Scriveva Piero Ignazi in “Quei giovani senza memoria” pubblicato il 7 di ottobre dell’anno 2019
sul quotidiano “la Repubblica”: Anni fa si lamentava l'assenza di giovani
nella vita pubblica, soffocati, i poverini, da una gerontocrazia imperante in
tutti i settori. Ora i giovani si sono svegliati ed hanno incominciato ad
occupare posizioni. In primis fu Matteo Renzi che riscosse tanta attenzione
proprio perché era un volto nuovo e fresco che irrompeva nella politica senza
lord protettori, proponendosi di "rottamare" la vecchia classe
dirigente del Pd. Un proposito ruvido ma in sintonia con il clima di quei tempi
che voleva un rinnovamento radicale della classe politica. Proprio grazie ad un
messaggio così ribaldo l'allora sindaco di Firenze prese il volo. A seguire,
sono arrivate le truppe grilline che nel 2013 hanno portato nelle camere uno
dei più giovani gruppi parlamentari della storia repubblicana. E infine
l'attuale governo Conte ha stabilito il primato dell'età più bassa dei governi
democratici. Anche fuori dalle istituzioni il "momento Greta" ha
investito gli studenti di mezzo mondo portandoli a riempire le strade in difesa
dell'ambiente; ma non solo: pensiamo ai manifestanti di Hong Kong o ai giovani
algerini che da mesi scendono in piazza ogni venerdì per reclamare, in entrambi
casi, più libertà e democrazia. In questo clima così galvanizzato non manca chi
suggerisce di estendere il diritto di voto ai sedicenni... La mobilitazione
politica delle fasce giovanili interrompe una lunga fase di apatia in tutte le
società occidentali (anche il movimento spagnolo degli Indignados si è rivelato
un fuoco di paglia). Ma l'ingresso dei giovani in politica non porta solo buoni
frutti; c'è un rischio insito nella "presa del potere" delle giovani
generazioni: la loro assenza di memoria. Non tanto perché debbano rendere
omaggio ai padri quanto perché oggi l'accesso ai piani alti della politica è
avvenuto bruciando tappe che dovevano essere tutte percorse. Comunque li si
giudichi, non esistono più riti di passaggio nella nostra società (esame di
maturità, servizio militare, matrimonio). In alcuni casi, come nel matrimonio,
la loro smitizzazione ha avuto un significato di autonomizzazione delle scelte
individuali e quindi, in linea di principio, di maggiore responsabilizzazione;
in altri di semplice abbandono di ogni prova, di un momento di verifica dove si
mettono in campo, in una sfida collettiva, le proprie capacità. In questo
contesto anche la politica ha perso i suoi riti di passaggio. In alcuni casi è
stato un bene. Indipendentemente da ogni giudizio di valore, i grillini hanno
rotto ogni prassi e buttato sul tavolo con imberbe arroganza idee e proposte
innovative, dall'uso (sregolato: senza regole chiare) della democrazia
elettronica, alla critica degli strumenti e degli istituti di rappresentanza.
Bene ridiscutere tutto quando i sistemi democratici mostrano segni di
logoramento e perdono il sostegno di fasce sempre più ampie di cittadini. Ma
tutto ciò diventa un problema quando si vuole fare tabula rasa del passato,
cancellando tutto. Oggi le leve del potere (ad eccezione della Presidenza della
Repubblica) sono in mano ad una generazione che è cresciuta senza legami con le
culture politiche dei fondatori della repubblica. Solo nel Pd ancora risuona
quel richiamo (mentre la pur coriacea memoria storica coltivata in Fratelli
d'Italia è di tutt'altro segno). Per il resto, le nuove generazioni,
pentastellati in testa, sono arrivate alla stanza dei bottoni senza un cursus
honorum politico significativo. Sono state catapultate ai vertici bruciando le
tappe e non perché fossero formate da tutti enfant prodige, bensì per la
mancanza di sedi e regole per fare esperienza. Senza questo passaggio anche la
trasmissione di riferimenti e valori si annacqua. Gli odierni protagonisti
della politica non solo ignorano il lavoro delle generazioni precedenti su una
serie di temi e progetti ma non hanno nemmeno i rudimenti del "far
politica"; con il risultato di concepirla e praticarla come una guerra
totale, assoluta, dove chi vince, vince tutto, e chi perde, perde tutto. E il
dialogo, la ricerca del consenso, il compromesso trasmutano da buone pratiche a
pratiche oscene. Perché sono deperite, o sono state rifiutate, le sedi proprie
del far politica: i partiti. Ritorna Piero Ignazi sul tema caldo della “politica”
non politicante con “Si è ancora di
sinistra o di destra”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 27 di
