"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 30 novembre 2020

Memoriae. 23 «Questa è anche un´epoca di restrizione delle cerchie della socievolezza».

 

Giusto per non definire un “paradigma nuovo” la linea politica annunciata e perseguita caparbiamente dal “capitano” leghista nell’esercizio delle sue “mansioni” politico-ministeriali. I presupposti c’erano già tutti al tempo di questa “memoria” che risale al martedì 22 di luglio dell’anno 2008. Scrivevo allora:

domenica 29 novembre 2020

Cosedaleggere. 85 «La storia non è una inevitabile ascesa verso il mercato e il denaro».

Tratto da “Il rito del dono, lezione per il virus” di Massimo Fini, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri 28 di novembre: (…). Dunque il dono.

sabato 28 novembre 2020

Leggereperché. 50 «Diventare grandi sta proprio nella consapevolezza che non lo saremo mai».

Tratto da “Diventare grandi è un mestiere che dura tutta la vita” di Claudia De Lillo – in arte Elasti - pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 28 di novembre dell’anno 2015: Ricordo un pomeriggio di tanto tempo fa. Non so con precisione quanti anni avessi, ma non erano molti. Ero a casa di mia nonna, nel suo salotto con il parquet scuro, su cui era vietato camminare scalzi («Attenta! Ti entrano le spine nei piedi!». Sarà stato vero? O era solo una delle tante invenzioni degli adulti per tenerci in scacco?).

venerdì 27 novembre 2020

Lalinguabatte. 99 Mark Twain: «Nel tempo in cui una bugia fa il giro del mondo, la verità non si è ancora allacciata le scarpe».

 

Tratto da “Ma la censura è peggio delle fake news”, intervista di Riccardo Staglianò a Mark Thompson del New York Times pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 28 di agosto 2020: Il vecchio Mark Twain, come al solito, l’aveva detto meglio di tutti: «Nel tempo in cui una bugia fa il giro del mondo, la verità non si è ancora allacciata le scarpe». (…).

Perché questa volta sarebbe diverso? «La tecnologia ha reso la velocità di propagazione infinitamente maggiore. È un acceleratore pazzesco di quel che succedeva già prima. Attraverso la rete un politico può impiantare un’idea in dieci milioni di menti ancor prima di essere sceso dalla tribuna. E le dinamiche virali dei social network offrono pochissimi incentivi alle persone per assumere un tono riflessivo e moderato. Piuttosto il contrario. Detto questo sono anche sorpreso quando i miei amici di sinistra trovano assolutamente ovvio che Facebook debba censurare affermazioni ritenute offensive. Per me non è affatto ovvio. Perché di quel passo finiremmo come la Cina, dove lo Stato censura le voci fuori dal coro con la scusa di proteggere il popolo».

E pensare che all’inizio della rivoluzione digitale si diceva che internet avrebbe allargato il dibattito, dando voce a tutti: cosa non ha funzionato? «Era un ottimismo acritico come acritico è il pessimismo attuale verso tutto quello che riguarda la rete. (…). …tento un’analogia con l’invenzione della stampa. C’è voluto tempo per capire che non bastava che qualcosa fosse stampato perché fosse vero. Forse ne serve altrettanto per conquistare la stessa consapevolezza con la rete. Ho fiducia nella capacità delle persone di discriminare tra vero e falso, ma è più difficile farlo avendo davanti solo 140 caratteri. La tecnologia è come un velo supplementare».

Vivere in mezzo alle fake news non dovrebbe essere il paradiso dei giornali, come fornitori di notizie vere? «Certo. Il problema è di sostentamento, non di necessità della professione. C’è chi, come il Guardian, fa un punto di principio nel non fare pagare il sito sostenendo che sia una scelta democratica. Ma noi, mentre accumulavamo sei milioni di abbonati paganti, a marzo abbiamo avuto anche 240 milioni di visitatori al sito. Si può fare l’uno e l’altro».

L’altra deriva populistica che denuncia è la morte dell’expertise: perché non ci fidiamo più dei competenti? «Il Covid ha fornito un ottimo esempio del perché anche gli esperti hanno responsabilità nel loro ridotto status. Prima ci hanno detto che le mascherine non servivano, poi che erano indispensabili. Avrebbero dovuto dire, trattandoci da adulti, che servivano ma era meglio lasciarle ai medici e a chi ne aveva più bisogno. Hanno contaminato il loro discorso di considerazioni politiche e si sono fatti male da soli. Già la crisi del 2008 aveva screditato un gruppo ristretto di esperti, gli economisti. Questa volta è stato il turno dei virologi».

Eppure, tornando alla retorica, Trump ha vinto pur essendo uno degli oratori più rozzi ad aver varcato la soglia della Casa Bianca… «Non sono d’accordo. Trump ha una sua antiretorica, fatta di paratassi (Salvini è suo fratello in questo), che è a sua volta retorica. Nato ricchissimo, ha trovato un modo di convincere masse di dimenticati che era in grado di capirli e aiutarli. Non è impresa di poco conto. Senz’altro gli è servita l’esperienza televisiva del reality show The Apprentice. Lui interpreta quella versione di sé stesso e gli viene benissimo».

Ma la stessa volgarità funzionerà anche in tempi drammatici come quelli che stiamo vivendo? «Non vedo perché no. Una lingua rabbiosa si addice a momenti arrabbiati. Come fanno il rap e l’hip hop, molto più rivelatori dell’anima dell’America di quanto molti intellettuali siano disposti ad ammettere. E come dimostra il successo di Hamilton, il musical che è riuscito proprio col rap a restituire la sofisticazione e la ricchezza espressiva di un libro di ottocento pagine».

giovedì 26 novembre 2020

Cosedaleggere. 84 «Confondiamo la “libertà” con l’“indeterminatezza” della natura umana».

