Tra letteratura e Storia. Tra
verità ed invenzioni. Ho tratto un brano dallo stupendo volume “La pelle” (1949) di Curzio Malaparte.
Ove si narra come di un risveglio all’indomani di una delle più tragiche date che
si ricordino nel bel paese, quell’otto di settembre dell’anno 1943 che ha
segnato la sconfitta non tanto di un paese, di un popolo, quanto di un modo
distorto assai d’intendere i rapporti umani, le cose della democrazia, che
abbisognano sempre non tanto di un non discusso consenso – anche quando sia
suffragato dalle urne - quanto di una libera fattiva partecipazione di tutti
alla costruzione del collettivo benessere. Ed al giovane “liberatore” del brano,
che sbarca sulle italiche coste proveniente dall’altra parte dell’Atlantico
mare, sorge spontanea ed immediata l’emozione per un luogo che custodisce
memorie straordinarie di grandi gesta, gesta compiute sul proscenio di una Storia
da non dimenticare, di contro ad una storia minima di quel tempo scritta da
uomini piccoli piccoli ma esageratamente gonfi di un io ipertrofico, prorompente
assai. Come dire, che la Storia ha un ricorrente bisogno di riproporre tragedie
che immancabilmente si accompagnano a grottesche esibizioni. Ebbe a scrivere
Curzio Malaparte, una volta riportato dalla Sua attività di corrispondente di
guerra alla brutale realtà di un’Europa trasfigurata non tanto dalle
distruzioni materiali della guerra quanto dall’abbrutimento degli spiriti degli
uomini di quel tempo: «Oggi si soffre
e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose
orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle.
Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e
si soffre per la propria pelle. Tutto il resto non conta». E così è, e sarà sempre, ogni qual volta gli spiriti
piccoli piccoli di uomini piccoli piccoli abbiano a decidere e a guidare le
sorti delle genti. Nel racconto di Curzio Malaparte: Quando,
all’alba del 9 settembre del 1943, Jack era saltato dalla tolda di un LST sula
riva di Pesto, presso Salerno, s’era visto sorgere davanti agli occhi,
meravigliosa apparizione, nella rossa nube di polvere sollevata dai cingoli dei
carri armati, dagli scoppi delle granate tedesche, dal tumulto degli uomini e
delle macchine accorrenti dal mare, le colonne del tempio di Nettuno, sul
labbro di una pianura folta di mirti e di cipressi, sullo sfondo dei nudi monti
del Cilento simili ai monti del Lazio. Ah, quella era l’Italia, l’Italia di
Virgilio, l’Italia di Enea! E aveva pianto di religiosa commozione, buttandosi
in ginocchio sulla riva sabbiosa, come Enea quando sbarcò dalla trireme troiana
sul lido arenoso alla foce del Tevere, davanti ai monti del Lazio sparsi di
castelli e di templi bianchi nel verde profondo delle antiche selve latine. Ma
il classico scenario delle colonne doriche dei templi di Pesto nascondeva ai
suoi occhi un’Italia segreta, misteriosa: nascondeva Napoli, quella prima
terribile e meravigliosa immagine di un’Europa ignota, posta la di fuori della
regione cartesiana, di quell’altra Europa di cui egli non aveva avuto, fino a
quel giorno, se non un vago sospetto, e i cui misteri, i cui segreti, ora che
li veniva a poco a poco penetrando, meravigliosamente lo atterrivano. (…). Ha
ricordato Enrica Sermoneta Moscati, sfuggita fortunosamente al rastrellamento
