«C'era una volta un Re che dal Palazzo/ mannò fora a li popoli st'editto: / 'Io sò io, e voi nun sete un cazzo, / sori vassalli buggiaroni, e zitto. / Io fo dritto lo storto e storto er dritto:/ posso venneve a tutti a un tant'er mazzo: / Io, se ve fo impiccà nun ve strapazzo, / che la vita e la robba Io ve l'affitto. /Chi abbita a sto monno senza er titolo / o de Papa, o de Re, o d'Imperatore, / quello nun po avè mai voce in capitolo'. /Co st'editto mannò er Boia pe curriero, /interrogando tutti in sur tenore; / e arisposeno tutti: "E' vero, è vero"».
Quando si dice che la grande poesia non invecchia, si dice che il celebre verso fatto proprio dal Marchese del Grillo si adatta non solo all'eterna sovranità, ma soprattutto all'ambigua acquiescenza del popolo che china la testa fino a quando, prima o poi, le condizioni non lo incoraggeranno ad alzare, insieme alla testa, anche le mani contribuendo all'inevitabile disgrazia dei potenti. E tuttavia, nello specifico odierno, da Meloni a Renzi · e Calenda senza escludere tanti altri, "Io sò io" esprime come meglio non si potrebbe il più superbo e scurrile egocentrismo di una classe politica maturata a suon di narcisismo mediatico; mentre "e voi nun sete un cazzo" sottintende un nichilismo che, in prolungata assenza di ideali e progetti, appare così cieco e grottesco da guadagnarsi un posticino nell'immaginario post-democratico. Di seguito, testo tratto dal volume “Re Giorgia” di Susanna Turco – Piemme Editore, pagg. 176, euro 18.50 – riportato sul settimanale “L’Espresso” del 30 di ottobre dell’anno 2022 col titolo “Meloni, il fascismo e l’ombra di Fini”: (…). Perché Meloni, che pure è passata in pochi anni dall’1,90 al 26 per cento, non riesce a fare il passo decisivo per archiviare la storia da quale viene? Perché se Giuliano Castellino assalta la sede del principale sindacato italiano lei fatica a prendere le distanze, pronuncia equilibrismi come «non so quale sia la matrice», e in privato aggiunge che le scoccia fare così con una persona che conosce sin da ragazzina? La risposta, andando al sodo, può apparire bizzarra: perché ha paura di fare la fine di Gianfranco Fini. Perché ha paura di somigliargli. Non è una deduzione, o una provocazione: anzi è la spiegazione che, in maniera abbastanza sorprendente, viene offerta più spesso quando si affronta la questione parlando con gli stessi mondi ex aennini, tra la gente di Fratelli d’Italia. Il rischio di essere anche solo vagamente accostabile all’ultimo segretario di An a Meloni stronca i passi. Eppure c’è qualcosa di incongruo. Gianfranco Fini si è ritirato dalla vita politica da anni. Dopo il 2013 non si è più candidato, non ha un partito né un movimento. Sparito dai radar dal 2017, a processo dal 2018 per riciclaggio nella vicenda della casa di Montecarlo comprata a prezzo di saldo dal cognato Giancarlo Tulliani, non fa l’opinionista, né per iscritto né in tv. E come mai questo Fini, politicamente ridotto a nulla e quasi del tutto silente da anni, fa così tanta paura a Meloni che per il resto pare non temere quasi niente – a parte forse gli scarafaggi? Risposta: se Gianfranco Fini ha archiviato il fascismo come «male assoluto», lei, che pure nel 2003 non si dissociò da quella presa di posizione, ha finito per archiviare come male assoluto proprio lui: il capo che l’ha apprezzata come giovane promessa, che l’ha scelta come vicepresidente della Camera, come ministra della Gioventù. Il segretario che prima ha chiuso l’Msi poi An, che l’ha trascinata nel Pdl, che poi si è ribellato a Berlusconi ed è voluto venire via, per fare qualcosa che non era tornare ad An. Colui che sostanzialmente ha messo le basi perché lei, la destra, potesse muoversi libera