Tratto da “L’illusione della libertà” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 7 di novembre 2020: Un'idea utilissima alla convivenza, ma che non ha alcun fondamento. La libertà non esiste, esiste, però esiste l’idea di libertà. E le idee fanno più storia di quanto non ne facciano gli accadimenti. Qui capiamo cosa significa pensare: sottoporre a verifica le nostre idee che, per ragioni biografiche, culturali o di propaganda, sono così radicate da non tollerare alcuna critica, perché facilitano il giudizio, ci rassicurano, e perciò vengono scambiate per verità, quando non sono altro che abitudini mentali che non abbiamo mai messo in discussione, perché tranquillizzano le nostre coscienze che non amano l’inquietudine dell’interrogazione. Noi confondiamo la “libertà” con l’“indeterminatezza” della natura umana che, a differenza di quella animale, è sprovvista di istinti che sono risposte “rigide” agli stimoli. Privi di istinti, abbiamo pulsioni a meta indeterminata per cui, per esempio, di fronte a una pulsione sessuale possiamo dedicarci a tutte le perversioni, cosa che non sembra sia concessa agli animali, così come possiamo esprimerci nella scrittura, nella poesia o nell’arte, come ci insegna Freud quando parla di sublimazione. A compensazione della mancanza di istinti sono nati i riti nelle tribù primitive, i precetti e i comandamenti con le religioni, le leggi con le società civili per garantire un ordine sociale. Per far funzionare quest’ordine era necessario persuadere che l’uomo, a differenza dell’animale, gode della “libertà” da cui discende la “responsabilità” delle sue azioni e di conseguenza la sua “punibilità” nel caso di trasgressioni dei precetti, dei comandamenti o delle leggi. Il vantaggio sociale è innegabile, perché se tutti osserviamo le leggi e i trasgressori vengono puniti, siamo garantiti nella nostra sicurezza, per ottenere la quale, come ci ricorda Freud ne Il disagio della civiltà, «l’uomo ha barattato una parte una parte della sua possibilità di felicità (che consiste nella piena soddisfazione delle pulsioni) per un po’ di sicurezza». Percorso inevitabile per diventare civili. Anzi, Freud ne parla come di un «esperimento terapeutico che ha consentito di raggiungere ciò che finora non fu raggiunto attraverso nessun’altra opera di civiltà». L’equivoco consiste nel ritenere che le leggi limitino la libertà dell’uomo, mentre limitano l’indeterminatezza del suo agire pulsionale, che ne renderebbe imprevedibile il comportamento. Nocciolo della questione è che la “liberà” confligge con la nostra “identità”, che è alla base della fiducia sociale. Io mi fido di te perché conosco la tua identità che, se non sei come il dottor Jekill e mister Hyde (doppia personalità), mi consente di prevedere il tuo comportamento. Mi spiego con un esempio: un giorno Sartre finì in ospedale dopo avere fatto un’escursione in montagna senza una guida. Alla domanda del suo amico Merleau-Ponty che gli chiedeva se non potesse andare in montagna con una guida, Sartre rispose: «Secondo te, io sono uno che va in montagna con una guida?». La natura di Sartre, la sua identità sono tali da non consentirgli la libertà di andare in montagna con una guida. Sartre è fatto così, e la libertà di scegliere è puramente teorica. Tralascio i riferimenti alla genetica dove è iscritto il nostro modo di vivere, di ammalarci e di morire, per non parlare dell’ambiente in cui siamo nati e cresciuti, che non è meno vincolante della genetica.

mercoledì 25 novembre 2020

Ifattinprima. 98 Covid, Borse, ricchezze, disuguaglianze.


