica un
ministro qualunque come si fa al Bagaglino. Il secolare cinismo romano non
genera sempre di questi giganti, e anzi produce sovente macchiette burine
largamente eccedenti il fabbisogno. Ma ne basterebbe uno solo, lui, Proietti,
per benedire il secolare cinismo romano. Quella velocità di sguardo e dunque di
battuta, quel sorriso impunito, quell'accumulo di disillusioni che ancora, in
quello che resta della Roma popolare, produce testi e personaggi da grande
teatro comico. Se ne va con lui un pezzo della Roma profonda, della sua voce e
pure della sua faccia. Forse solo Anna Magnani e Mario Scaccia ebbero una
faccia tanto romana quanto la sua: antica, così antica da essere l'intuibile
replica di quelle che circolavano per la città duemila anni fa, ottanta
generazioni fa, quando sicuramente un Proietti identico a questo, con lo stesso
sorriso impunito, lo stesso naso forte, la stessa voce ben temprata nel baccano
metropolitano, modulava nun me rompe er ca' (nella versione latina) all'amico
centurione. Che rideva. Proietti è uno da fargli una statua, tanto fisica fu la
sua arte. Sta a Roma come Lucio Dalla a Bologna, ci sarà sempre un'eco, in
certi angoli, sotto certe case, della loro voce. Lo ha ricordato Marco
Travaglio in “Il cavaliere nostro”,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi 3 di novembre 2020: (…). Ora
che questo 2020 di merda ci ha portato via anche lui, proprio mentre un inutile
cinquantenne twittava sull’inutilità degli ottantenni, si affollano i ricordi
di un’amicizia nata grazie al Fatto. Proietti ci leggeva per primi, poi
telefonava per commentare, suggerire, soprattutto sghignazzare (“Chi non sa
ridere mi insospettisce”). Ogni tanto ci mandava uno stornello, un sonetto in
romanesco (“Se pubblichi, non mi firmare: metti ‘Agro Romano’…”). Una volta,
alla nostra festa all’isola Tiberina, doveva essere un’intervista e invece
portò il suo pianista Mario e fece uno spettacolo intero col meglio del suo
repertorio (“aggràtise”): da Nun me rompe er ca’ a Pietro Ammicca, dal
Cavaliere nero a Toto nella saùna (con l’accento sulla u), dal vecchietto delle
favole sconce all’addetto culturale pieno di tic al prof che declama La pioggia
nel pineto in barese. Il meglio di A me gli occhi please, poi travasato in
Cavalli di battaglia, che doveva andare una sera sola all’Auditorium e diventò
un tour infinito, sempre sold out. Frammenti di memoria e lampi di genio si
mischiano alle lacrime. Il nasone fin sopra la fila di denti bianchi. Gli occhi
che roteano. Il vocione cavernoso da fumatore. La risata aperta e la gioia di
strapparne agli altri. Sempre in scena, anche per strada e in trattoria.
L’opposto del cliché del grande comico, allegro sul palco e sul set, cupo e
depresso in privato: a lui ridere piaceva un sacco, almeno quanto far ridere.
Lui nel camerino del Globe Theatre a villa Borghese, qualche estate fa, esausto
e zuppo di sudore dopo due ore di Edmund Keane con 30 e passa gradi: “Che fate,
annate a cena da Dante? Io nun so se me la sento, stasera avrò perso cinque
chili…”. Poi si presenta al ristorante e ci ammazza di barzellette e aneddoti
su Gassman, Bene, Fabrizi e Stoppa fino alle tre di notte, lui fresco come una
rosa, noi tramortiti. “Questa la sapete senz’altro…”. “Questa è troppo feroce…
che faccio, la racconto?”. “Marché, famme fa’ ’n tiro de sigaretta, mentre
Sagitta nun guarda. E dammene ’n’artra de frodo, che me la fumo quanno tutti
dormono…”. Ancora domenica mattina, in rianimazione, con la compagna di sempre
Sagitta, le figlie Carlotta e Susanna, il manager Alessandro Fioroni, parlava
di lavoro. (…). Dei progetti futuri: rivoleva un teatro tutto per sé, dopo lo
scippo del Brancaccio a opera di Costanzo&C., progettava con Renato Zero un
nuovo teatro tenda come quello degli anni 70-80 (“Renato fa i concerti e io
metto in scena tutto Molière, sto convincendo Corrado Guzzanti e Verdone ad
alternarsi con me, tu mi fai il teatro-giornale e magari rimetto su la scuola
di teatro che la Regione mi ha chiuso”; seguiva imitazione irresistibile del
funzionario dell’assessorato che gli comunica, a gesti e a grugniti, le ragioni
dello stop). Un anno fa viene a vedere Ball Fiction e alla fine, in camerino,
si accorge di aver perso il portafogli. La nostra Amanda si precipita in sala e
lo trova sulla sua poltrona. “Vedi, Gigi, i nostri amici sono tutti onesti!”.
“Ma va, penzano che nun ci ho ’na lira!”. All’ultima festa del Fatto, in
streaming dal giardino della redazione, doveva venire alla serata di apertura:
“Magari chiacchieriamo di come nascono le barzellette, che molti considerano
umorismo di serie B perché non le sanno raccontare, non hanno i tempi, la
faccia. Il mistero umano di come scocca la scintilla della risata è un tema
affascinante. Potrebbe nascerne uno spettacolo, ho letto anche dei saggi molto
pensosi…”. Perché era coltissimo, come lo sono quelli che lo dissimulano e si
fanno beffe dei colleghi engagé (“Natale in casa Latella”) o “di ricerca
(“‘Sospendete immediatamente le ricerche!’, diceva Gassman quando li vedeva”).
Ma stava già male (“Famo ’st’altr’anno”). Un paio di mesi fa feci una battuta
in un pezzo sugli orrori di stampa: “Se tornasse Il Male con un falso
giornalone dal titolo ‘Arrestato Gigi Proietti: è il capo dell’Isis’, tutti
commenterebbero: embè?”. Ed ecco puntuale il suo sms: “Salam da Rebibbia!
Speravo di passare inosservato, poi invece arriva Travaglio. E scusa: il
turbante non lo trovo, acc…”. Lo inseguivamo da due settimane per l’intervista
degli 80 anni. Silenzio. Poi, sabato sera, l’sms: “Caro Marco, purtroppo al
momento non sono in grande forma e l’intervista temo non si possa fare, poi ti
racconterò. Ci sentiamo con calma. Ti abbraccio”. Solo a lui poteva venire in
mente di nascere e morire lo stesso giorno, il 2 novembre. Che per un comico
non è niente male. Anche Shakespeare ci era riuscito, ma il 23 aprile, non il
giorno dei morti. Si dice che far ridere sia impresa molto più difficile che
far piangere. E Gigi ne era la prova vivente. Ma ieri, con quell’uscita di
scena, è riuscito nelle due imprese insieme.
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