"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 27 aprile 2023

Piccolegrandistorie. 45 Luis Sepùlveda: «Mio nonno diceva che uno è di dove si sente meglio».


StoriadiTinaOlgaInes”. “C’erano una volta…” di Concita De Gregorio pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 22 di aprile 2023:

C’erano tre zie zitelle, si diceva così senza offesa per nessuno, nel secolo scorso.  C'erano tre zie zitelle nella nostra famiglia e vivevano insieme, anziane. Tina, Olga e Ines. Sono morte tutte, non hanno lasciato eredi perciò penso di poter raccontare questa storia con tranquillità così come la ricordo e come sempre - credo - si dovrebbe poter fare senza questo perpetuo timore di violare qualche codice di correttezza presunta. C'erano tre zie zitelle che abitavano insieme in un semioscuro appartamento di una piccola cittadina del Piemonte. Io amavo stare da loro. La casa odorava di cera, c'era un pianoforte con un copritasti di velluto coi ricami, Olga in gioventù lo suonava ma poi aveva avuto una terribile delusione d'amore, una tragedia proprio: lui era sparito da un giorno a un altro e lei non si era più ripresa, mormoravano in famiglia, poveretta. Aveva perciò smesso anche di suonare. Olga era molto bella e molto triste, lavorava in un cinema, ogni tanto mi portava con sé nel gabbiotto dove staccava i biglietti. Gli uomini le dicevano delle cose ma lei non rispondeva mai, scuoteva la testa e mi guardava come a dire: che stupidi. Le sorelle la trattavano da malata, le portavano una camomilla in un vassoio da uno, ogni tanto la sera, però con una specie di irritazione, di impazienza. La compiangevano con invidia per la sua bellezza e per l'amore che c'era stato, per quanto disamato. Tina era altissima e sgraziata, rompeva ogni cosa al suo passaggio, aveva braccia lunghissime che non governava. Teneva le sue cose in frigo separate dalle altre e nessuno poteva toccare il suo cibo, dedicato. Era coperto dalla stagnola. Portava i capelli tirati in uno chìgnon, Ines era mite, silenziosa, rotonda. Mi pare bionda. Mio padre raccontava che fosse la preferita della bisnonna. «Guarda come appoggia i gomiti», raccontava che dicesse di lei elogiando l'eleganza con cui occupava lo spazio. Questo fatto dei gomiti ci faceva ridere. Provavamo, noi bambini, a poggiarli come Ines. Tina, Olga e Ines tra di loro parlavano pochissimo e avevano un loro lessico di insofferenze, cortesie. Con me avevano la premura che si usa con gli animali domestici. Mi lasciavano del cibo (in un piatto coperto da un altro piatto), mi portavano a prendere aria, mi guardavano fare i compiti. Poi ci siamo trasferiti in un'altra città. Tina, Olga e Ines mandavano delle cartoline per le ricorrenze, i compleanni i Natali e le Pasque, sempre con una vista anonima di quella cittadina, sempre con le loro firme in ordine: la sequenza che forse era anche l'ordine di età. Non ci sentivamo al telefono. Per qualche ragione alle zie si poteva solo scrivere, e allora anche noi mettevamo le nostre firme di bambini e poi di ragazzi, in ordine di età. Quando sono andata via da casa non le ho pensate più. Un giorno mi ha chiamata mia madre e mi ha detto è morta Olga. Era l'ultima. Mi ha detto ti ha lasciato un coniglio. Quello che era sopra il piano. Ha scritto che è per te, che ti piaceva tanto. Sono passati quarant'anni e non si è mai rotto, quel coniglio. È qui con me, bianco e rosa, ancora. Chissà cosa pensa.