Delle “Borse” o della “Borsa”, ma prima ancora si parli dell’Italia, dell’Italia che possiede e dell’Italia che poco ha o nulla ha, tanto da inverare quanto ebbe a scrivere il cronista fiorentino Marchionne di Coppo Stefani al tempo della peste nell’anno 1348: “E tale che non avea nulla si trovò ricco”. Ha scritto oggi su “il Fatto Quotidiano” Alessandro Robecchi in “Ricchi da Covid: 34 miliardi in tasca a 40 italiani. È il virus, che bellezza!”: (…). Disse Mattarella il 2 Giugno: “C’è qualcosa che viene prima della politica e che segna il suo limite. Qualcosa che non è disponibile per nessuna maggioranza e per nessuna opposizione: l’unità morale, la condivisione di un unico destino, il sentirsi responsabili l’uno dell’altro”. (…). Passati quasi sei mesi, col Natale alle porte, il dibattito sull’apertura delle piste da sci che surclassa quello sulla riapertura delle scuole (che non vendono skipass, non fatturano in polenta e stanze d’albergo, quindi chissenefrega), sarebbe forse il momento di fare il punto sulla “condivisione dell’unico destino”. E così ci vengono in aiuto due ricerche, da cui grondano numeri e dati. Una è quella del Censis, che si può riassumere con pochi punti fissi: 7,6 milioni di famiglie il cui tenore di vita è seriamente peggiorato causa pandemia, 600 mila persone entrate in quel cono d’ombra che sta sotto la soglia di povertà, 9 milioni di persone che hanno dovuto chiedere aiuto (a famigliari e/o banche). L’altra ricerca viene da PwC e Ubs (le banche svizzere), e ci dice che i miliardari (in dollari) italiani erano 36 l’anno scorso, e che quest’anno sono 40, hurrà. La loro ricchezza complessiva ammontava nel 2019 a 125,6 miliardi di dollari e poi, in quattro mesi (dall’aprile al luglio 2020) è balzata a 165 miliardi di dollari, con un incremento del 31 per cento e oltre quaranta miliardi di dollari in più. In euro, al cambio attuale, fa 33,7 miliardi. E siccome i numeri sono beffardi e cinici, ecco che il totale fa più o meno quanto si è tagliato alla Sanità pubblica in dieci anni, che è poi la stessa cifra che arriverebbe indebitandosi con il Mes (circa 36 miliardi). Non serve sovrapporre le due ricerche per capire che i vasi comunicanti della distribuzione della ricchezza non comunicano per niente, (…). Vengono in mente, chissà perché, le continue metafore e similitudini con cui si paragona l’attuale crisi pandemica a una guerra: le trincee degli ospedali, gli eroi sul campo (medici e infermieri), i sacrifici della popolazione, l’incertezza su mosse e contromosse, la seconda terribile offensiva del nemico. E si dimentica volentieri, in questa continua, sbandierata analogia tra Covid e conflitto armato, che chi si arricchisce durante una guerra è più “pescecane” che “dinamico imprenditore”. Però – sorpresona! – di colpo, davanti alle cifre dell’impennata dei super ricchi italiani, la metafora del “Covid come la guerra”, solitamente molto gettonata, si scolora, si attenua, sparisce del tutto. Sarà una guerra, d’accordo, ma quelli che pagano sono i 600 mila scaraventati nella loro nuova condizione di molto-poveri, o oltre sette milioni di famiglie che stringono la cinghia e i denti. Pagano i tanti soldati, insomma, mentre i pochi generali festeggiano le loro rimpolpate ricchezze. Forse con i 34 miliardi piovuti in tasca ai 40 miliardari italiani si potrebbero attenuare problemi e sofferenze di qualche milione di persone. Come “condivisione di un unico destino” non sarebbe male, anzi, sarebbe un’ottima “unità morale” che, ovviamente, non vedremo. Tratto da “Un vaccino per la Borsa” di Federico Rampini, pubblicato sul settimanale “A&F” del quotidiano “la Repubblica” di ieri 23 di novembre 2020: Viviamo nel migliore dei mondi: questo è il messaggio controcorrente che ci arriva dai mercati azionari. Nell'anno della pandemia e della recessione, molte Borse sono ai massimi storici. In particolare quelle asiatiche - dove il covid ebbe inizio - e quelle americane, in una nazione che supera i 250.000 morti e dove la seconda ondata impone nuovi lockdown. Il valore complessivo di tutte le Borse del pianeta punta verso i 95.000 miliardi di dollari. Per avere un ordine di grandezza questo valore è superiore al Pil aggregato di tutte le nazioni che raggiunge gli 83.000 miliardi (è chiaro che le due grandezze non sono commensurabili: la capitalizzazione di Borsa misura il prezzo di uno stock di ricchezza in un preciso istante, i Pil misurano i flussi di reddito generati in un anno). L'Europa finora è rimasta tagliata fuori dall'euforia finanziaria. Che significato ha tutto questo?La spiegazione più facile riguarda il versante asiatico. Dove si è risvegliata perfino la Borsa di Tokyo, leggendaria per la sua interminabile depressione: quest'anno è risalita al punto tale da raggiungere il suo record trentennale. Il Giappone è uno dei nuovi "miracoli asiatici": rientra in quel gruppo di paesi - mai abbastanza studiati da noi occidentali - che hanno sconfitto in modo magistrale il coronavirus, senza ricorrere a lockdown, con interventi mirati, precisione chirurgica, efficacia massima nell'isolare i focolai sul nascere. Il Giappone è un maestro nel rinascere dopo le crisi, (…). Oggi partecipa a una ripresa economica che coinvolge Estremo Oriente e Sud-est asiatico, con al centro la locomotiva cinese. La Repubblica Popolare cinese chiuderà l'anno con una crescita del 2% del Pil. Vietnam e Taiwan la inseguono da vicino, e tutta quell'area oggi rappresenta la parte del mondo che è già fuori dalla crisi. Che i flussi dei capitali scommettano su quelle Borse è logico.La festa di Wall Street ha spiegazioni un po' meno intuitive. Qui il divario di percezione tra l'economia reale e i mercati finanziari è stridente. L'economia americana chiuderà l'anno con un Pil pesantemente negativo e un tasso di disoccupazione più che raddoppiato rispetto a febbraio.

martedì 24 novembre 2020

Cosedaleggere. 83 Bergoglio, l’Uomo: «Questi sono stati i miei principali "Covid" personali».

Ha scritto Enzo Bianchi – ex priore di Bose – in "Reagire all’indifferenza" ieri lunedì 23 di novembre 2020 sul quotidiano “la Repubblica”: Ricordare, rileggere quello che si è vissuto, discernere come lo si è vissuto e infine confrontarlo con il presente, è operazione importante per la nostra consapevolezza e sapienza umana. Lo stesso progetto del futuro dipende dallo sguardo penetrante sul passato e dall’analisi del presente.  

lunedì 23 novembre 2020

Cosedaleggere. 82 Marchionne di Coppo Stefani, cronista fiorentino (1348): “E tale che non avea nulla si trovò ricco”.

 

La “peste” e gli uomini. Tratto da “La peste nera e il mondo nuovo” dello storico Alessandro Barbero, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 19 di novembre 2020: La peste ha sempre colpito profondamente l’immaginazione umana. Alcuni fra i maggiori autori del canone occidentale, da Tucidide a Boccaccio, hanno rappresentato le epidemie del loro tempo in pagine memorabili; e anche quando la malattia è scomparsa dall’Occidente la sua formidabile potenza allegorica ha continuato ad alimentare l’immaginazione degli scrittori.

domenica 22 novembre 2020

Leggereperché. 49 Max Weber: «Mentre i nostri vecchi morivano sazi della vita, noi moriamo stanchi della vita»».

 

A lato. "Sosta sull'erba" (2020), acquarello di Anna Fiore.

