Cronaca seconda. Tratta da “Pandemia. Il Covid sta diventando classista” di Alessandro Robecchi pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 28 di ottobre 2020: Alla fine, girandola come si vuole, guardandola da più angolazioni, la situazione è questa: centinaia di migliaia di ragazzi non possono andare a scuola perché i trasporti pubblici che servono (tra le altre cose) a portarceli, fanno schifo e compassione, ovunque, senza eccezioni. Il bilancio di ciò che hanno fatto (e soprattutto non fatto) le amministrazioni regionali in sette mesi di quasi-tregua dell’epidemia è lì da vedere: desolante. Il tentativo di addossare soltanto alla famosa “movida” (in tutte le sue varianti) la responsabilità della seconda ondata non ha funzionato. Le immagini che ci vengono da treni locali, autobus urbani e metropolitane, invece, rendono bene l’idea: nessuno sano di mente può pensare che ci si infetti di più in un cinema semivuoto il giovedì sera (non dico dei teatri perché mi si stringe il cuore) che sul 31 barrato il venerdì mattina. Lo spettacolo è ancora più grottesco se si passa qualche minuto accanto ai binari di una grande stazione: la differenza tra chi scende da un Freccia Rossa – distanziato e garantito – e chi scende da un regionale – carro bestiame – è così evidente, dickensiana, da strabiliare. E ovunque si volga lo sguardo ciò che salta agli occhi come uno squalo nella vasca da bagno è questo: le diseguaglianze volano, si moltiplicano, allargano la loro forbice, salvano chi sta in alto nella scala sociale e schiacciano chi sta in basso. La terapia intensiva sarà pure una livella, per citare Totò, ma prima di arrivarci di livellato non c’è niente. E’ una cosa che quelli dei piani di sotto, con l’ascensore sociale che non funziona, sentono ogni giorno sulla loro pelle. Gente che magari aspetta un tampone da giorni e legge costantemente di un mondo superiore dove ci si tampona ogni venti minuti allegramente tra vip, calciatori, star televisive. La serie A, insomma, sfugge all’affannata burokrazjia sanitaria mentre, la serie B e le altre serie minori arrancano al telefono con il medico di base, l’asl, la coda in macchina con bambino che tossisce, la mamma che non può andare al lavoro. I sostenitori felloni di quell’imbroglio ideologico chiamato “meritocrazia” dovranno spiegarci come si fa a fare la gara del “merito” tra un ragazzo iperconnesso, attrezzato, munito nella sua stanza di numerosi device, e il suo omologo proletario, che si litiga il tablet con l’altro fratello, magari in un bilocale dove anche papà, o mamma, cercano di lavorare in smart-working. Situazione dolorosa per la perdita di socialità negli anni più esplosivi della vita, per tutti; ma per il secondo ragazzino anche il rischio serio di mollare il colpo, di rinunciare, di abbandonare la scuola per essere risucchiato nella palude della bassa specializzazione, della mano d’opera a basso costo. Tracciare, curare, combattere il virus, insomma, è impresa titanica, e si sa. Ma c’è un’altra cura urgente da attuare subito: evitare che il virus diventi definitivamente e irrimediabilmente classista, cosa che già è oltre i limiti di guardia. La scommessa vera sarebbe quella di ampliare la sfera dei diritti: un tablet per ogni studente, un posto tranquillo sull’autobus, un reddito garantito almeno per campare, un accesso universale, rapido, gratuito per il vaccino, se e quando arriverà. Questa è la partita che deve giocare la politica. Se non lo fa, se nemmeno ci prova, se ci ritroveremo domani non solo in situazione di maggior povertà, ma anche in situazione di maggiore ingiustizia, significa che la politica non basta più, che il virus di classe ha vinto.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
venerdì 6 novembre 2020
Virusememorie. 45 Cronache semi-serie (o meglio avvilenti) dalla peste 2020.
Cronaca prima.
Tratta da “Gli opposti virologi” di
Michele Serra pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 28 di ottobre 2020:
A
conferma della tesi che destra e sinistra, date per morte, sono invece ancora
in grado di apparentare e dividere come pochi altre cose al mondo, ecco la
fantastica sortita del dottor Zangrillo, che accusa il virologo Galli di
odiarlo perché (Galli) è un ex sessantottino. E lui (Zangrillo) evidentemente
no. Anche perché Zangrillo aveva, nel 1968, dieci anni, e si suppone che non
fosse determinato, già allora, a diventare il medico di Berlusconi. Eppure -
vedi la potenza della politica - Zangrillo è in grado di far risalire proprio a
quelle infocate assemblee l'animosità che muove da più di mezzo secolo azioni e
opere del dottor Galli, imminente autore del pamphlet L'eskimo sotto il camice.
Naturalmente non esiste una virologia di destra, neppure una virologia di
sinistra. Ma dobbiamo riconoscere, soprattutto per merito di Zangrillo, che una
certa differenza di approccio, e direi di umore, è riscontrabile, a dispetto
della neutralità della scienza. Il virologo di destra trova molto lugubre
l'idea (di sinistra?) che si possa morire di Covid, e dunque sia opportuno
rinunciare al week-end a Portofino e organizzare bicchierate. Si sa, la
sinistra è quaresimale, la destra invece ride e tromba, lo diceva anche il
paziente più illustre di Zangrillo, che su quell'idea allegramente sconcia
dell'esistenza ha costruito la sua fortuna. Ecco dunque spiegato perché Galli
odia Zangrillo. Ne invidia la spensieratezza. Forse anche l'ascendente sulle
pazienti. Il medico di destra, si sa, è abbronzato e di bell'aspetto. Quello di
sinistra, pallido e corrucciato, non è in grado di sfornare una bella prognosi
fausta neanche a pagamento.
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