dall’ombra del suo passato così ingombrante. Eppure Meloni non può in alcun modo permettersi di essergli paragonata, pena la morte politica. La fine di tutto. Ed è paradossale che sia proprio questo elemento a indebolirla, laddove in effetti Meloni è riuscita, negli anni, in autentici miracoli, come quello di pacificare anime dell’ex An-Msi che non trovavano pace si può dire da sempre, o come la ricucitura di un orizzonte che pareva destinato a non risorgere più. Perché mai? C’è uno snodo nei rapporti tra Fini e Meloni che risulta in qualche modo illuminante. Arriva dopo gli anni dello strappo e della fine del Pdl, quando lei prima è critica, poi non segue il suo ex segretario, nel 2010, fuori dal Pdl. Arriva dopo una stagione di armistizio bilaterale, nel quale lei si rifiuta di dargli del traditore e lui tace le sue critiche sulla costruzione del nuovo partito. Quando però Meloni, con Crosetto e La Russa, decide di celebrare il primo congresso di FdI proprio a Fiuggi, nel luogo simbolo della storia della destra italiana, dove nel 1995 Gianfranco Fini aveva officiato la svolta dell’Msi in An, l’uscita dalla “casa del padre”, accade qualcosa di irreversibile. In quell’occasione Fini rivolge, con una nota, a Meloni e Fratelli d’Italia parole terribili. «Fa riflettere il modo con cui i dirigenti di Fratelli d’Italia tentano di far risorgere Alleanza Nazionale. Dopo aver furbescamente inserito il simbolo, seppur in formato bonsai, nel loro logo elettorale, celebrano questo fine settimana il congresso nazionale a Fiuggi […]. Mi sembrano bambini cresciuti, e viziati che vogliono imitare i fratelli maggiori senza capire che le condizioni in cui si trovano sono completamente diverse. Rischiano di far piangere, di rabbia e non certo di commozione, chi venti anni fa era consapevole di quel che stava accadendo a destra», scrive Fini. Ripercorrendo i passaggi principali della svolta di Fiuggi, quando «la destra italiana trasformò radicalmente se stessa perché uscì dalla casa del padre con la certezza di non farvi mai più ritorno», «non cambiò nome, mutò identità e prospettive». E ammonisce: «Non tutto è andato come avevamo sognato», «mi sono preso la mia parte di responsabilità» «anche per questo dico ai Fratelli d’Italia di smetterla di scimmiottare la storia. Per sopravvivere e superare il 4 per cento alle Europee serve loro qualcosa di assai più convincente che una scampagnata semiclandestina a Fiuggi. La storia di An, di cui anch’essi fanno parte, non merita di ripetersi in farsa. I simboli da soli non bastano. Alla destra servono idee nuove e prospettive credibili […]. Senza una risposta era meglio convocare l’assise altrove. Perché il confronto con il passato sarà inevitabilmente impietoso». Toni da maledizione biblica, in un momento nel quale in effetti Fratelli d’Italia si era presa il simbolo di Alleanza Nazionale ma non aveva ancora rinsaldato un partito che fluttuava tra i tanti partiti possibili spuntati e poi rapidamente scomparsi a destra. Una maledizione finiana alla quale comunque Meloni risponde con altrettanta veemenza. Anzi la raddoppia. La leader di Fratelli d’Italia aspetta infatti di arrivare proprio sul palco di Fiuggi. E alla fine del discorso di apertura del primo congresso affronta la questione Fini. La prende da lontano. Da Giorgio Almirante, il mentore di Fini che Meloni solleva in alto, per scaraventarlo addosso proprio a Fini, che è il suo di mentore. Dice infatti: «Abbiamo raccolto l’insegnamento di Giorgio Almirante quando diceva: “In altri tempi ci risollevammo per noi stessi, da qualche tempo ci siamo risollevati per voi, giovani, per trasmettervi la staffetta prima che ci cada di mano, come ad altri cadde nel momento in cui si