Tratto da “Vivere meglio è il solo modo per accettare la fine” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 22 di novembre dell’anno 2014: Scrive Jean Baudrillard: «Parlare di morte fa ridere di un riso forzato e osceno. Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione. Solo la morte resta pornografica».

sabato 21 novembre 2020

Virusememorie. 48 «La pandemia è più forte dei numeri, che la inseguono vanamente senza prenderla».

 

“Echi dalla pandemia” 1. Tratto da “2020” di Giuseppe Genna, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” dell’8 di novembre 2020: I numeri non bastano più a spiegare o a ricordare. 2020 è il numero imperfetto, che segna un limite e implica una persistente assenza di sollievo, ovunque quest’anno lo si viva. Un numero della tensione, un marchio del dolore patito da un intero pianeta. Pare quasi un brand. Nel capolavoro di Foster Wallace, “Infinite jest”, gli anni non sono più connotati dai numeri, ma dalle sponsorizzazioni. La storia si svolge prevalentemente nell’“Anno del Pannolone per Adulti Depend”. Forse dovremmo chiamare il 2020 “Anno delle Doglie”. C’è una differenza rispetto ai grandi anni che finora abbiamo vissuto (il Muro nel 1989, le Torri nel 2001), perché non avevamo mai sperimentato un fatto planetario che tocca la pelle di ciascun vivente. Si potrebbe dire che è l’anno del virus, ma la pandemia è più forte dei numeri, che la inseguono vanamente senza prenderla. Tutto sembra trascinarsi con fatica nel corso di un anno in cui misuriamo non soltanto l’inverno del nostro scontento, poiché qualunque stagione è risultata a suo modo trista. Frammenti interi sembravano crollare di un colpo (crisi finanziarie, clima, guerre), ma col 2020 tocchiamo qualcosa in più: il crollo di una totalità. Che siamo noi. Nell’Apocalisse l’angelo giura che il tempo non esisterà più. È molto giusto, preciso, esatto. Il tempo sembra essersi sospeso nell’affanno con cui lo attraversiamo. Ma è l’infelicità la norma che determina come possiamo abitare questo anno così decisivo? Quando una madre partorisce, lo fa con dolore.

“Echi dalla pandemia” 2. Tratto da “Questa didattica distanzia l’uguaglianza” di Roberto Saviano, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 15 di novembre 2020: Uno dei nodi più discussi del dibattito attorno alla pandemia è se chiudere o meno le scuole. Durante la prima ondata pandemica le scuole italiane sono rimaste chiuse per 15 settimane. Certo, si è tentato di compensare con la didattica a distanza, lo si sta facendo anche ora, con insegnanti eroici che riescono a rimediare alle arretratezze del nostro sistema scolastico, ma come ha sottolineato anche Save The Children, la didattica a distanza ha un grande limite: accentua il divario tra famiglie benestanti e famiglie più povere, perché i bambini che vengono sostenuti in famiglia recupereranno le competenze perse, quelli che invece hanno alle spalle situazioni più fragili non solo resteranno indietro, ma rischiano di abbandonare il loro percorso scolastico, un fenomeno che in Italia riguarda già più del 13% dei ragazzi, soprattutto al Sud. Secondo l’Unicef, a causa del Covid oltre 24 milioni di studenti nel mondo rischiano di abbandonare la scuola. Siamo portati a pensare che la chiusura delle scuole sia una perdita solo per il singolo studente in termini di competenze, di relazioni, di educazione. Ma ci siamo mai chiesti quanto perdiamo tutti noi, come società, se le scuole sono chiuse? Ha risposto l’Ocse, in uno studio pubblicato a settembre, che ha quantificato gli effetti della chiusura delle scuole di questa primavera in una contrazione del Pil globale annuo dell’1,5% fino alla fine del secolo. In termini monetari, circa 14mila miliardi di dollari. Perché acquisire minori competenze oggi significa non solo minor guadagno per i singoli domani, ma anche una minore produttività per la comunità. Non stanno perdendo qualcosa solo gli studenti, stiamo perdendo tutti. E questo è solo dal punto di vista economico, senza considerare il costo psicologico e umano. Con ogni probabilità sono proprio queste valutazioni che hanno portato, nella stragrande maggioranza dei casi, a tenere le scuole aperte e funzionanti. L’importanza capitale della scuola a ogni latitudine e in ogni contesto, soprattutto nelle aree più povere e disagiate, mi ha fatto pensare alla storia di Francesca Cabrini. Francesca era una suora cresciuta tra le famiglie povere del lodigiano a metà dell’800. Era una maestra e iniziò a fondare scuole per ospitare le bambine senza genitori, che essendo rimaste da sole erano destinate alla strada. Lei raccoglie queste bambine e inserisce munizioni nei loro zaini: non sono proiettili, ma conoscenza, numeri, segni, parole… Quelle erano le armi che le avrebbero aiutate a difendersi. Perché Francesca sapeva che l’unico modo di ridisegnare il mondo è l’alfabeto. Nel 1889 viene mandata in missione negli Stati Uniti per portare assistenza agli immigrati italiani. Quando Francesca Cabrini arriva a New Orleans, trova a Little Palermo una comunità italiana per nulla integrata. Del resto, nessuno a Little Palermo parlava inglese, non sapevano farsi capire se non gesticolando, e questo faceva risultare stupido anche il più acuto dei pensieri. E infatti i giornali americani pubblicavano vignette in cui gli italiani erano ritratti con sembianze animalesche, a volte come oranghi altre come topi di fogna. Francesca capisce che la prima cosa da fare per cambiare questa situazione è costruire scuole per insegnare l’inglese agli italiani, così potranno difendersi nei tribunali, contrattare il prezzo di quello che comprano o vendono, far valere i loro diritti. Non solo, Francesca capisce che gli italiani avevano molta difficoltà a imparare l’inglese perché quella per loro rappresentava la lingua dell’umiliazione, del disprezzo subito, delle frustate nei campi. Chi è che familiarizza con una lingua che ti dà soltanto calci? Perciò, prima di ogni lezione, Francesca si mette a lavare e pettinare i bambini, in modo che capiscano che la nuova lingua che stanno per imparare arriva da persone che vogliono prendersi cura di loro. Ma a Little Palermo mancavano gli ospedali, non c’erano le strade, non c’erano fognature, quindi la gente chiedeva a Francesca Cabrini: «Ma perché non costruisci strade e fognature prima di costruire scuole?». E lei rispondeva: «Perché una strada, quando finiscono i soldi, nessuno la ripara, ma se tu formi una testa, quella poi ti può riparare molte strade».

venerdì 20 novembre 2020

Storiedallitalia. 89 «L'emergenza straccia un velo in cui spesso, per non vedere ciò che preferiamo ignorare, ci avvolgiamo».

