Ha scritto Enzo Bianchi – ex priore di Bose – in "Reagire all’indifferenza"
ieri lunedì 23 di novembre 2020 sul quotidiano “la Repubblica”: Ricordare,
rileggere quello che si è vissuto, discernere come lo si è vissuto e infine
confrontarlo con il presente, è operazione importante per la nostra
consapevolezza e sapienza umana. Lo stesso progetto del futuro dipende dallo
sguardo penetrante sul passato e dall’analisi del presente. Mettiamo in pratica questo metodo considerando
le due ondate di pandemia. Quella primaverile, inattesa, che ci sorprese,
richiedendoci dei mutamenti improvvisi di stili di vita; quella autunnale,
preannunciata da alcuni ma non creduta dai più. Molte fatiche e sofferenze si
sono ripetute, ma è diverso lo spirito con cui le abbiamo vissute. All’inizio
vi fu una certa esplosione vitalistica di scongiuri contro la pandemia: canti e
musiche dai balconi, grida che tutto sarebbe andato bene, iniziative talvolta
fantasiose tese ad affermare la volontà di combattere una guerra e vincerla. (…).
…regna l’indifferenza: l’indifferenza che oggi proviamo al suono delle
ambulanze che percorrono le nostre città come a marzo; l’indifferenza verso il
numero di morti e le modalità terribili con le quali i più se ne vanno, in una
solitudine disperante; l’indifferenza verso quelli che oggi provano molta più
angoscia, perché si moltiplicano le vittime tra i loro conoscenti. Degli
anziani che vivono soli in pochi metri quadrati, veri invisibili perché nessuno
li conosce né li chiama per nome, nemmeno nel condominio, mi hanno detto con
molta tristezza: «Ci si abitua a tutto!». Occorre invece reagire, confermandoci
gli uni gli altri nella speranza, scambiandoci con fiducia parole e segni di
attenzione reciproca, e anche con l’indignazione verso situazioni che dipendono
da comportamenti e scelte irresponsabili. Trascrivo di seguito “Cosa imparai a un passo dalla morte”, riportato
sul quotidiano “la Repubblica” di ieri 23 di novembre ed estratto dal volume “Ritorniamo a sognare” di Jorge Mario
Bergoglio, vescovo di Roma – Piemme editrice,
pagg. 176, Euro 15.90 -: Nella mia vita ho avuto tre situazioni
"Covid": la malattia, la Germania e Córdoba. Quando a ventun anni ho
contratto una grave malattia, ho avuto la mia prima esperienza del limite, del
dolore e della solitudine. Mi ha cambiato le coordinate. Per mesi non ho saputo
chi ero, se sarei morto o vissuto. Nemmeno i medici sapevano se ce l'avrei
fatta. Ricordo che un giorno chiesi a mia madre, abbracciandola, di dirmi se
stavo per morire. Frequentavo il secondo anno del seminario diocesano a Buenos
Aires. Ricordo la data: era il 13 agosto 1957. A portarmi in ospedale fu un
prefetto, accortosi che non avevo il tipo di influenza che si cura con
l'aspirina. Per prima cosa mi estrassero un litro e mezzo di acqua da un
polmone, poi restai a lottare tra la vita e la morte. A novembre mi operarono
per togliermi il lobo superiore destro del polmone. So per esperienza come si
sentono i malati di coronavirus che combattono per respirare attaccati a un
ventilatore. Di quei giorni ricordo in particolare due infermiere. Una era la
caposala, una suora domenicana che prima di essere inviata a Buenos Aires era
stata docente ad Atene. Ho saputo in seguito come, dopo che il medico se ne
andò una volta concluso il primo esame, sia stata lei a dire alle infermiere di
raddoppiare la dose del trattamento che lui aveva prescritto - a base di
penicillina e di streptomicina - perché la sua esperienza le diceva che stavo
morendo. Suor Cornelia Caraglio mi salvò la vita. Grazie al suo contatto