accingeva a trasmetterla”. Raccoglieremo quel testimone, con uno sguardo al futuro». Qui Meloni fa una lunga pausa. E precisa: «Voglio anche dire che di recente, a qualcuno, quel testimone è caduto». Altra pausa. «Non ho mai risposto ai diversi attacchi, alle ironie, che ci e mi sono state rivolte da Gianfranco Fini. Perché non è nel mio stile rispondere e perché penso che i panni sporchi debbano essere lavati in casa. Quello che ho letto ieri, però, merita almeno una risposta. Io non comprendo le ragioni di tanto astio per chi prova a ricostruire qualcosa che evidentemente a Gianfranco Fini non interessava più. Non accetto l’accusa di essere dei bambini viziati. Noi non siamo bambini viziati. Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta e cavarsela da soli, come sempre accade a quei ragazzi che vengono abbandonati dal loro padre, che a un certo punto scappa di casa e se ne va in giro per il mondo a sperperare un patrimonio. Questo noi siamo». Sono parole terribili già lì per lì. E segnano, per anni, la fine di qualsiasi armistizio con Fini, il quale dirà in più occasioni che Meloni è una «fotocopia della Lega», o una «mascotte», una «ragazzina che si è montata la testa», «ridicola». Ma nel 2014, al congresso di Fiuggi, Meloni non aveva messo a fuoco e dettagliato, nel racconto pubblico che ha poi fatto di sé, il ruolo di suo padre, Franco Meloni. Un padre che, come avrebbe scritto nel 2021 in “Io sono Giorgia”, se ne era «andato di casa», aveva «girato il mondo in barca a vela», così sperperando – stando al racconto di Meloni – il patrimonio affettivo-familiare delle sue figlie, ma anche – stando alle ricostruzioni dei vari media spagnoli spuntate dopo la vittoria di FdI alle elezioni 2022 – anche un patrimonio in senso letterale e non metaforico. Denari insomma. Non può sfuggire, pur con tutte le cautele del caso, il parallelo che proprio Meloni stabilì durante il primo congresso di Fratelli d’Italia, tra la sua vicenda di figlia e quella di politica: «Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta e cavarsela da soli, come sempre accade a quei ragazzi che vengono abbandonati dal loro padre». Il parallelo tra Gianfranco Fini e Franco Meloni. Sperperatori di patrimoni, in senso letterale e metaforico. Mentre «noi stiamo tentando di ricostruire quello che lui ha deliberatamente distrutto», come ebbe a dire Meloni, di nuovo, nel 2015. Con queste premesse, è forse un pochino più evidente quanto possa essere complesso per Meloni fare i conti con l’eredità rappresentata da Gianfranco Fini, come sia difficile maneggiare la libertà di manovra di cui ha potuto usufruire grazie a lui, portare ancora un pezzo più avanti le svolte che sempre da quel percorso originano. Senza sentirsi dare della traditrice. E senza sentircisi, lei stessa. Gianfranco Fini, del resto, nella vulgata è diventato il traditore per eccellenza. Un capro espiatorio, persino oltre le sue oggettive responsabilità. (...) Resistenze spiegate come un’eco da tanti suoi interlocutori abituali: «Non può mica fare questi passaggi perché glieli chiedono», «li farà quando non sembrerà che stia sulla difensiva», eccetera. Non lo fa perché sta più comoda. Perché per quanti pochi siano i voti dei nostalgici e dei neofascisti, comunque ci sono. Perché una volta che dovesse affrontare di petto la questione, dovrebbe affrontare anche Fini. È un passaggio incomprimibile. Se Meloni non dovesse farlo, come ha scritto Marco Follini a fine agosto sulla «Stampa», in uno dei pochi articoli che hanno chiamato in causa l’ex leader di An, «vorrà dire che esiste un problema politico più complicato delle soluzioni che gli erano state date».
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