 

Ha scritto Massimo Fini in “Se è una guerra, bisogna censurare i dati horror” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 18 di novembre 2020: (…). Gli idolatri della Costituzione non si sono accorti (…) che la Costituzione così come fu concepita e dettata dai nostri Padri fondatori non esiste più da tempo, sostituita da una “costituzione materiale” che si viene via via elaborando basandosi sui fatti nel loro incessante cambiare, fottendosene dei principi, così come scrive Giovanni Sartori sulla cui democraticità non è ammissibile avere dubbi (Democrazia e definizioni). Anche Norberto Bobbio che ha dedicato tutta la sua lunga vita allo studio della Democrazia, essendone un fervente partigiano, ammette che la Democrazia non è una democrazia, ma una poliarchia, cioè l’organizzazione di gruppi di potere di vario genere sui quali l’influenza dei cittadini è minima se non nulla. Un esempio di questa trasformazione della Costituzione propriamente detta in “costituzione materiale” e della Democrazia in poliarchia è dato dal potere assunto nel tempo dai partiti. Dei partiti si occupa un solo articolo della Costituzione, il 49, che così recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. È esperienza di tutti noi che i partiti partendo da questo unico articolo hanno debordato in quasi tutti gli altri 139, assumendo poteri fuorvianti in tutto il settore pubblico, ma anche in parte di quello privato. Senza l’appoggio di un partito, quale che sia, non si vive in Italia. Quello che era un diritto è diventato un obbligo. Non si tratta naturalmente di prendere una tessera, questo lo fanno solo gli sprovveduti, ma di dichiarare la propria fedeltà a un capo partito o a un sottocapo, così come in altri ambiti di quel potere “poliarchico” di cui parla Bobbio, a clan diversi, a lobby, a mafie di ogni genere, allo stesso modo in cui in epoca medievale il valvassore dichiarava la propria fedeltà al feudatario e costui al Re. (…). Su questa desolante ma purtroppo realistica rappresentazione dello stato delle cose per la nostra democrazia un contributo prezioso lo ha offerto, alla stessa data, Gustavo Zagrebelsky in un Suo intervento sul quotidiano “la Repubblica” che ha per titolo “La democrazia d’emergenza”. Mi sento di sostenere a lettura fatta che questa “democrazia d’emergenza” sia ben antecedente alla pandemia in corso, confortato in ciò proprio da un passaggio del prezioso scritto di Zagrebelsky laddove scrive che “la democrazia è (divenuta n.d.r.) il regime (…) del consenso a tempi brevi, tra un'elezione l'altra; o a tempi brevissimi, tra un sondaggio e un altro”. Uno snaturamento profondo e gravissimo dell’istituzione democratica che distorce, nei responsabili della cosa pubblica, qualsivoglia priorità e qualsivoglia visuale operativa o di scelta purché esse siano non già a vantaggio di tutta una comunità ma ad un presente che nell’immediato renda al massimo i suoi frutti elettorali. Ha scritto ancora Gustavo ZagrebelskY: Nelle fasi tranquille e ripetitive della vita le domande di fondo stanno, per l'appunto, nel fondo. "Emergenza" sta a dire che vengono a galla. Denudano le deboli o false idee che ci fanno riposare nei momenti tranquilli. I momenti difficili sono "archeologici", mostrano verità prime. L'arché è ciò che sta in principio e ha la sua verità che dura nel tempo, anche quando l'abitudine, il conformismo e la pigrizia impediscono di vederla. L'emergenza straccia un velo in cui spesso, per non vedere ciò che preferiamo ignorare, ci avvolgiamo. Questa premessa è forse un po' troppo ampollosa, volendo parlare di queste due questioni politiche: il bene e il male del regionalismo, la capacità e l'incapacità di prevenzione. Questioni diverse che confluiscono, però, in domande sulla democrazia. (…). L'emergenza-virus ha svelato l'illusione e la realtà. Si incomincia a pronunciare quella che, fino a non molto tempo fa, sarebbe stata una bestemmia, che non mancherebbe di argomenti: altro che buon governo delle Regioni; aboliamole piuttosto! Tuttavia, invece che inseguire questa utopia, la lezione da trarre dalle emergenze è che, al di là della buona o cattiva volontà di questo o quel "governatore", ma per ragioni strutturali di consenso, è che esse sono "divisive", paralizzanti. Nelle emergenze sanitarie, ecologiche o finanziarie, le misure necessarie sono necessariamente restrittive: limitano diritti e impongono doveri. Sono dolorose e impopolari. L'impopolarità, che si misura nelle elezioni e nei sondaggi, è l'incubo non solo per il populismo d'ogni genere ma anche per le democrazie che, più d'ogni altro regime, hanno bisogno di consenso. Quando i governanti sono deboli e non sanno suscitare le passioni civili positive che sono tanto necessarie nella cattiva sorte, ecco manifestarsi la fuga dalle responsabilità: spetta a te, non a me. Normalmente, nella dialettica tra potere centrale e poteri decentrati, avviene il contrario: spetta a me, non a te. Ma solo se si tratta di distribuire benefici, non quando si tratta di imporre sacrifici. La prevenzione. Le catastrofi non sono affatto un privilegio del nostro tempo. Collasso s'intitola un gran libro di Jarret Diamond che trova testimonianze numerose nello spazio e nelle epoche storiche; Chiara Frugoni ci apre gli occhi (letteralmente, attraverso un'iconografia meravigliosa e terrificante) sulle Paure medievali - Epidemie, prodigi, fine del tempo - . Questo per dire che non c'è nulla di nuovo sotto il sole? Non del tutto. Noi viviamo in un tempo in cui possiamo essere preveggenti (perfino di terremoti e disastri idro-geologici) e potremmo immaginare e preparare difese e rimedi. "Potremmo" ma quasi mai ci riusciamo.

