Ha scritto Massimo Fini in “Se è una guerra, bisogna censurare i dati horror” pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 18 di novembre 2020: (…). Gli idolatri della Costituzione non si
sono accorti (…) che la Costituzione così come fu concepita e dettata dai
nostri Padri fondatori non esiste più da tempo, sostituita da una “costituzione
materiale” che si viene via via elaborando basandosi sui fatti nel loro
incessante cambiare, fottendosene dei principi, così come scrive Giovanni Sartori
sulla cui democraticità non è ammissibile avere dubbi (Democrazia e
definizioni). Anche Norberto Bobbio che ha dedicato tutta la sua lunga vita
allo studio della Democrazia, essendone un fervente partigiano, ammette che la
Democrazia non è una democrazia, ma una poliarchia, cioè l’organizzazione di
gruppi di potere di vario genere sui quali l’influenza dei cittadini è minima
se non nulla. Un esempio di questa trasformazione della Costituzione
propriamente detta in “costituzione materiale” e della Democrazia in poliarchia
è dato dal potere assunto nel tempo dai partiti. Dei partiti si occupa un solo
articolo della Costituzione, il 49, che così recita: “Tutti i cittadini hanno
diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico
a determinare la politica nazionale”. È esperienza di tutti noi che i partiti
partendo da questo unico articolo hanno debordato in quasi tutti gli altri 139,
assumendo poteri fuorvianti in tutto il settore pubblico, ma anche in parte di
quello privato. Senza l’appoggio di un partito, quale che sia, non si vive in
Italia. Quello che era un diritto è diventato un obbligo. Non si tratta
naturalmente di prendere una tessera, questo lo fanno solo gli sprovveduti, ma
di dichiarare la propria fedeltà a un capo partito o a un sottocapo, così come
in altri ambiti di quel potere “poliarchico” di cui parla Bobbio, a clan
diversi, a lobby, a mafie di ogni genere, allo stesso modo in cui in epoca
medievale il valvassore dichiarava la propria fedeltà al feudatario e costui al
Re. (…). Su questa desolante ma purtroppo realistica rappresentazione
dello stato delle cose per la nostra democrazia un contributo prezioso lo ha
offerto, alla stessa data, Gustavo Zagrebelsky in un Suo intervento sul quotidiano
“la Repubblica” che ha per titolo “La
democrazia d’emergenza”. Mi sento di sostenere a lettura fatta che questa “democrazia
d’emergenza” sia ben antecedente alla pandemia in corso, confortato in
ciò proprio da un passaggio del prezioso scritto di Zagrebelsky laddove scrive
che “la
democrazia è (divenuta n.d.r.) il regime (…) del consenso a tempi brevi,
tra un'elezione l'altra; o a tempi brevissimi, tra un sondaggio e un altro”. Uno
snaturamento profondo e gravissimo dell’istituzione democratica che distorce, nei
responsabili della cosa pubblica, qualsivoglia priorità e qualsivoglia visuale
operativa o di scelta purché esse siano non già a vantaggio di tutta una
comunità ma ad un presente che nell’immediato renda al massimo i suoi frutti
elettorali. Ha scritto ancora Gustavo ZagrebelskY: Nelle fasi tranquille e
ripetitive della vita le domande di fondo stanno, per l'appunto, nel fondo.
"Emergenza" sta a dire che vengono a galla. Denudano le deboli o
false idee che ci fanno riposare nei momenti tranquilli. I momenti difficili sono
"archeologici", mostrano verità prime. L'arché è ciò che sta in
principio e ha la sua verità che dura nel tempo, anche quando l'abitudine, il
conformismo e la pigrizia impediscono di vederla. L'emergenza straccia un velo
in cui spesso, per non vedere ciò che preferiamo ignorare, ci avvolgiamo. Questa
premessa è forse un po' troppo ampollosa, volendo parlare di queste due
questioni politiche: il bene e il male del regionalismo, la capacità e
l'incapacità di prevenzione. Questioni diverse che confluiscono, però, in domande
sulla democrazia. (…). L'emergenza-virus ha svelato l'illusione e la realtà. Si
incomincia a pronunciare quella che, fino a non molto tempo fa, sarebbe stata
una bestemmia, che non mancherebbe di argomenti: altro che buon governo delle
Regioni; aboliamole piuttosto! Tuttavia, invece che inseguire questa utopia, la
lezione da trarre dalle emergenze è che, al di là della buona o cattiva volontà
di questo o quel "governatore", ma per ragioni strutturali di
consenso, è che esse sono "divisive", paralizzanti. Nelle emergenze
sanitarie, ecologiche o finanziarie, le misure necessarie sono necessariamente
restrittive: limitano diritti e impongono doveri. Sono dolorose e impopolari.