ottobre 2020, poiché quel Suo intravisto «rischio insito nella "presa del
potere" delle giovani generazioni: la loro assenza di memoria» tuttora
permane se non ancor più ingigantito tanto da permearne ed infestarne la vita
politica nel suo complesso: È alla fine di agosto del 1789, in quelle incandescenti
assemblee dei rivoluzionari francesi, che destra e sinistra si separano e si
riconoscono come parti politiche distinte e avverse. Come scrisse un
protagonista dell’epoca, a destra del presidente dell’assemblea siedono ora i
sostenitori del re e della religione, che vogliono mantenere al sovrano il
potere di veto, e a sinistra coloro che rivendicano il diritto dell’assemblea a
legiferare su tutto, senza limitazioni da parte della corona. Il momento è
storico in tutti i sensi perché da allora destra e sinistra acquistano un
significato politico che prima non avevano, in quanto la spazialità della
politica non era mai stata orizzontale, destra-sinistra, bensì verticale,
alto-basso. Ed è da quel momento che i due termini diventano universali, si diffondono
ovunque; e nel corso del tempo si riempiono di ulteriori significati, pur senza
mutare (quasi mai) l’imprinting originario: a destra la tradizione e la
conservazione, a sinistra il cambiamento. Solo i
fascismi tra le due guerre produssero un apparente ossimoro incarnando una
destra rivoluzionaria, come evidenziò, tra tante polemiche, lo storico
israeliano Zeev Sternhell. Da allora il cammino è stato lungo e in parte
accidentato, ma alla fine questa distinzione tiene ancora, (…). Nel corso del
tempo, infatti, i due termini si sono arricchiti di altri riferimenti che sono
rimasti a lungo ben definiti e riconoscibili. In effetti fino agli anni Ottanta
in tutto l’Occidente sinistra e destra interpretano mondi diversi: il conflitto
di classe e quello confessionale avevano ancora una valenza tale da separare
gli attori politici in campi nettamente distinti, e tali erano percepiti
dall’opinione pubblica. Nessuno sfuggiva a questa etichettatura, a volte
semplificatoria e sommaria, anche per un’altra ragione: se nel dibattito alto,
infiorettato da citazioni dotte e riferimenti filosofici, le distinzioni potevano
annebbiarsi, a livello popolare destra e sinistra, con tutte le sfumature
intermedie, servivano per orientarsi nel mondo complesso della politica. Il
cittadino aveva bisogno di lenti chiare per guardare alla realtà politica, e
poi interpretarla. Da allora nuovi conflitti - sull’ambiente, sul genere, sul
pacifismo, ecc. - avrebbero potuto superare questa polarità. In realtà così non
è, sia perché questi termini sono “una sintesi di atteggiamenti” come diceva
Giovanni Sartori, sia perché tutte le ricerche dimostrano che in tutta Europa
essi costituiscono ancora gli strumenti principi con cui gli elettori orientano
le loro decisioni. A dire il vero l’opinione pubblica è un po’ schizofrenica su
questo punto, oggi. Quando si richiede un giudizio sulla validità di destra e
sinistra una grande maggioranza di cittadini (circa il 75 per cento) sostiene
che non hanno più senso e sono concetti superati; poi, però, quando si chiede
se li usano per autodefinirsi politicamente e per scegliere il proprio partito,
le percentuali cambiano. I cittadini di tutta Europa continuano a utilizzare
destra e sinistra come strumento semplificatore per votare. È vero, (…), tanto
a sinistra quanto a destra si sono slabbrati i confini. A sinistra ben pochi
continuano a sventolare la bandiera dell’eguaglianza, tanto cara a Norberto
Bobbio che aveva fondato su questo tema la distinzione tra destra e sinistra
nel suo fortunato libretto del 1994. Allo stesso modo, anche a destra i valori
della tradizione e della religione sono sbiaditi. Tuttavia per quanto siano
mutevoli, senza questi riferimenti spaziali saremmo dispersi nell’oceano di
parole e segni. Anche i due casi più rilevanti di partiti che hanno cercato di
andare al di là di questa dicotomia, il Movimento 5 Stelle e il partito di
Emmanuel Macron, La République En Marche, in poco tempo hanno abbandonato
questa ipotesi e hanno dovuto fare i conti con la solidità rocciosa e
identificante di destra e sinistra. Si mettano il cuore in pace i sostenitori
del loro superamento. Già un annuario politico francese del 1848 sosteneva che
«destra e sinistra non hanno più senso». Beh, ne è passata di acqua sotto i
ponti della Senna e altrove, da allora.
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