abituale con i malati, conosceva meglio del medico ciò di cui avevano bisogno i
pazienti, ed ebbe il coraggio di usare quell'esperienza. Un'altra infermiera,
Micaela, fece la stessa cosa quando ero straziato dal dolore. Mi dava in
segreto dosi extra di calmanti, fuori dell'orario previsto. Cornelia e Micaela
ormai sono in cielo, ma sarò sempre in debito con loro. Si sono battute per me
fino alla fine, finché non mi sono ripreso. Mi hanno insegnato che cosa
significa usare la scienza e sapere andare anche oltre, per rispondere alle
necessità specifiche. Da quella esperienza ho imparato un'altra cosa: quanto
sia importante evitare la consolazione a buon mercato. Le persone mi venivano a
trovare e mi dicevano che sarei stato bene, che non avrei mai più provato tutto
quel dolore: sciocchezze, parole vuote dette con buone intenzioni, ma che non
mi sono mai arrivate al cuore. La persona che più mi ha toccato nell'intimo,
con il suo silenzio, è stata una delle donne che mi hanno segnato la vita: suor
María Dolores Tortolo, mia insegnante da piccolo, che mi aveva preparato per la
Prima Comunione. Venne a vedermi, mi prese per mano, mi diede un bacio e se ne
stette zitta per un bel po'. Poi mi disse: "Stai imitando Gesù". Non
c'era bisogno che aggiungesse altro. La sua presenza, il suo silenzio, mi
donarono una profonda consolazione. Dopo quell'esperienza presi la decisione di
parlare il meno possibile quando visito malati. Mi limito a prendergli la mano.
(...). Potrei dire che il periodo tedesco, nel 1986, è stato il "Covid
dell'esilio". Fu un esilio volontario, perché ci andai per studiare la
lingua e a cercare il materiale per concludere la mia tesi, ma mi sentivo come
un pesce fuor d'acqua. Scappavo a fare qualche passeggiatina verso il cimitero
di Francoforte e da lì si vedevano decollare e atterrare gli aeroplani; avevo
nostalgia della mia patria, di tornare. Ricordo il giorno in cui l'Argentina
vinse i Mondiali. Non avevo voluto vedere la partita e seppi che avevamo vinto
solo l'indomani, leggendolo sul giornale. Nella mia classe di tedesco nessuno
ne fece parola, ma quando una ragazza giapponese scrisse "Viva
l'Argentina" sulla lavagna, gli altri si misero a ridere. Entrò la
professoressa, disse di cancellarla e chiuse l'argomento. Era la solitudine di
una vittoria da solo, perché non c'era nessuno a condividerla; la solitudine di
non appartenere, che ti fa estraneo. Ti tolgono da dove sei e ti mettono in un
posto che non conosci, e in quel mentre impari che cosa conta davvero nel luogo
che hai lasciato. A volte lo sradicamento può essere una guarigione o una
trasformazione radicale. Così è stato il mio terzo "Covid", quando mi
mandarono a Córdoba dal 1990 al 1992. La radice di questo periodo risaliva al
mio modo di comandare, prima da provinciale e poi da rettore. Qualcosa di buono
senz'altro lo avevo fatto, ma a volte ero stato molto duro. A Córdoba mi hanno
reso il favore e avevano ragione. In quella residenza gesuita trascorsi un
anno, dieci mesi e tredici giorni. Celebravo la Messa, confessavo e offrivo
direzione spirituale, ma non uscivo mai, se non quando dovevo andare
all'ufficio postale. Fu una specie di quarantena, di isolamento, come nei mesi
scorsi è successo a tanti di noi, e mi fece bene. Mi portò a maturare idee:
scrissi e pregai molto. Fino a quel momento nella Compagnia avevo avuto una
vita ordinata, impostata sulla mia esperienza dapprima da maestro dei novizi e
poi di governo dal 1973, quando ero stato nominato provinciale, al 1986, quando
conclusi il mio mandato di rettore. Mi ero accomodato in quel modo di vivere.