L'impopolarità, che si misura nelle elezioni e nei sondaggi, è l'incubo non
solo per il populismo d'ogni genere ma anche per le democrazie che, più d'ogni
altro regime, hanno bisogno di consenso. Quando i governanti sono deboli e non
sanno suscitare le passioni civili positive che sono tanto necessarie nella
cattiva sorte, ecco manifestarsi la fuga dalle responsabilità: spetta a te, non
a me. Normalmente, nella dialettica tra potere centrale e poteri decentrati,
avviene il contrario: spetta a me, non a te. Ma solo se si tratta di
distribuire benefici, non quando si tratta di imporre sacrifici. La
prevenzione. Le catastrofi non sono affatto un privilegio del nostro tempo.
Collasso s'intitola un gran libro di Jarret Diamond che trova testimonianze
numerose nello spazio e nelle epoche storiche; Chiara Frugoni ci apre gli occhi
(letteralmente, attraverso un'iconografia meravigliosa e terrificante) sulle
Paure medievali - Epidemie, prodigi, fine del tempo - . Questo per dire che non
c'è nulla di nuovo sotto il sole? Non del tutto. Noi viviamo in un tempo in cui
possiamo essere preveggenti (perfino di terremoti e disastri idro-geologici) e
potremmo immaginare e preparare difese e rimedi. "Potremmo" ma quasi
mai ci riusciamo. Qui stanno la nostra angoscia e la nostra frustrazione.
Psicologicamente, sarebbe perfino meglio che si dovesse ammettere d'essere
nelle mani del fato o dell'ira divina. Almeno, ci si rassegnerebbe oppure si
celebrerebbero novene e processioni penitenziali per i nostri peccati. Non ci
si avvilupperebbe nel sentimento distruttivo di potenza impotente e di
risentimento verso coloro (scienziati e politici) che immaginiamo dispongano
degli strumenti adatti per difenderci ma non lo fanno. Anche a questo proposito
abbondano le parole: drammi e dolori che si trasformano in parole. Non c'è
programma di partito o di governo che non parli di piani, promesse,
investimenti e li metta tra le "priorità". Ma sono per lo più
chiacchiere. Il linguaggio lo certifica: "Serve" questo e "serve"
quest'altro. Siamo un Paese meraviglioso, per questo dobbiamo proteggerlo e, a
tale fine, "servono" tantissime cose. Tra le parole che non si
dovrebbero pronunciare, e invece sono sulla bocca di tutti, politici,
intellettuali, commentatori, c'è questa. Siamo il "bel Paese là dove il
'serve' suona"; sì, ma a vuoto. Perché è così difficile passare dalle
parole ai fatti? Ancora una volta, per ragioni strutturali. La democrazia è il regime non solo, genericamente, del
consenso, ma del consenso a tempi brevi, tra un'elezione l'altra; o a tempi
brevissimi, tra un sondaggio e un altro. È democrazia, anzi
iper-democrazia, ma impotente di fronte a problemi che, quando ci sono stati,
non ci sono più e, quando non ci sono, potrebbero non esserci mai. L'uomo
politico che vive tra questi tempi effimeri che non ci sono più e non ci sono
ancora (o magari non ci saranno mai) può pensare di chiedere sacrifici ai suoi
elettori? Se lo facesse, con prelievi fiscali supplementari, con mancate
sovvenzioni, con restrizioni di servizi, con obblighi di comportamenti insoliti
o divieto di comportamenti abituali, potrebbe aspirare a passare alla storia
come un eroe preveggente, ma sarebbe un aspirante suicida nei tempi brevi. Questo
è un tarlo che rode la democrazia, la sua contraddizione. Nell'oggi si occulta
il domani e nel domani si recriminerà su ieri. Nel tempo delle difficoltà, si
rischia di girare a vuoto. Tempo e democrazia: ecco un tema costituzionale che
gli Antichi conoscevano bene e noi ignoriamo bellamente. Dovremmo
preoccuparcene, come se anch'esso fosse - e in effetti è - una questione di
emergenza.
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