"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 15 aprile 2023

Memoriae. 47 Paola Del Din: «Dopo l'8 settembre ci svegliammo un giorno con le SS alla stazione di Udine e cominciammo a chiederci: cosa possiamo fare?».



«Secondo Meloni, le vittime delle fosse Ardeatine furono scelte dai nazisti solo in quanto italiane. Come dire che Mussolini fu giustiziato dai partigiani solo in quanto nato nella provincia di Forlì-Cesena, che sul lago di Como evidentemente era già considerata "Terronia". E secondo La Russa i Gap in via Rasella, presero di mira "una banda musicale di semi-pensionati". Come si sa, infatti, nel 1944 Roma era nelle grinfie di diversi complessi altoatesini che eseguivano cover di Strauss disturbando il sonno dei residenti del centro storico: per metterli a tacere sarebbe bastata una secchiata d'acqua dal balcone. (…)». Tratto da “Pensionati scontrini e pistolini” di Dario Vergassola, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” in edicola dal 14 di aprile 2023.

Partigiani&Patrioti”. Di seguito, “Chiamatemi patriota la libertà è di tutti”, “memorie” di Paola Del Din – Pieve di Cadore, 23 di agosto dell’anno 1923 - raccolte da Simonetta Fiori e pubblicate sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, venerdì 14 di aprile: (…). «Dall'alto del mio secolo, come vedo la mia vita nella Resistenza? Per un lunghissimo periodo ho cercato di cancellarla. Troppo dolore, al rientro a casa volevo solo normalità, studio e lavoro. I morti erano stati tanti, non solo mio fratello Renato ma una folla di volti amici che non ho visto più. Di mio fratello ucciso dai fascisti durante l'assalto alla caserma repubblichina di Tolmezzo, non ci vollero dire subito. Lo dovetti comunicare io alla mamma, e più tardi anche al papà al suo ritorno dalla prigionia in India. Ricordo gli occhi straziati di mia madre, anche perché presto anche io avrei preso la strada di Renato. “Se non piangi mi porti fortuna” le dissi. E lei non pianse. E mi accompagnò da Udine fino a Padova, attraverso i posti di blocco dei camion tedeschi. Perché ho deciso di fare la Resistenza? Tutto è cominciato a casa mia, dove si era costituito uno dei primissimi nuclei di combattenti. Sulla scrivania mio fratello e i suoi amici costruivano gli ordigni per gli attentati contro i tedeschi e i repubblichini. Nella grande tragedia italiana, non potevamo stare a guardare. Dopo l'8 settembre ci svegliammo un giorno con le SS alla stazione di Udine e cominciammo a chiederci: cosa possiamo fare? “Accompagna il tale in bicicletta, porta i messaggi senza farti accorgere” mi ordinava Renato. Avevo vent'anni e correvo come un fulmine. Mio fratello era un ufficiale degli alpini e comprese immediatamente cosa fare. Bisognava liberare l'Italia dagli invasori. Ed occorreva liberare parole come patria dalla patina nera imposta dal fascismo. Noi della Brigata Osoppo eravamo dei patrioti. Conoscevo bene il comandante Francesco De Gregori, sì lo zio omonimo del cantautore, ucciso dai comunisti nel febbraio del 1945. Lui si era rivolto al Comitato di Liberazione Nazionale perché non voleva certo associarsi alle bande dei partigiani titini, ma non ebbe risposta. Scriveva, scriveva, il povero Bolla, ma nessuno gli badava. I Garibaldini lo fecero secco nelle malghe di Porzus, lui e altri venti osovani. Io allora non ero più in Friuli, ma non ho dimenticato quella barbarie. Dopo la morte di mio fratello, il 25 aprile del 1944, decisi di continuarne l'opera. Così accettai di entrare nei servizi segreti britannici scegliendo “Renata” come nome di battaglia: Renata come Renato. Venni contattata dal maggiore Manfred Beckett Czernin, mi disse che dovevo attraversare la penisola per arrivare oltre le linee nemiche, nascosti nel grembo i documenti segreti con il progetto dello sbarco