giovedì 19 novembre 2020

Leggereperché. 48 «L'individualismo oggi trova espressione soprattutto nella borghesia laica».

 

Tratto da “Che rivoluzione, se ricominciamo a dire noi” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 19 di novembre dell’anno 2016: Dagli eccessi dell'individualismo rinasce il bisogno di relazioni, e tutti i luoghi dove esprimerlo sono preziosi. Sono solo piccoli segnali. Ma se si fanno sempre più numerosi, come lasciano intendere le lettere che ricevo, allora possiamo dire che, dopo tanto esasperato individualismo, sta rinascendo un bisogno di relazioni e quindi di comunità. La storia umana, in tutte le sue forme anche le più primitive, non ha mai preso le mosse dall'individuo, ma sempre dal gruppo di appartenenza. Pierre Clastres, antropologo francese che ha studiato da vicino le società amazzoniche, racconta in La società contro lo Stato (Feltrinelli) che chi, per qualche grave colpa commessa, veniva espulso dalla comunità tribale, nel giro di 48 ore moriva, non per qualche accidente, ma per un dissesto mentale dovuto alla perdita della sua identità, che aveva le radici nel gruppo. Anche gli antichi Greci anteponevano la comunità all'individuo. Aristotele, per esempio, scrive: «La comunità esiste per natura ed è anteriore a ciascun individuo che, da solo, non è autosufficiente. Pertanto chi non è in grado di entrare nella comunità, o per la sua autosufficienza non ne sente il bisogno, non è parte della comunità e di conseguenza: o è bestia, o è dio» (Politica,1253a).

mercoledì 18 novembre 2020

Memoriae. 22 «I miei finirono a Auschwitz-Birkenau e sono andati in fumo nell’atmosfera».

 

Tra letteratura e Storia. Tra verità ed invenzioni. Ho tratto un brano dallo stupendo volume “La pelle” (1949) di Curzio Malaparte. Ove si narra come di un risveglio all’indomani di una delle più tragiche date che si ricordino nel bel paese, quell’otto di settembre dell’anno 1943 che ha segnato la sconfitta non tanto di un paese, di un popolo, quanto di un modo distorto assai d’intendere i rapporti umani, le cose della democrazia, che abbisognano sempre non tanto di un non discusso consenso – anche quando sia suffragato dalle urne - quanto di una libera fattiva partecipazione di tutti alla costruzione del collettivo benessere. Ed al giovane “liberatore” del brano, che sbarca sulle italiche coste proveniente dall’altra parte dell’Atlantico mare, sorge spontanea ed immediata l’emozione per un luogo che custodisce memorie straordinarie di grandi gesta, gesta compiute sul proscenio di una Storia da non dimenticare, di contro ad una storia minima di quel tempo scritta da uomini piccoli piccoli ma esageratamente gonfi di un io ipertrofico, prorompente assai. Come dire, che la Storia ha un ricorrente bisogno di riproporre tragedie che immancabilmente si accompagnano a grottesche esibizioni. Ebbe a scrivere Curzio Malaparte, una volta riportato dalla Sua attività di corrispondente di guerra alla brutale realtà di un’Europa trasfigurata non tanto dalle distruzioni materiali della guerra quanto dall’abbrutimento degli spiriti degli uomini di quel tempo: «Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle. Tutto il resto non conta». E così è, e sarà sempre, ogni qual volta gli spiriti piccoli piccoli di uomini piccoli piccoli abbiano a decidere e a guidare le sorti delle genti. Nel racconto di Curzio Malaparte: Quando, all’alba del 9 settembre del 1943, Jack era saltato dalla tolda di un LST sula riva di Pesto, presso Salerno, s’era visto sorgere davanti agli occhi, meravigliosa apparizione, nella rossa nube di polvere sollevata dai cingoli dei carri armati, dagli scoppi delle granate tedesche, dal tumulto degli uomini e delle macchine accorrenti dal mare, le colonne del tempio di Nettuno, sul labbro di una pianura folta di mirti e di cipressi, sullo sfondo dei nudi monti del Cilento simili ai monti del Lazio. Ah, quella era l’Italia, l’Italia di Virgilio, l’Italia di Enea! E aveva pianto di religiosa commozione, buttandosi in ginocchio sulla riva sabbiosa, come Enea quando sbarcò dalla trireme troiana sul lido arenoso alla foce del Tevere, davanti ai monti del Lazio sparsi di castelli e di templi bianchi nel verde profondo delle antiche selve latine. Ma il classico scenario delle colonne doriche dei templi di Pesto nascondeva ai suoi occhi un’Italia segreta, misteriosa: nascondeva Napoli, quella prima terribile e meravigliosa immagine di un’Europa ignota, posta la di fuori della regione cartesiana, di quell’altra Europa di cui egli non aveva avuto, fino a quel giorno, se non un vago sospetto, e i cui misteri, i cui segreti, ora che li veniva a poco a poco penetrando, meravigliosamente lo atterrivano. (…).

martedì 17 novembre 2020

Leggereperché. 47 «Junichiro Kawasaki: "Mi sento un sasso lanciato in un lago. Intorno a me, il passato e futuro appaiono cerchi sempre più larghi, ma affondo"».

