Tratto da “Trump
e la realtà deformata” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di oggi 16 di novembre 2020: (…). …quella che si gioca oggi a Washington
non è soltanto una partita americana, e noi non siamo semplici spettatori. La
questione riguarda l'universo democratico, dunque l'intero Occidente.
Ipnotizzati dal risultato di un braccio di ferro senza precedenti, noi
rischiamo infatti di perdere di vista un'altra eccezionalità, quella del
processo che poco alla volta ha autorizzato questa anomalia, l'ha costruita e
l'ha messa in campo, non solo negli Usa. Non siamo infatti di fronte ad un
colpo di testa, dettato dalla rabbia per il risultato elettorale, ma a una
scelta strategica perfettamente coerente con la concezione populista della
sovranità. Quello di Trump infatti non è un impulso, bensì un esito. E tutto il
racconto del sistema americano fatto in questi quattro anni porta
necessariamente a questa gestione della sconfitta. L'avvento di Trump si basa
sulla denuncia di una malattia della democrazia: questo è il dato fondamentale,
costitutivo della sua cultura politica, ma più ancora della sua leadership. Lui
infatti non solo testimonia questo malessere, ma lo impersona. In questo senso
è un precipitato perfetto dei tempi, l'uomo in grado di interpretarne lo
spirito e di farne una rappresentazione simbolica.Tutti i mali dell'epoca - lo
spaesamento provocato dalla globalizzazione, le esclusioni generate dalla crisi
economica, la precarietà prodotta dalla pandemia, le passioni spente per il
costituzionalismo, i diritti, la libertà - vengono usati a conferma delle
disfunzioni del meccanismo democratico, che con le sue regole e coi suoi
vincoli interni e internazionali impedisce alla leadership del Paese di
dispiegarsi appieno, proteggendo l'America e rifacendola grande. Ci sono
responsabili precisi per tutto questo: l'establishment che si identifica nel
sistema, l'élite che usa il suo sapere per autogarantirsi e perpetuarsi,
aiutata dalla scienza e dalla cultura, strumenti ancillari della classe
dirigente che le consuma in esclusiva come privilegi, nutrimento riservato agli
dei che siedono in permanenza al banchetto del potere. Questa teoria trasforma
il leader in un vendicatore, annullando così le distanze sociali, finanziarie,
di status tra il tycoon miliardario e il suo elettore, azzera le differenze di
classe in nome di un reciproco e superiore riconoscimento "di specie",
in quanto entrambi sono ribelli e soprattutto estranei al sistema e alle sue
regole. Anzi Trump con il suo impero personale, il suo successo e la sua forza
economica è il collettore naturale dei risentimenti dominanti, il
moltiplicatore perfetto delle richieste di risarcimento sociale diffuse,
l'interprete ideale della protesta popolare crescente, per portarla
direttamente dentro l'establishment e qui farla esplodere. Fino all'esperimento
finale di una presidenza che è insieme di governo del Paese e di opposizione al
sistema. Quanto più il leader esercita il potere, tanto più ha bisogno di
accentuare la sua carica anti-istituzionale, per mantenere integra la propria
immagine di outsider, e intatta la pulsione ribelle dei suoi seguaci. Il
racconto dei fatti interni ed esterni al Paese è dunque costantemente
esasperato, appositamente radicalizzato, mentre viene scientificamente
semplificato, quasi sempre nella dialettica binaria amici-nemici. E quando la
realtà non conferma la teoria, la teoria diventa teorema, deformando la realtà
fino a costringerla ad entrare nello schema populista. Il leader diventa
produttore di una realtà parallela a cui chiede ai suoi seguaci di aderire con
un moto d'istinto, un atto di conferma della fede, come invocano i predicatori.
Se poi nelle urne il popolo, fonte del carisma oltre che del comando, sconfigge
il populismo, si nega il fatto, come se non fosse mai accaduto. Tutto è stato
preparato per questa ritrattazione del reale, con un sospetto nazionale di
massa decretato dal potere, accettato, introiettato e replicato dal popolo. E
il Paese è stato portato da tempo alla temperatura emozionale giusta perché il
nudo dato di fatto venga semplicemente boicottato e sostituito da un racconto
alternativo, dove il leader in un'auto-proclamazione fuori da ogni regola
compie la sua missione vincendo. Chi impedisce la realizzazione di questo
scenario, compie un furto di desiderio, un esproprio di destino. È il male che
impedisce al bene di realizzarsi. Questo schema demonizza gli avversari delegittimandoli,
indebolisce la democrazia accusandola di essere corrotta, avvelena il sistema
denunciando la frode delle sue procedure fondamentali: ma consente al populismo
di non interrompere la narrazione eroica di sé, perché la leadership non è sconfitta,
ma derubata della vittoria. Il procedimento è elementare nei suoi passaggi,
dispotico nei suoi effetti. Ha bisogno di un personaggio letteralmente
eccezionale per compiersi, nel senso che senza "quel" leader fuori
dalle regole e dalla norma, dunque fuori misura, sarebbe impossibile l'alchimia
populista che trasforma sentimenti e risentimenti in una contropolitica che
nega la realtà. Ma attenzione: anche senza "quel" popolo la
sostituzione del reale sarebbe impossibile. Se invece è plausibile, addirittura
credibile, è perché oggi qualsiasi sub-cultura e qualunque contro-narrazione
viene accettata e condivisa da una fetta della popolazione in tutto
l'Occidente, purché contesti e contraddica la verità ufficiale, anche se questa
ha la certificazione del sigillo istituzionale, del controllo scientifico,
addirittura dell'evidenza. Abbiamo lasciato deperire la cifra di legittimità
della nostra vita civile a tal punto che qualsiasi negazione dei risultati
quotidiani dello scambio democratico continuo in cui viviamo è accolta con un
pregiudizio positivo, come se contribuisse a svelare il grande inganno che ci
avviluppa. Non abbiamo fatto la guardia alla democrazia, lasciandola estenuare
sotto attacchi che solo pochi anni fa erano inconcepibili. Sono gli "spiriti
maligni" (…), la xenofobia dilagante, il disprezzo ostentato per la
cultura, l'elogio dell'ignoranza, il complottismo, il negazionismo, il
politicamente scorretto. Nessun Paese è immune. Mentre ci stupiamo per la
contestazione di Trump al voto, in Europa Ungheria e Polonia minacciano il veto
al varo del Recovery fund se questo è vincolato al rispetto dello Stato di
diritto: chiedendo in pratica alla Ue il passaporto per diventare Paesi
autoritari. Il voto dunque ha battuto il populismo, ma la strada è lunga:
perché si tratta di restituire lo scettro alla democrazia, rendendola credibile
anche per chi vive nella bolla di vetro della realtà parallela.
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