Appena quattro anni addietro, prima che la “piaga
Trump” cominciasse a dispiegare la sua perniciosa azione, Ezio Mauro scriveva
in “Cosa insegna all’Europa la vittoria
di Trump”, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 13 di novembre dell’anno
2016: (…). …oggi che Trump ha trionfato, quella forza si fa governo, si
trasforma in istituzione, dà interpretazione e forma alla democrazia
statunitense: diventa America. Dopo lo shock politico (immediato come lo
spaesamento di un sistema che con tutte le sue antenne e i suoi meccanismi
interpretativi non aveva saputo prevedere nulla) arriverà il momento del vero
shock profondo e duraturo: quello culturale. Insieme con l’uomo che entra alla
Casa Bianca senza aver mai avuto un incarico politico e militare - prima volta
nella storia del Paese - va infatti al comando della più grande democrazia del
nostro mondo una cultura del tutto nuova, che umilia la sinistra democratica,
mette fuori gioco la tradizione repubblicana e annuncia una mutazione rispetto
alla stessa forma istituzionale del potere americano a cui eravamo abituati da
decenni. Alla base di tutto torna a esserci l’individuo, dopo le classi, le
categorie, le generazioni, la società. Ben 189 anni prima dell’oggi un
tale a nome Alexis de Tocqueville, in un Suo viaggio in quelle sconfinate terre,
individuava ben tre “piaghe” nella vita di quella nascente potenza mondiale. La
prima “piaga” la individuava nella “alienazione” del lavoro per la qual cosa
scriveva: “Quando un operaio si dedica continuamente e unicamente alla fabbricazione
di un solo oggetto, finisce per svolgere questo lavoro con singolare destrezza;
ma perde al tempo stesso la facoltà generale di applicare il suo spirito alla
direzione del lavoro. Egli diviene ogni giorno più abile e meno industrioso e si
può dire che in lui l’uomo si degradi via via che l’operaio si perfeziona. Cosa
ci si potrà attendere da un uomo che ha impiegato vent’anni della sua vita a
fare capocchie di spillo?”. E la seconda “piaga” quel saggio la
individuava nell’orribile spettacolo di quel tempo, ovvero le “diseguaglianze”
sociali. Scriveva: “Mentre l’operaio è costretto sempre più a limitarsi allo studio di un
solo particolare, il padrone allarga ogni giorno il suo sguardo su di un
complesso più vasto; il suo spirito si estende mentre quello dell’altro si
restringe. L’uno assomiglia sempre più all’amministratore di un vasto impero, l’altro
a un bruto”. La terza “piaga” ravvisata a quel tempo da Alexis de
Tocqueville anticipava già a quel tempo la devastante “piaga” dei nostri tempi,
ovvero di un “consumismo” sfrenato ed immorale. Profeticamente scriveva: “Se
cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di uomini
eguali, che volteggiano su sé stessi per procurarsi piaceri piccoli e meschini
di cui si pasce la loro anima. Ognuno di essi, tenendosi in disparte, è come
estraneo a tutti gli altri. Al di sopra di questa folla vedo innalzarsi un
immenso potere tutelare, che si occupa solo di assicurare ai sudditi il
benessere e di vegliare alle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico,
previdente e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna se avesse per
scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma al contrario, non
cerca che di tenerli in un’infanzia perpetua”. Ecco, la “piaga Trump”
sembra essere giunta al suo capolinea; cosa ne deriverà? Cosa cambierà nel
concreto nelle vite degli umani? Scriveva ancora, quel 13 di novembre dell’anno
2016, nel Suo editoriale Ezio Mauro: In un thatcherismo tutto prassi e niente
teoria l’individuo diventa il referente assoluto, il soggetto nelle cui mani è
affidato il futuro, insieme protagonista e referente dell’avventura di questa
presidenza. «Every single American», ogni singolo americano - ha detto Trump
subito dopo l’elezione - avrà l’opportunità di realizzare fino in fondo il suo
potenziale. Non un progetto comune, com’eravamo abituati nella retorica
democratica e repubblicana, non un impegno collettivo: ma la garanzia che il
presidente si occuperà di te, personalmente di te, che per troppi anni sei
stato nell’ombra, dimenticato e trascurato, messo da parte, politicamente
abbandonato. Sono i «forgotten men and women» a cui Trump nel suo primo
discorso ha restituito l’onore della visibilità politica e sociale, della
soggettività politica che avevano perduto. Immediatamente dopo il saldo
elettorale, avviene dunque il “pagamento” immateriale del debito aperto durante
la campagna, come in ogni contratto che si rispetti, soprattutto in un Paese di
etica protestante. Trump aveva fatto un patto implicito di riconoscimento
reciproco e dunque di riscatto in un’alleanza revanchista con l’America
profonda, quella delle persone “per bene” contro i liberal costieri senza Dio,
quella dei piccoli centri contro le metropoli, quelli della campagna contro le
lobby di Washington, quella dei cittadini contro gli apparati dei partiti.