 

A lato. "Luna crescente" (2020), acquarello di Anna Fiore.

Tratto da “Visti da lontano” di Giacomo Papi, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 17 di novembre dell’anno 2012:

lunedì 16 novembre 2020

Ifattinprima. 97 «Se nelle urne il popolo sconfigge il populismo, si nega il fatto, come se non fosse mai accaduto».

Tratto da “Trump e la realtà deformata” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi 16 di novembre 2020: (…). …quella che si gioca oggi a Washington non è soltanto una partita americana, e noi non siamo semplici spettatori.

domenica 15 novembre 2020

Cosedaleggere. 81 «Siamo responsabili non solo di quello che avverrà, ma anche di quello che è già avvenuto».

 

Tratto da “Ogni essere umano è un libro” di Massimo Recalcati – psicoterapeuta di “scuola lacaniana” -, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi domenica 15 di novembre 2020: Non è troppo forzato rappresentare la vita umana come se fosse un libro, una superficie stratificata sulla quale si sono scritte tutte le tracce che le hanno dato forma? Non siamo forse tutti delle pagine stampate? La nostra storia è come un libro scritto alle nostre spalle? Di cosa siamo fatti se non dei fantasmi del nostro passato, dei suoni, dei profumi, dei ricordi, degli incontri, delle sensazioni, delle emozioni, delle parole che hanno scritto la nostra vita? Siamo scritti da tutto quello che ci è accaduto ed è accaduto attorno a noi. Non siamo gli autori del libro che siamo, ma siamo il libro, non siamo il poeta ma il poema, direbbe Lacan. Certamente, alcune di queste tracce si sono rivelate più tenaci e resistenti di altre. Alcune di queste tracce non si lasciano dimenticare. Alcune pagine del libro che siamo non si possono non rileggere. Risultano indimenticabili; nella luce e nelle tenebre. Pagine di gioia immensa e pagine di angoscia profonda. Sono le pagine che hanno tracciato con più forza la nostra vita dandole forma. Il libro che siamo non sarebbe quello che è se non fosse stato tagliato dalle nostre esperienze più traumatiche. Nessun libro inizia dal nulla. Ogni libro è già scritto invisibilmente prima ancora di essere scritto. La memoria può essere inesorabile. È quello che Jung definiva il “potere di ieri”. Non siamo gli autori della nostra storia ma solo gli attori di un copione scritto da altri? I libri che amiamo di più non sono forse quelli nei quali possiamo ritrovare la nostra parte, il personaggio che siamo stati nel copione dettato dall’Altro? Al tempo stesso voltando le pagine dei libri che leggiamo cerchiamo anche quello che non abbiamo mai visto, né saputo, cerchiamo, voltando la pagina, l’incontro con l’ignoto. È la doppia direzione che segue la pratica della lettura: per un verso cerchiamo nel libro la nostra stampata originaria — il nostro copione, il poema che siamo — e, per un altro verso, ricerchiamo la pagina inedita che non siamo mai stati. In altre parole, per voltare la pagina di un libro bisogna riconoscersi in quello che leggiamo e, al tempo stesso, perderci in quello che leggiamo. Il trauma è ciò che ci impedisce di voltare la pagina perché impone la lettura di un’unica pagina, perché riduce la bellezza del libro a una sola pagina. (…). Ogni volta che la vita subisce una ferita non tende a passare oltre, a voltare pagina, a dimenticare la ferita, ma piuttosto a ripetere la ferita. Non nonostante sia una ferita, ma proprio perché è stata una ferita. Siamo davvero fatti per cambiare, per voltare pagina? Non esiste forse un’attitudine dell’uomo a ripetere sempre lo Stesso, una resistenza a voltare pagina? Perché ogni volta che si volta pagina qualcosa muore. Voltare pagina significa morire? Oppure dimenticare? Cancellare il nostro passato? La lettura non è forse una pratica della memoria? In qualunque attività umana la creatività non sorge mai dal nulla, ma eredita una storia, un passato. Si può voltare pagina solo se si sono lette le pagine che hanno preceduto il nostro gesto di procedere in avanti, di continuare la lettura del libro. Il passato non ha un significato dato per sempre; il significato del passato dipende da chi lo legge ora, adesso, nel tempo presente. Noi siamo responsabili non solo di quello che avverrà, ma anche di quello che è già avvenuto. Possiamo, per esempio, negare l’esistenza dell’Olocausto o assumerne tutto l’orrore. La nostra scelta significa il passato in modo profondamente diverso.

sabato 14 novembre 2020

Cosedaleggere. 80 «Il peccato originale dell'uomo non è la conoscenza, è la dimenticanza».

 