nell'Alto Adriatico messo a punto da Churchill. Certo che rischiavo, e anche tanto: tortura e fucilazione. Ma io non avevo paura, non sapevo proprio cosa fosse: ero cresciuta in una famiglia di militari dove la stessa parola era bandita. Arrivai con la mamma fino a Padova, poi la direttrice di un istituto di suore mi procurò un'automobile con autista per arrivare fino a Bologna. Sardo e fascistissimo, il conducente mi diceva tante di quelle stupidaggini su Mussolini ma io non protestavo per evitare di dare nell'occhio. Poi sopra un'ambulanza militare tedesca riuscii a raggiungere Firenze, da qui Roma grazie agli stessi alleati. Nella capitale avrei dovuto consegnare i documenti a un certo maggiore Biondo, invece mi trovai davanti un tenente arrogante che mi minacciò di sbattermi in galera se non avessi dato a lui le carte. Un vero maleducato. Se ho subìto molti pregiudizi? Ricordo il mio primo lancio con il paracadute, in ordine ero la penultima, ma il capitano dietro di me insisteva per passarmi davanti con la scusa che certamente avrei fatto delle lagne. Non fece in tempo a ripetere “scusi, signorina” che gli sbarrai la strada per poi gettarmi nel vuoto senza esitazione: figuriamoci, ero abituata a difendere il mio posto nelle estenuanti code per il cibo. Un altro ricordo è legato agli ultimi giorni della guerra, quando chiesi un'arma al vicecomandante Piemonte, Brigata Rosselli. Sapevo sparare, con un padre ufficiale degli alpini e un fratello in divisa era naturale la dimestichezza con i bossoli. Ma Piemonte mi liquidò: non è roba per te, ovvero non è roba per donne. Non sono mai stata femminista e non faccio differenza tra uomini e donne. Ho fatto quello che dovevo, senza alcuna rivendicazione ideologica. Quando ricevetti la medaglia d'oro al valor militare fu elogiato il mio “coraggio virile”. Se mi fa sorridere l'aggettivo? Ma no, lo interpreto nell'accezione latina di eroico: il vir è l'uomo ed è anche l'eroe. Mi hanno riconosciuto l'indole coraggiosa, anche se io non mi sento come Anita Garibaldi. Credo di aver fatto il giusto, questo sì. A cosa pensavo durante le mie missioni pericolose col paracadute? Quando mi lanciai l'ultima volta, pensavo alla polenta, sì alla prima pietanza che avrei cucinato una volta messo piede a casa, dopo nove mesi di vita randagia. Perché preferisco essere chiamata patriota, non partigiana? Perché io ho combattuto per tutti, non per una parte sola. Scusi, la pensa diversamente da me? Ma io l'ho fatto anche per lei. E ho combattuto anche per liberare gli italiani fascisti, pensi un po', ho rischiato la vita pure per loro. Oggi sento dire che, a parte qualche errore, Mussolini è stato un grande politico. Ma si può dire di un uomo che ha mandato i suoi uomini a morire in quella maniera? Eppure io ricordo le piazze osannanti del 10 giugno del 1940, il giorno della dichiarazione di guerra: quanta superficialità tra gli italiani. Lei mi chiede cosa è stato il fascismo: un regime che ha soppresso la libertà, pezzetto dopo pezzetto. Ha presente gli strati di una cipolla? Togli qui, togli là, non è rimasto niente: solo la dittatura, con un Parlamento snaturato. Ora c'è chi ripropone i discorsi più famosi di Mussolini, come quel manager che si è poi dimesso. A me sembrano colossali sciocchezze dette da chi non conosce la storia. Studiate, cretini. Qualche volta mi viene da dire sulla tomba di Renato: sei morto così presto per chi? Per un paese che ha perso la bussola? Poi mi torna il buon umore e ricomincerei tutto daccapo. Sono orgogliosa della mia guerra da patriota, e di tutto quello che ho costruito nella vita, famiglia, figli, nipoti e bisnipoti, anche per loro mi sforzo di guardare sempre avanti; anche se il passato è sempre con me, non mi lascia mai».

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