Ricevuto il voto e portata fino in fondo la spallata al sistema, il
neopresidente chiede a quell’America dispersa di costituirsi in movimento, in
gruppo di pressione. Non le propone di diventare un partito, e nemmeno di
occupare il partito che già c’è, il Grand Old Party. Chiede di continuare ad
aver fame di rivincita, di continuare a brontolare, di non smettere di ribellarsi.
Si delinea così il primo impianto strategico dell’offerta politica trumpista.
All’establishment, che non ha nemmeno citato, il presidente risponderà con la
politica, dagli armamenti all’isolazionismo alla logica di potenza. Alla base,
risponderà con l’antipolitica, la ribellione permanente, il malcontento che
continua, indirizzato verso un’indistinta élite che oggi è il bersaglio di
tutti i populismi. Una Casa Bianca peronista, di lotta e di governo, dopo gli
esperimenti populisti che l’Europa aveva testato su sé stessa a cavallo del
secolo, semplificazioni del meccanismo democratico, personalizzazione della
leadership, insofferenza per i controlli politici, di legalità, di
costituzionalità, parlamentari. Per riuscire Trump deve svuotare compiutamente
le due culture politiche di riferimento della storia americana. I democratici
sono già annichiliti da una sconfitta che colpisce insieme un’ex Segretaria di
Stato ed ex First Lady, una dinastia presidenziale, l’attuale inquilino della
Casa Bianca che nella campagna ha giocato molto del suo prestigio, tanto più
quando la candidata traballava. I repubblicani sono vincitori grazie a un Papa
straniero che ha occupato casa loro sfrattandoli, e li ha riportati al comando
dell’amministrazione e del Congresso trasformando però il partito in un guscio
vuoto, riempito con l’istinto selvaggio che ha preso il posto di una tradizione
conservatrice, con un linguaggio che ha sconvolto ogni regola moderata. Si
potrebbe dire che in un gioco al rialzo - o meglio al ribasso - la destra ha
soppiantato la sinistra di governo: ma una destra aliena ha preso il posto
della destra che gli americani e il mondo conoscevano da sempre, trasformando
la nuova America in un’incognita. Avevamo infatti conosciuto molte destre,
nella storia di quel Paese: prima l’impianto religioso e l’aristocrazia
dell’istruzione, delle professioni e del denaro, poi il fondamentalismo
coniugato con il rifiuto del comunismo e la sua paura, quindi il timore
dell’antiamericanismo e degli “aliens”, poi il tradizionalismo, spesso il
complottismo. Oggi il populismo che riprende pulsioni antiche in forme
nuovissime e le coniuga con l’“anti-elitismo” della New Right, amplificato
dallo sfondamento del discorso politico, deformato nella sua forma e nella sua
sostanza dal politicamente scorretto trasformato in codice identitario, in
rottura del conformismo, addirittura in garanzia di autenticità. Ma Ronald
Reagan, il campione di quel mondo, era dentro una cornice culturale comune,
riconoscibile e riconosciuta, quando nel discorso di insediamento del gennaio
’81 rivendicava «il diritto di fare sogni eroici», di ritrovare «la nostra fede
e la nostra speranza», quando raccontava al suo biografo che la sua più grande
qualità era «la capacità di conciliare», quando nel 1976, battuto da Ford,
invitò addirittura i suoi a «non diventare cinici, perché ci sono qui fuori
milioni di americani che vogliono che ci sia una città radiosa sulla collina». Quella