compiuto nel ghetto di Roma il 16 di ottobre dell’anno 1943, nel corso
dell’intervista contenuta nel documentario “Una
storia romana”:“Quella tragica notte eravamo rimasti a dormire a casa di amici tranne
mio padre che venne catturato subito. Fino al 21 febbraio riuscimmo a rimanere
nascosti a casa finché dei fascisti, pagati 5 mila lire per ogni ebreo, presero
mia madre e gli altri miei fratelli”. Enrica Sermoneta Moscati aveva
allora solamente 11 anni. Trascrivo di seguito il racconto inedito di Antonio
Tabucchi (1943 - 2012) – appena recuperato e
pubblicato dalla Feltrinelli editore in un volume (pagg. 256, euro 17) che ha per
titolo quello del racconto inedito “Che
ora sono da voi?”, volume curato dallo scrittore Paolo Di Paolo - scritto a
mano e con inchiostro nero su sedici fogli di un grande taccuino e conservato a
Parigi presso la Bibliothèque Nationale de France, riportato sul quotidiano “la
Repubblica” del 12 di novembre 2020 con il titolo “Un orologio non fermerà l’orrore”: Lei lo sa cos’è un corpo? Lei ha
la coscienza del corpo? Lei ha mai pensato a cosa rappresenta un corpo? Quanta
pazienza ci è voluta alla natura per costruire proprio quel corpo, milioni e
milioni di anni di preparazione, di aggiustamenti, di combinazioni, un’era
geologica dopo l’altra, per sistemare un acido con una base, il verde della
clorofilla che diventa un’iride, e il nero della lava di un vulcano che diventa
il pigmento di un capello, di un’epidermide, e tutto così va avanti, milioni e
milioni di anni, ci pensa?, e poi così, come per miracolo nasce quel corpo,
quello unico e irripetibile [...] apparso in quel dato momento storico, dal
dodici marzo del ventidue al diciotto gennaio quarantaquattro del secolo XX
dell’era cristiana, per esempio, come mia sorella Sara, per esempio, apparsa il
dodici di marzo del 1922 e scomparsa il diciotto gennaio del 1944, era il
diciotto gennaio, la sera di cui le parlo, e noi eravamo in casa nostra, a
Trieste, mi rendo conto che la sto investendo con una valanga di parole, ma io
non gliele avrei mai dette, è lei che le è venute a cercare, già, eravamo tutti
in casa, io, mia madre, mio padre, mio zio Silvio, che era scapolo e viveva con
noi, e mia sorella Sara. Ah sì, dovrei raccontarle di Sara, della mia carissima
Sara, ma a che scopo? Perché dire proprio a lei come io amavo la mia sorellina
Sara, la mia sorellina più grande, più bella, più tutto di me, e come
l’ammiravo, e come la imitavo, perché avrei tanto voluto essere come lei […]. Alle
otto in punto, che coincidevano con le otto in punto dell’orologio di papà,
l’orologio della sala da pranzo suonava il carillon, erano otto note di un
minuetto, la mamma si alzava per prima e noi la seguivamo in sala da pranzo.
Quella sera era così, tale e quale alle altre. La mamma parlava di Klee, io ero
così felice per Sara che stavo quasi per rivelare tutto il segreto, il babbo
tirò fuori il suo orologio dal panciotto, disse: c’è qualcosa che non va, il
mio orologio segna le otto e dodici, il carillon non ha suonato, devo essermi
dimenticato di dargli la carica. Guardò me e disse: Liba, vai a vedere cosa
succede a quell’orologio. E così andai in sala da pranzo, e vidi che l’orologio
era fermo, non faceva nessun tic-tac. Segnava esattamente le otto meno cinque.
