Lei, professor Niola, ha scritto che l’italiano è il popolo della terza persona. “È sempre l’altro a dover fare, spiegare, e la responsabilità è sempre del precedente governo, e poi ancora di quello prima, e poi prima e prima ancora. Un modo perfetto per disconoscere, dimenticare, nascondersi, basculare dentro la nuvola dell’indeterminatezza. Il misirizzi perfetto”.
Esiste una secrezione naturale delle responsabilità. La nostra società e la nostra burocrazia è costruita in modo che a nessuno venga mai in mente di associare il volto a un impegno, men che mai a una disfatta. “Esistono collettori prodigiosi di responsabilità. Se qualcosa va storto c’è sempre un presidio, naturalmente impersonale, che ha ostruito la nostra volontà. Una soprintendenza, o il sindacato, o i vigili urbani. Qualcuno – se non al di sopra – sicuramente al di fuori di noi. Lo scaricabarile diviene il passaggio essenziale per sopravvivere e continuare a patteggiare con la realtà”.
Ci sono esempi limpidi di scaricabarile. Il presidente della Lombardia Fontana che con diecimila infettati al giorno accusa il governo di aver schiaffeggiato l’onore lombardo. “Poi le dirò sull’uomo d’onore. È il presidente Fontana ad aver assestato uno schiaffo alla sua Lombardia per non aver saputo gestire al meglio una crisi comunque difficile. Però è certo che la Lombardia l’ha eletto con convinzione ed egli la rappresenta molto fedelmente. Oggi più che mai la classe politica è lo specchio integro della sequela di vizi della società civile (che infatti oggi non chiamiamo più così)”.
I napoletani ce l’hanno col governo per l’esatto opposto: avrebbero preferito la zona rossa. “Potevano bussare alla regione Campania, no? Oppure potevano comportarsi con più rigore per evitare questa disfatta. Sa che i quartieri a più alta incidenza di positivi sono quelli dove vive la borghesia napoletana? Chiaia e Posillipo. Una borghesia che non sa essere classe dirigente, che fa strame di regole e invoca l’altro. Lo invoca mostrandosi sorda a ogni responsabilità. Costoro compongono il più fenomenale quadro del tipico uomo d’onore”.
Ah, l’onore italiano. “L’onore è tenuto alto solo in famiglia. Appena fuori l’uscio di casa esso assume i caratteri della devianza. Siamo il popolo dell’onore familistico, e siamo il popolo dell’indulgenza. Nessuna colpa è assunta, nessuna responsabilità pagata. Tutto patteggiato, perdonato, condonato. I protestanti sono nati come reazione alla società dell’indulgenza: l’individuo risponde in solitudine e pienamente dei propri atti”.
Nonostante i nostri vizi e le collusioni, spesso ci indigniamo. “L’indignazione dura il tempo della fiammella di un cerino. La smemoratezza è un effetto collaterale del nostro essere misirizzi”.
Non ci salveremo. “Ci salveremo, ma pagando un pegno più alto del necessario. Facciamo spesso il paragone con i tedeschi: con la loro efficienza e organizzazione. Se ci pensa la nostra considerazione non muove dalla volontà di emularli ma solo dalla scelta di autodenigrarci pur di assolverci. Non saremo mai come loro, non lo possiamo essere. E qui torniamo al punto di partenza”.
Moriremo misirizzi. “Basculando di qua e di là”.
Due “pennellate” d’Autore tratte da “Il Paese del pressappoco” (Garzanti
editore, 2007) di Raffaele Simone, la prima dal capitolo trentaduesimo - “Il disprezzo verso altrui” -:
(…).
“Come viene viene” è una potente formula popolare, che va ad arricchire la
raccolta di espressioni che usiamo per indicare l’approssimativo, il
rabberciato, il rimediato, il fatto male. La formula ha molti sinonimi: “alla
carlona”, “alla garibaldina”, “alla meglio”, oppure – (…) – “all’italiana”!
Tutte alludono a un dovere eseguito senza passione né cura, tanto per farlo ma
senza nessuna speciale sollecitudine per la qualità dell’esito. Purtroppo
nel mondo abbiamo esattamente la reputazione corrispondente: tolti alcuni campi
in cui eccelliamo per tradizione, all’Italia e agli italiani si associa spesso
un’idea di impreciso, di approssimativo e di generico, una fama inveterata di
gente poco puntuale, poco capace di mantenere la parola, i cui prodotti
funzionano maluccio, i cui servizi arrancano, che tende a scegliere la
soluzione che richiede il maggior tempo, la procedura più bizantina, amante dei
rinvii e delle proroghe… (…). Seconda “pennellata” d’Autore tratta dal
capitolo trentaquattresimo “Sic et non”: (…). …il pressappochismo si
osserva non solo nell’orizzonte degli oggetti materiali, (…), ma anche, in modo
metaforico ma pesante, in quello delle relazioni tra le persone e della qualità
delle decisioni. Alludo al fatto che da noi sembrano impossibili sia la vera
fermezza (il cui principio è “sic et non”, questo sì, questo no) sia il vero
conflitto. L’una e l’altro sono infatti temperati dalla perpetua possibilità di
mediazione, di una sfumatura e di un’intesa, e creano così le premesse di quei
paradigmi che chiamiamo trasformismo e consociativismo.Entrambe
queste tendenze sono la manifestazione politica di un cocktail di proprietà del
nostro carattere: lo scarso rispetto dei limiti, la tendenza ad “aggiustare” i
conflitti, l’anarco-servilismo, il perdonismo, la speranza nell’immunità e
nell’impunità, una certa inesprimibile pigrizia dinanzi alle fatiche che
comporta la fermezza…In nome di questi fattori, a che serve
tenere una posizione in modo rigoroso, anche a costo di esporsi e di “rimetterci
di tasca propria”? Meglio mettersi d’accordo con la controparte, stabilire
accordi “programmatici, non politici” (termini tecnici del gergo politico), “convergenze
parallele”, fare comunella o maturare altre forme d’intesa con il nemico fondata
sullo scambio di favori e di prestazioni.Èstato osservato acutamente che il
consociativismo è la “maniera cattolico-barocca” di far politica. È “cattolica”
perché, alla maniera dei credenti, non vede nemici da nessuna parte, anzi non è
capace di concepire avversari: siamo tutti esseri umani destinati a soffrire,
tutti navighiamo nella stessa barca: quindi a che servono i contrasti? Tanto
vale mettersi d’accordo e vivere in pace. Una sorta di generico irenismo
oltremondano (che si declina però sotto forma di estremo cinismo) si distende
su tutte le tensioni. Ed è “barocca” perché induce a temerarie acrobazie
logiche di evitare di essere severi o intransigenti, di dover dire “no” a
qualcosa o qualcuno. Gli
intransigenti sono persone disposte a sacrificare il proprio particolare per
l’idea in cui credono o per il giudizio che hanno maturato. In Italia, però,
non c’è nulla di meno apprezzato di una persona veramente ferma. “Povero scemo”
è il parere che si insinua nelle menti più diverse (a volte, lo ammetto, anche
nella mia) quando si sente raccontare di una persona che, a forza di
intransigenza, si è messa nei guai o ha corso dei rischi, “non ha capito niente
della vita”.“L’intransigenza non appartiene al carattere
degli italiani”, ha spiegato infatti sconsolatamente Bobbio: “Gli intransigenti
sono rari, sono un’élite”. “Se no, no!”, come dice Mazzini. Da questo punto di
vista, Gobetti è stato un bell’esempio. Lo stato italiano non lo è. (…).
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