La “peste” e gli uomini. Tratto da
“La peste nera e il mondo nuovo” dello
storico Alessandro Barbero, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 19 di
novembre 2020: La peste ha sempre colpito profondamente l’immaginazione umana. Alcuni
fra i maggiori autori del canone occidentale, da Tucidide a Boccaccio, hanno
rappresentato le epidemie del loro tempo in pagine memorabili; e anche quando
la malattia è scomparsa dall’Occidente la sua formidabile potenza allegorica ha
continuato ad alimentare l’immaginazione degli scrittori. È il caso,
ovviamente, di Manzoni, ma anche di Camus, con la sua inquietante invenzione d’una
città novecentesca invasa dalla peste; o di Jean Giono, che nell’Ussaro sul
tetto descrive il colera del 1830, attribuendo però a quell’epidemia
relativamente benigna le connotazioni apocalittiche d’una pestilenza, di gran
lunga più efficaci quanto a resa letteraria. Ma l’epidemia più famosa è certo
quella del 1348, che gli inglesi chiamano Black Death e che anche da noi è
invalso l’uso di chiamare “Peste Nera”. Nata nelle steppe asiatiche, allora
sotto il dominio mongolo, la pestilenza si manifestò a Caffa, sulle rive del
Mar Nero, nella primavera del 1347; e da qui navi genovesi portarono in Italia
ratti, pulci e marinai infetti, contaminando dapprima il porto di Messina, e
poi via via gli altri porti italiani. A partire da quell’estate l’epidemia si diffuse
lentamente in tutta Europa, covando sotto la cenere nei mesi invernali, quando
le pulci cadono in una sorta di letargo, e riprendendo vigore ai primi caldi;
impiegò tre anni per raggiungere gli estremi confini d’Europa, la Scozia e la
Scandinavia, e per portar via, secondo stime correnti e quasi certamente
esagerate, un terzo della popolazione europea. Più correttamente bisognerebbe
dunque parlare dell’epidemia del 1347-1351, anche se il 1348 è l’anno che segnò
la massima mortalità nei Paesi più popolosi e civilizzati del continente, e in
cui Boccaccio vide la peste a Firenze e la descrisse. (…). …opinabile è una
visione epocale e catastrofica della pestilenza, quasi che a quell’evento, pur
traumatico, si potessero attribuire tutt’insieme il declino demografico e la
crisi economica del Trecento, un radicale mutamento di sensibilità e
addirittura la fine del Medioevo, qualunque cosa ciò significhi. Si rischia di
dimenticare che l’uomo d’allora era abituato a veder morire gli altri intorno a
sé, e sapeva che la morte porta via i giovani e addirittura i bambini con la
stessa frequenza degli adulti e dei vecchi. L’epidemia del 1348 confermò ciò
che tutti sapevano, e che già in precedenza trovava espressione nell’arte e
negli scritti dei moralisti. L’affresco di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa,
Il trionfo della Morte, ritenuto a lungo la più drammatica rappresentazione
dell’impotenza dell’uomo davanti alla peste, venne completato dieci anni prima
della grande epidemia. Anche sul piano economico e demografico la peste non
lasciò un’eredità a senso unico. L’epidemia, come ben notarono i contemporanei,
falciò i poveri più dei ricchi, mietendo la gran parte delle sue vittime fra
gli immigrati e i mendicanti che si accalcavano nei quartieri bassi delle
città, e fra i braccianti miserabili delle campagne. In Inghilterra morirono
solo due vescovi su diciassette e un cavaliere dell’ordine della Giarrettiera
su venticinque; fra tutti i re d’Europa uno solo, Alfonso X di Castiglia, cadde
vittima della moria. Magra consolazione, certo, soprattutto dal punto di vista
delle 295 vittime; ma è un fatto che i sopravvissuti si ritrovarono a respirare
meglio, in un mondo non più sovraffollato. Tutti quanti avevano ereditato dai
parenti morti, la disoccupazione era scomparsa e i salari in aumento, e le corporazioni
artigiane avevano abbreviato i periodi di apprendistato e facilitato l’accesso
alle professioni. “E tale che non avea nulla si trovò
ricco”, osserva freddamente il cronista fiorentino Marchionne di Coppo Stefani.
Quest’epidemia che regalò all’Europa il pieno impiego e consumi in crescita,
com’è ben documentato ad esempio nel caso della domanda di carne da parte delle
masse urbane, finisce per assomigliare stranamente a eventi più vicini a noi,
quale ad esempio la seconda guerra mondiale: eventi spaventosi, che
comportarono un momentaneo imbarbarimento di tutti gli standard morali, e un
carico atroce di sofferenze umane, ma che non si lasciarono dietro un mondo
istupidito e in declino, bensì una società formicolante di energie e d’una
ritrovata voglia di vivere. Rispetto alla guerra mondiale, la peste comportò
certo una mortalità immensamente più alta, ma lasciò intatte le città e le
case, le botteghe e i conti in banca; non è cinismo concludere che, sepolti gli
ultimi morti, gli europei tornarono ai loro affari con più impegno di prima.
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