Stavo per chiamare tutti, e per sistemare le lancette, quando si sentirono dei
colpi alla porta. Io restai lì, perché i colpi erano troppo forti, mi fecero
paura. La mamma andò ad aprire. La porta della sala da pranzo era socchiusa, e
dai vetri si vedeva riflesso tutto quello che succedeva in salotto. Erano
quattro SS, con i fucili spianati. E li guidavano due giovani repubblichini con
la nappa sul cappello. Due ragazzi di Salò, come li chiamano oggi. Tenevano i
fucili puntati come se la mamma, il babbo, mia sorella Sara e lo zio Silvio
fossero dei pericolosi assassini. Non dissero niente, dissero solo: raus! Uno
dei repubblichini dette un’occhiata ai due scatoloni che la mamma aveva
preparato, sui quali c’era il nuovo indirizzo, e disse a bassa voce: volevate
scappare a Vienna, carini? La mamma guardò verso di me, e trovò il mio sguardo
nello specchio della porta. Lei fece un cenno rapido, imperioso, con la testa,
indicandomi il terrazzo che stava alle mie spalle. Io obbedii, senza sapere quello
che facevo. Le tende erano tirate, uscii sul terrazzo e chiusi la porta dal di
fuori. Da fuori riuscivo a vedere dentro, perché la stanza era illuminata, ma
da dentro non si poteva vedere attraverso le tende, perché fuori era buio. Però
da lì io non riuscivo più a vedere il salotto, sentivo solo rumori, e ordini in
una lingua sconosciuta che mi arrivavano indeboliti dai vetri. Riuscivo solo a
vedere l’orologio, e lo guardavo fissamente, perché mi sembrava che quel
quadrante mi guardasse. E allora mi misi a parlare con lui. Le sembra strano?
Guardi che non è poi così strano. Parlare mentalmente, voglio dire. E gli
dicevo, dentro di me: dai, stupido orologio, rimettiti a funzionare, fai girare
le tue lancette alla svelta, questo giorno non è mai esistito perché tu non
l’hai mai misurato, ora io ti fisso e quelle tue stupide lancette fanno due
giri completi e siamo già a domani […]. Ma quell’orologio non si mosse. Il suo
quadrante mi guardava con aria ottusa, e immobile. Poi vidi due ombre che si
muovevano nella stanza, due mani afferrarono l’orologio e se lo portarono via,
erano i giovani italiani, ma li vidi solo di schiena, e anche se li avessi
visti in faccia sarebbe uguale, non trova? E poi qualcuno spense la luce. Restai
sul terrazzo per non so quanto tempo. È difficile calcolare il tempo quando il
tempo sembra inghiottito in un gorgo. Uscii e traversai una Trieste deserta.
Come vede potei arrivare a Vienna, dove qualcuno mi dette ricovero. I miei finirono a Auschwitz-Birkenau e sono andati in fumo
nell’atmosfera. Io non mi sono mai sposata. Che cosa avrebbe mai fatto
nella vita una ragazzina così impreparata?, si chiedeva mia madre. Lei, caro
signore, cosa avrebbe fatto? Ho vissuto, come si può vivere. Un impiego alle
poste, anzi al telegrafo, e ora sono in pensione. I gatti con i quali vivo li
ho chiamati Mamma, Papà, zio Silvio, Sara. Quando ne muore uno lo sostituisco
con uno uguale e gli metto lo stesso nome. Nel palazzo mi tollerano, anche se
la portiera mi detesta e mi chiama sprezzantemente La Vecchia dei Gatti.
Probabilmente l’avrà detto anche a lei quando è venuto a cercarmi. La
descrizione dell’orologio che mi ha fatto è sufficiente, non importa che mi
mostri le fotografie che ha avuto la gentilezza di portare con sé.
Quell’orologio è fermo sulle otto meno cinque perché così lo consegnarono a suo
padre e nessuno lo ha più caricato. Io non lo rivoglio. Né lo voglio più
rivedere. Che sia un oggetto di un certo valore, non ne discuto, ma sa cosa le
propongo?, le propongo di regalarlo, perché io quel quadrante non lo voglio più
vedere. Potrebbe fare una donazione all’Italia, per esempio, il Paese il cui re
firmò le leggi grazie alle quali il nostro orologio è finito in mano sua. A
chi, scelga lei: il politico adatto, il ministro adatto, il giornalista adatto,
lo storico adatto non mancherà. Il massimo che io posso fare è aggiungere un
bigliettino a mio nome. Sarebbe un bigliettino assai semplice, tipo questo: per
me questo orologio segna le otto meno cinque del diciotto gennaio del 1944. Che
ore sono da voi?
Nessun commento:
Posta un commento