cornice culturale comune, in politica, si chiama responsabilità, non a caso la
parola più usata - e con più forza - da Barack Obama nel suo primo discorso
d’insediamento. È quella cornice che oggi si è rotta, perché il populismo, promettendo l’impossibile, pratica una
cultura irresponsabile che annuncia soltanto soddisfazioni, che non parla
mai di doveri, che lusinga il popolo annunciandogli perennemente una rivincita
e assicurandogli una presa diretta sul potere, mentre in realtà gli chiede una
vibrazione perenne di consenso, e una delega periodica fissa. Tutto questo
comporta un esperimento oltremodo arrischiato per una democrazia: tenere una
massa di cittadini elettori sul bordo del sistema, con un piede dentro e uno
fuori perché rimangano estranei ai partiti tradizionali e alle istituzioni e
non conoscano la strada di ritorno nelle culture politiche classiche di
riferimento. È una formula pericolosa per la democrazia, fruttuosa per un
leader di opposizione, o per un campaigner. Quando il grande outsider va al
potere, le cose si complicano, perché è molto difficile interpretare il mainstream
con il linguaggio della contestazione, guidare il Paese e insieme bruciare le
élite. Tuttavia, e paradossalmente, lo sganghero istituzionale di Trump ha
riportato in politica ceti e gruppi sociali, solitudini repubblicane e
secessioni democratiche che la politica stessa non riusciva più a raggiungere.
Come se l’estrema destra americana, nel suo populismo vittorioso, fosse capace
di un’inclusione che la sinistra non riesce più a garantire, pur essendo nata
per questo. Ecco perché il trumpismo metterà in crisi le forme politiche
tradizionali e le classiche culture di riferimento. Fino ad arrivare a scuotere
il concetto stesso di Occidente. Il nuovo presidente lo farà direttamente,
attraverso la politica, il restringimento della Nato, l’amicizia con Putin, il
rapporto con Farage, Orbán e Le Pen. Ma più ancora agiranno le culture, e più
nel profondo. Nella più grande democrazia del mondo va al potere un uomo che
finora ha dimostrato di ignorare il concetto stesso di Occidente, ciò che noi
siamo, la terra della democrazia delle istituzioni e della democrazia dei
diritti. Qualcosa che nasce dalla fede comune nella libertà, nei diritti
dell’uomo, nello Stato di diritto, nel governo dei conflitti. Se le forme della
democrazia politica e istituzionale, le sue fondamenta culturali vengono messe
in discussione, anche l’Occidente si risolverà in un guscio vuoto, riducendosi
a puro Ovest, mera espressione geografica, sopravvivenza della guerra fredda in
contrapposizione a un “nemico ereditario”, la Russia, che promette intanto di
diventare il primo amico di Trump in un rovesciamento dei mondi. Rischiamo
dunque di rimanere senza identità politico-culturale, spogli. Come se le basi
culturali e le loro proiezioni non fossero la sostanza e la forza della
politica, dei Paesi, delle avventure comuni. Come se tutto fosse prassi e
improvvisazione, e la politica pura rappresentazione invece che rappresentanza.
Come se non contassero nulla le strutture d’opinione consolidate nel tempo e
nella storia. Un terreno senza radici e senza alcun deposito di senso, privato
di ogni deposito culturale e dunque di ogni significato. Ideale per il
populismo, e a questo punto si capisce perché sfonda e vince.
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