StoriadiCarlitos”. Di seguito, l’inedito - “Patria è dove ci si sente meglio” - di Luis Sepùlveda pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 23 di aprile ultimo: Noi cileni amiamo i diminutivi, forse perché viviamo in un Paese troppo grande, siamo pochi e il calore dei diminutivi ci fa sentire meno soli. Ogni Carlos lo chiamiamo Carlitos, e voglio parlare proprio di un Carlitos che torna in Cile dopo vent’anni di assenza. Carlitos lasciò il Paese quando aveva appena otto anni e a dire il vero non voleva andarsene, non voleva salire sull’aereo, non voleva nemmeno essere gentile con il signore dell’ACNUR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che accompagnava lui e sua madre proteggendoli dagli sguardi d’odio della soldataglia, lanciati soprattutto alla madre, che era sopravvissuta a un centro di tortura clandestino chiamato Villa Grimaldi. Carlitos stringeva una piccola valigia. I suoi averi non erano molti: qualche cambio di vestiti, un maglione fatto ai ferri dalla nonna, un libro sui dinosauri e un pupazzo di plastica del capitano Han Solo, l’eroe più simpatico e coraggioso di Guerre stellari. Prima di salire sull’aereo, un ufficiale dei servizi segreti militari gli consegnò il suo primo passaporto. Sul frontespizio c’era una misteriosa «L» e una scritta: «Documento valido per l’ingresso in ogni Paese, tranne per il rientro in Cile». Così Carlitos, a sette anni, si unì alla confraternita universale degli esiliati. Era un soggetto pericoloso per la dittatura di Pinochet? Forse. Il prete che dirigeva la scuola salesiana dove studiava sosteneva di non avergli mai sentito pronunciare discorsi sovversivi, ma le sue ripetute assenze alle lezioni di religione lo rendevano sospetto. Inoltre Carlitos aveva dato prova di coraggio davanti ai militari: quando nel 1973 gli avevano arrestato il padre, aveva tranquillizzato la madre giurandole che papà ne sarebbe uscito vivo, perché poteva contare sulla protezione di Sandokan. Tre anni dopo, quando avevano arrestato e fatto sparire sua madre, non aveva pianto davanti ai soldati, ma li aveva affrontati avvertendoli che su di loro si sarebbe abbattuta tutta la forza della Federazione Galattica. Carlitos si chiama Carlos Sepúlveda. È il maggiore dei miei figli. L’ultima volta che l’ho visto in Cile aveva cinque anni. Quando l’ho rivisto a Stoccolma, in una gelida giornata di gennaio, ne compiva otto. Fra pochi giorni ci rivedremo in Cile e festeggeremo i suoi ventotto anni. Un paio di settimane fa ho parlato di lui, della sua vita e del suo ritorno, a Jerome Charyn. Quel grandissimo scrittore ha ascoltato in silenzio e poi ha mormorato: «Carlitos comes back». La sua vita, come quella di tutti i bambini in esilio, non è stata facile, ma in lui c’è sempre stato qualcosa che l’ha protetto dalla disperazione e dalla frustrazione che ha ucciso tanti compagni, fisicamente o spiritualmente, o in entrambi i modi, a prescindere dall’età. In esilio, nel corso degli anni, ha saputo della morte dei nonni, ha sofferto la perdita del suo Paese affettivo, ma allo stesso tempo ha accolto con grandissime dimostrazioni d’amore l’arrivo di tre fratelli. Ci vedevamo ogni volta che era possibile: io andavo in Svezia o lui veniva in Germania. A un certo punto, fra una visita e l’altra, ho perso il bambino e ho trovato l’adolescente. Il capitano Han Solo è stato rimpiazzato da un gruppo di ragazzi svedesi con cui ha formato una rock band, e alla fine di un concerto, quando ho visto che veniva applaudito da decine di ragazze, ho trovato il coraggio di parlargli di certe cose che consideravo importanti. «È arrivata l’ora di dirti qualcosa di intelligente» l’ho avvisato. «Okay, vecchio saggio. Rivelami qualche verità universale», ha ribattuto. «Mio nonno diceva che uno è di dove si sente meglio». «Bellissimo. È vero. Io sono di qui» ha risposto, e stringendo la sua chitarra Fender Stratocaster è salito di nuovo sul palco tra le grida felici delle ragazze che lo applaudivano. Ho sempre sospettato e oggi sono sicuro che Carlitos ha fatto della musica il posto dove si sente meglio. La musica è stata ed è la sua patria. E persino la sua famiglia, perché quel gruppo di ragazzi svedesi è rimasto: prima si chiamavano Base, ora si chiamano Psycore e sono uno dei gruppi hard rock più famosi in Scandinavia, Inghilterra e Germania. «Uno è di dove si sente meglio» mi ha ripetuto otto anni fa presentandomi una bellissima ragazza svedese, e poi ha aggiunto: «Si chiama Linda e sarà la mia compagna per tutta la vita». È vero, lo è stata e lo sarà sempre. Nell’aprile del 1999 si sono sposati e abbiamo fatto una grande festa, a cui hanno partecipato tutti i suoi fratelli tedeschi, il fratello svedese, la sorella ecuadoriana e centinaia di amici. Fra gli invitati c’era anche mia madre, l’unica nonna che gli era rimasta. E lei gli ha restituito un pezzo di Cile: una tazza d’argento in cui il nonno di Carlitos, mio padre, aveva l’abitudine di servirle la colazione. Allora, per la prima volta, l’ho visto piangere, stringendo la tazza e ripetendo la parola Cile con tutto il dolore della perdita, con tutta la furia amorosa degli anni di esilio. Io e i miei figli ci intendiamo con poche parole. Era arrivato il momento di tornare, di fare i conti con la vita, e ho capito che voleva avermi al suo fianco. Fra pochi giorni saremo a Santiago. Carlitos non porterà con sé il capitano Han Solo. Nella mano stringerà la mano di Linda, la sua compagna, la mia amatissima nuora svedese, e dopo aver visitato le tombe dei nostri morti berremo un bicchiere di vino cileno, un vino allegro, sano e fraterno che lo aspetta da vent’anni e che lui si merita, perché, come suo nonno e il suo bisnonno, Carlitos appartiene alla stirpe degli uomini che amano la vita, e questo amore ci ripete che vinceremo.

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