“StoriediDonne”. 2 “Basta con questa storia” di Elena Stancanelli pubblicata sullo stesso settimanale: «Un bravissimo medico non è stato in grado di leggere da un'ecografia che mia figlia sarebbe nata con una grave malformazione cerebrale. Oggi la mia bimba, poco più che due anni, è persona pluridisabile, invalida al cento per cento... Anche se mi ha stravolto la vita, io adoro la mia meravigliosa figlia imperfetta, ma se avessi potuto scegliere, quel giorno, avrei scelto l'aborto terapeutico. Ai medici che vogliono rianimare i feti anche senza il consenso delle madri, dico di uscire dai reparti di terapia intensiva, andare a vedere con i loro occhi cosa sono diventati quei bambini, a quale eterno presente hanno condannato quelle madri». Alcuni anni fa Ada d'Adamo scriveva questa lettera a Corrado Augias, che al tempo rispondeva ai lettori sulle pagine di Repubblica. Adesso un po' di cose sono cambiate. Daria, la figlia, ha diciotto anni, Ada ha scritto un libro meraviglioso che racconta la loro storia e si intitola Come d'aria. Il libro è stato pubblicato dalla casa editrice Elliot ed è entrato nella dozzina del Premio Strega. Ada, qualche giorno fa, è morta. Uccisa dal cancro che l'aveva colpita alcuni anni fa, che era andato e tornato nel suo corpo di ballerina, sempre più magro, sempre più stanco. Daria adesso vivrà da sola col suo babbo, che si chiama Alfredo. Non parlerà mai, non camminerà, vedrà, come ha sempre fatto, qualche ombra. Ma continuerà a sorridere, con quel sorriso bellissimo che ha ereditato dalla madre. Vivrà fin quando la sua malattia glielo consentirà e il suo babbo avrà cura di lei, col pochissimo aiuto che il nostro Stato gli dà e gli infiniti ostacoli che gli oppone. È una storia straziante che Ada d'Adamo, è riuscita a raccontare come solo un grande scrittore sa fare. Mettendoci dentro tutto, la rabbia, l'amore, la pazienza e l'impazienza. Tutto quanto tenuto insieme da una scrittura perfetta. Leggetelo. Ma non è del libro che voglio parlare qui. Ma di quella lettera straziante che all'epoca le procurò il biasimo dei benpensanti, di quelli che giudicano dal divano del loro soggiorno, dei moralisti per gli altri, dei cattolici solo quando fa loro comodo. Lo voglio dire con forza, lo voglio gridare adesso che Ada non c'è più e non può dispiacersi del mio gridare, lei che non ha mai gridato una sola volta in tutta la sua vita, e ne avrebbe avuto motivo. L'aborto non è un omicidio. Basta con questa storia, basta trattare le donne come se fossero delle assassine, come delle puttane che dovevano pensarci prima. Basta con questa idea che la vita debba essere a tutti i costi. Ci sono persone che ce la fanno a crescere figli che non parlano, non camminano, non vedono, figli che soffrono, che non hanno autonomia e non l'avranno mai. Persone che pur sapendo che questo sarà il destino di loro figlio scelgono di portare avanti la gravidanza. E persone che, potendo scegliere, decidono di non farlo. E non sono persone peggiori. Ci sono donne che scelgono di non avere figli per ragioni che non vogliono spiegare, e se rimaste incinte abortiscono. Alcune di queste donne soffrono di questa scelta, altre no. Nessuno può permettersi di giudicarle. Dovremmo tutti quanti smettere di giudicare i comportamenti degli altri sulla base delle nostre convinzioni. Pensate che cosa accadrebbe se, per esempio, dovessimo applicare alla lettera un principio come "gli esseri viventi sono tutti uguali tra loro". Che detto così non sembra neanche tanto strano. Cosa dovremmo fare: condannare per omicidio chiunque mangi carne? Principi che a noi sembrano inoppugnabili, si infrangono, spesso, con la realtà. Si infrangono contro quell'eterno presente di cui parla Ada d'Adamo, a cui le madri di figli gravemente disabili vengono condannate, per esempio. Basta condanne, basta vergogna. Impariamo a convivere gli uni con gli altri, tutti diversi, ognuno con le sue convinzioni. Impariamola finalmente questa democrazia, perché ogni alternativa, lo sappiamo, è peggiore.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
giovedì 20 aprile 2023
Piccolegrandistorie. 44 Concita De Gregorio: «Non c'è niente come un abbraccio, niente».
“StoriediDonne”. 1“Che cosa sei diventato?” di Concita De
Gregorio pubblicata sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del
15 di aprile 2023: (…). …cosa c'è di più importante? Il sole, gli amici. E invece no,
invece una persona a cui volevo bene è morta l'altra notte, aveva qualcosa più
di cinquant'anni e le avevo scritto il giorno prima: che dici, usciamo? Andiamo
a bere in quel baretto? Ma non ha risposto, certo che non ha risposto. Non mi
offendo mai quando le persone non rispondono, anche io spesso non rispondo: a
volte non si può, altre non si vuole, altre ancora si è in una stanza d'ospedale
a far finta che tutto quel dolore passerà, sia già passato. Quello attorno,
intendo. Quello delle persone che aspettano e si curano ma sanno. Quindi non mi
preoccupo, quando qualcuno non risponde, né dico la volta dopo: ti ho chiamato
ma non hai risposto, come fanno tanti con risentimento postumo. Però poi
succede che una persona non risponde e il giorno dopo non c'è più, non è nel
mondo. E allora pensi forse dovevo andare, non solo scrivere o chiamare ma
andare, e non ti dai pace di non averlo fatto perché lo sapevi, sapevi tutto di
quanto fosse precario il suo tempo, ma hai fatto finta di no. Hai finto (anche
per lei, molto per te) che non fossero cosa grave, la precarietà e il silenzio.
Dovevi andare per te. Anche per l'altra, ma soprattutto per te stessa: per
essere stata lì al momento giusto, avere vissuto a tempo. È sempre una
questione di tempo, di battere e levare, di ritmo. Tutto questo dolore ti sarà
utile, dice ogni tanto qualcuno. Devi solo trasformarlo. Ah già. Trasformarlo.
Sì sì, adesso lo trasformo. Intanto pesa, però, si prende il sonno ogni gioia e
il fiato. Allora leggo Paolo Nori, che mi consola sempre. "Che belle le
vite infelici come quella di Anna Achmatova", c'è scritto in quarta di
copertina del suo ultimo libro. Una quarta di colore rosa con una frase così,
già questo mi riporta un sorriso. Apro a caso e funziona sempre. "Di
questo, ho paura, di non sapere rispondere alla domanda che mi faceva mia mamma
quando ero piccolo e avevo fatto qualcosa di brutto: che cosa sei diventato?".
Ecco, sì, che cosa sei diventato. È questa la domanda da farsi, da fare. È
questa la paura. Difatti nessuno risponde. Bisogna preoccuparsi di fare le
domande giuste, quelle che non fanno paura perché se no: niente risposta.
"Spero che il tuo amico abbia lasciato a casa tua solo un calzino spaiato
e non voglia tornare a riprenderlo", mi aveva scritto tempo fa quella
persona a cui volevo bene - gliene voglio ancora, certo. Essere leggeri,
sempre. Il calzino spaiato. Questo bisogna fare. Ma a volte non basta. Nori
racconta poi di una ragazza a cui ha fatto una domanda e lei si è messa a
piangere. Poi si saranno abbracciati? Lo spero tanto. Non c'è niente come un
abbraccio, niente. (…).
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