Tratto da “Il mondo salvato dagli animali” di Michele Serra pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” dell’11 di novembre 2020: I capelli, le foglie, le piume degli uccelli sono un'unica cosa... la natura è un unico sistema fatto di infinite e meticolose connessioni, e il mondo ha un'unica anima fatta di tutto ciò di cui noi, come dice il nostro nome, animali, siamo specchio". È questa l'anima mundi sulla quale in molti (non tutti) abbiamo riflettuto sotto pandemia, e dentro clausura. È il nostro essere intrinseci alla natura - siamo una specie tra altre specie, lo siamo oggettivamente - e poi il nostro averlo dimenticato, rischiando di perderci e di dannarci. In mezzo alla retorica (tanta) e allo spavento (tanto) questa traccia è quanto di solido, di potente e di virtuoso l'anno del Covid può lasciarci in eredità: a patto di saperlo capire e soprattutto di saperlo dire. (…). …il peccato originale dell'uomo non è la conoscenza, è la dimenticanza. È avere dimenticato di essere natura, non altro, e di dipendere da quelle "meticolose connessioni", da quella "unica anima", che è il motore della vita e della morte. (…). All'aquila, al leone, alla balena, ai sovrani selvatici che sono i leader dell'assemblea degli animali, il compito di dare un avvertimento agli uomini sovvertitori dell'ordine naturale. Il virus, come tutti i suoi predecessori pestilenziali, sarà il regolatore della nostra specie. Poi arrivano la morte e il dolore, che accomunano bestie e umani. E al cane e al gatto, in "religiosa" simbiosi con la bestia uomo, (…) il compito di soccorrerci, fino a che una nuova fusione, e immaginifiche metamorfosi, daranno vita a una nuova assemblea dei viventi. Per un finale che non va svelato, ma si fonda, comunque, sulla comunione delle specie viventi. (…). …"già sapevamo", volendo, quello che bisognava sapere. Che a questo serve la cultura (altra grande tradita dalla specie umana, insieme alla natura...). Che tutto era scritto, che i miti, i poemi, la tradizione sacra e quella profana grondano di una sola interminabile preghiera, quella che l'uomo rivolge al cielo stellato, al mare in tempesta, alla magnificenza della natura, alla potenza simbolica delle bestie senza le quali noi saremmo analfabeti, ovvero sprovvisti dei segni che servono a leggere l'universo.

venerdì 13 novembre 2020

Ifattinprima. 96 «Il populismo, promettendo l’impossibile, pratica una cultura irresponsabile che annuncia soltanto soddisfazioni».

 

Appena quattro anni addietro, prima che la “piaga Trump” cominciasse a dispiegare la sua perniciosa azione, Ezio Mauro scriveva in “Cosa insegna all’Europa la vittoria di Trump”, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 13 di novembre dell’anno 2016: (…). …oggi che Trump ha trionfato, quella forza si fa governo, si trasforma in istituzione, dà interpretazione e forma alla democrazia statunitense: diventa America. Dopo lo shock politico (immediato come lo spaesamento di un sistema che con tutte le sue antenne e i suoi meccanismi interpretativi non aveva saputo prevedere nulla) arriverà il momento del vero shock profondo e duraturo: quello culturale. Insieme con l’uomo che entra alla Casa Bianca senza aver mai avuto un incarico politico e militare - prima volta nella storia del Paese - va infatti al comando della più grande democrazia del nostro mondo una cultura del tutto nuova, che umilia la sinistra democratica, mette fuori gioco la tradizione repubblicana e annuncia una mutazione rispetto alla stessa forma istituzionale del potere americano a cui eravamo abituati da decenni. Alla base di tutto torna a esserci l’individuo, dopo le classi, le categorie, le generazioni, la società. Ben 189 anni prima dell’oggi un tale a nome Alexis de Tocqueville, in un Suo viaggio in quelle sconfinate terre, individuava ben tre “piaghe” nella vita di quella nascente potenza mondiale. La prima “piaga” la individuava nella “alienazione” del lavoro per la qual cosa scriveva: “Quando un operaio si dedica continuamente e unicamente alla fabbricazione di un solo oggetto, finisce per svolgere questo lavoro con singolare destrezza; ma perde al tempo stesso la facoltà generale di applicare il suo spirito alla direzione del lavoro. Egli diviene ogni giorno più abile e meno industrioso e si può dire che in lui l’uomo si degradi via via che l’operaio si perfeziona. Cosa ci si potrà attendere da un uomo che ha impiegato vent’anni della sua vita a fare capocchie di spillo?”. E la seconda “piaga” quel saggio la individuava nell’orribile spettacolo di quel tempo, ovvero le “diseguaglianze” sociali. Scriveva: “Mentre l’operaio è costretto sempre più a limitarsi allo studio di un solo particolare, il padrone allarga ogni giorno il suo sguardo su di un complesso più vasto; il suo spirito si estende mentre quello dell’altro si restringe. L’uno assomiglia sempre più all’amministratore di un vasto impero, l’altro a un bruto”. La terza “piaga” ravvisata a quel tempo da Alexis de Tocqueville anticipava già a quel tempo la devastante “piaga” dei nostri tempi, ovvero di un “consumismo” sfrenato ed immorale. Profeticamente scriveva: “Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di uomini eguali, che volteggiano su sé stessi per procurarsi piaceri piccoli e meschini di cui si pasce la loro anima. Ognuno di essi, tenendosi in disparte, è come estraneo a tutti gli altri. Al di sopra di questa folla vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare alle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma al contrario, non cerca che di tenerli in un’infanzia perpetua”. Ecco, la “piaga Trump” sembra essere giunta al suo capolinea; cosa ne deriverà? Cosa cambierà nel concreto nelle vite degli umani? Scriveva ancora, quel 13 di novembre dell’anno 2016, nel Suo editoriale Ezio Mauro: In un thatcherismo tutto prassi e niente teoria l’individuo diventa il referente assoluto, il soggetto nelle cui mani è affidato il futuro, insieme protagonista e referente dell’avventura di questa presidenza. «Every single American», ogni singolo americano - ha detto Trump subito dopo l’elezione - avrà l’opportunità di realizzare fino in fondo il suo potenziale. Non un progetto comune, com’eravamo abituati nella retorica democratica e repubblicana, non un impegno collettivo: ma la garanzia che il presidente si occuperà di te, personalmente di te, che per troppi anni sei stato nell’ombra, dimenticato e trascurato, messo da parte, politicamente abbandonato. Sono i «forgotten men and women» a cui Trump nel suo primo discorso ha restituito l’onore della visibilità politica e sociale, della soggettività politica che avevano perduto. Immediatamente dopo il saldo elettorale, avviene dunque il “pagamento” immateriale del debito aperto durante la campagna, come in ogni contratto che si rispetti, soprattutto in un Paese di etica protestante.