Uno sradicamento di quel tipo, con cui ti spediscono in un angolo sperduto e ti
mettono a fare il supplente, sconvolge tutto. Le tue abitudini, i riflessi
comportamentali, le linee di riferimento anchilosate nel tempo, tutto questo è
andato all'aria e devi imparare a vivere da capo, a rimettere insieme
l'esistenza. Di quel periodo, oggi, mi colpiscono in particolare tre cose.
Prima, la capacità di pregare che mi è stata donata. Seconda, le tentazioni che
ho provato. E terza - ed è la cosa più strana - che allora mi sia capitato di
leggere i trentasette tomi della Storia dei Papi di Ludwig Pastor. Avrei potuto
scegliere un romanzo, qualcosa di più interessante. Da dove sono adesso mi
domando perché Dio mi avrà ispirato a leggere proprio quell'opera in quel
momento. Con quel vaccino il Signore mi ha preparato. Una volta che conosci
quella storia, non c'è molto che possa sorprenderti di quanto accade nella
curia romana e nella Chiesa di oggi. Mi è servito molto! Il "Covid"
di Córdoba è stato una vera purificazione. Mi ha dato più tolleranza,
comprensione, capacità di perdonare. Mi ha lasciato anche un'empatia nuova con
i deboli e gli indifesi. E pazienza, molta pazienza, ovvero il dono di capire
che per le cose importanti ci vuole tempo, che il cambiamento è organico, che
ci sono limiti e dobbiamo operare al loro interno e mantenere al tempo stesso
gli occhi sull'orizzonte, come ha fatto Gesù. Ho imparato l'importanza di
vedere il grande nel piccolo, e di stare attento al piccolo nelle cose grandi.
È stato un periodo di crescita in molti sensi, come tornare a germogliare dopo
una potatura a fondo. Ma devo stare in guardia, perché quando cadi in certi
difetti, in certi peccati, e ti correggi, il diavolo, come dice Gesù, torna, vede
la casa "spazzata e adorna" (Luca 11, 25) e va a chiamare altri sette
spiriti peggiori di lui. La fine di quell'uomo, dice Gesù, diventa molto
peggiore di prima. Di questo devo preoccuparmi, adesso, nel mio incarico di
governare la Chiesa: di non cadere negli stessi difetti di quando ero superiore
religioso. [...]. Questi sono stati i miei principali
"Covid" personali. Ne ho imparato che soffri molto, ma se lasci
che ti cambi ne esci migliore. Se invece alzi le barricate, ne esci peggiore.
"La solitudine è indispensabile per l'uomo perché acutizza la sensibilità e amplifica le emozioni".(Walter Bonatti). "Quando si evita ad ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all'opportunità di provare la solitudine:quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e,in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione ".(Zygmunt Bauman). " La solitudine ha morbide mani di seta, ma con forti dita afferra il cuore e lo fa soffrire. La solitudine è alleata del dolore come pure una compagnia di esaltazione spirituale".(Khalil Gibran). "Le grandi elevazioni dell'anima non sono possibili se non nella solitudine e nel silenzio".(Arturo Graf). "Poco per volta comincio a vedere chiaro sul più universale difetto del nostro genere di formazione e di educazione:nessuno impara, nessuno tende, nessuno insegna a sopportare la solitudine". (Friedrich Nietzsche). "Bisogna essere molto forti per amare la solitudine".(Pier Paolo Pasolini). "La solitudine è per lo spirito ciò che il cibo è per il corpo".(L.A.Seneca). Grazie, Aldo, per aver condiviso questo post eccezionale, che consolida alcuni miei punti di vista. "Ritorniamo a sognare" è un libro che sicuramente leggerò, perché è forte in me la speranza che questo periodo di solitudine, di paura e di crisi possa servire a rendere migliore e più consapevole almeno una parte dell'umanità, quella che crede possibile un mondo più giusto. Buona continuazione.
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