Ha scritto Francesco Merlo in “Cosa raccontano i muri-taccuino delle nostre città” pubblicato sul mensile “d-Lui” del quotidiano “la Repubblica” del 22 di aprile 2023: (…). Io credo che oggi la disperazione sia tornata i muri d'Italia che, nonostante soffrano maledettamente la concorrenza degli sfogatoi social, esprimono ancora benissimo il malessere dell'intelligenza: "Odio tutti", "Sono senza peccato e faccio una vita di merda", "Se incontrate un'ombra sono io, mi sono perso".
Il muro, tutti i muri, anche quello che divideva
Berlino, sostiene Rem Koolhass – (…) - non sono solo costruzioni, ma
"situazioni". Ebbene, nello spazio pubblico impiastricciato e
impataccato della street art, sul muro irriverente degli adolescenti con l'acne
comunicativa sono tornati fascismo e antifascismo, dai classici "viva il
Duce" e "fascisti appesi", alle scritte razziste e antisemite e
a "fascisti jatevenne". Eppure, la democrazia in Italia non è in
pericolo. In Italia puoi dire e scrivere quello che vuoi, non solo sui muri, e
nessuno verrà a bussarti all'alba per portarti via come accade nelle dittature.
Ci sono, è vero, nostalgie più o meno pittoresche e rivalutazioni striscianti
del fascismo, che è però un fenomeno storico databile e non ripetibile. E
tuttavia sui muri d'Italia accanto alla A di anarchia e ai "Pensati
libera" di Chiara Ferragni sono tornati i "No al fascismo",
"Fuori i fascisti dal governo" o i "Make fascio great
agaìn", E addirittura "la disperazione è il fascismo" ci ha
urlato uno sconosciuto graffitaro da un muro che Oliviero Toscani ha fotografato.
Davvero è sorprendente aver trovato sul muro vivo, su cui si incidono come
cicatrici gli slogan delle anime malate, questa frase così profonda sul
fascismo che ci minaccia, non come ritorno al "duce ha sempre
ragione" e a "meglio un giorno da leoni", e neppure al
Parlamento bivacco di manipoli, all'orbace, agli stivali, al minculpop, ma alla
disperazione che di nuovo si organizza. "Ogni disperazione è fascista, e
io non so disperare" è infatti un pensiero di Giuseppe Antonio Borgese che
nel 1937, in esilio a Chicago, spiegò così agli americani "la malattia
italiana", "il carattere degli italiani", "la ragione per
cui il fascismo è nato in Italia" e da allora "senza soluzione di
continuità, i fascismi vengono fuori l'uno dall'altro", aggiunse poi
Leonardo Sciascia ragionando sull'antifascismo ottimista di Borgese che, né
crociano né marxista", si negò sempre alla disperazione: "Tranne
l'amor di patria, che io però non so concepire come odio alle patrie altrui,
nulla in me è fascista". E raccontò nel suo Golia (…) la storia della
disperazione degli italiani. È dunque finita sul muro degli abusi lessicali e
degli azzardi strampalati la disperazione del Paese che in Europa fa meno
bambini, ha i salari più bassi e il debito più alto e nove milioni e mezzo di poveri,
la disperazione di non saper spendere i miliardi del Pnrr e di rivedere "i
neri" che aggrediscono i rossi e i telegiornali la chiamano zuffa, la
disperazione di una scuola che vuole tornare alle punizioni degli studenti e
dei professori, la disperazione per gli immigrati che non sappiamo più salvare
e lasciamo morire sulle spiagge mentre a quelli che riescono a sbarcare
offriamo l'accoglienza della prigione affollata, la disperazione di un Paese di
vecchi che nega i diritti ai bambini delle famiglie arcobaleno. Altro che busti
di Mussolini, saluti romani, divise e pagliacciate di ministri e sottosegretari
svalvolati. Sta sul muro-taccuino della "città scritta" il futuro che
ci minaccia: "La disperazione è fascista". Di seguito, “Così la fascistizzazione dello Stato è già
in atto” della filosofa Donatella Di Cesare pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 27 di aprile ultimo: (…). Ed ecco il 25 Aprile, la data di
nascita di un nuovo Paese. Per La Russa & C. una data da aggirare con
parole e gesti. Perché loro antifascisti non sono e non lo saranno mai. A che
pro chiederglielo? Per anni e decenni hanno guardato con occhi torvi i cortei
che sfilavano per ricordare I'ingresso festoso dei partigiani nelle città
italiane liberate. Loro erano dall'altra parte, e si sentivano sconfitti. La
cosiddetta "pacifìcazione" - una delle tante parole vuote - non c'è
mai stata e non poteva esserci. Perché in Italia in quegli anni ha avuto luogo
una guerra civile che, al contrario di quel che è avvenuto nel contesto
spagnolo, non è stata riconosciuta nella sua gravità e profondità. Le
"forze progressiste" si sono raccontate di aver vinto per sempre e
definitiva- mente. E siccome il progresso va solo assecondato, hanno abdicato
ai loro contenuti, rinunciato ai loro ideali. Anche a costo di distruggere e
annientare parti decisive della sinistra, come è accaduto negli anni Settanta.
È stata quella una nuova fase, quasi una ripresa della guerra civile, dove i
fascisti, oltre a scatenare una violenza inaudita, andarono tessendo nell'ombra
le trame più buie ed eversive. A lottare nelle piazze fu la generazione Settanta,
che dalla stessa sinistra subì una terribile repressione e che viene ancora
stigmatizzata. Erano peraltro quelli che promossero una critica contro l'Unione
sovietica e si identificarono in Jan Palach che si era dato alle fiamme per
protestare contro i carri armati a Praga... I "nipoti di Mussolini"
(…) si sono moltiplicati; la loro natalità è alta, perché hanno fatto leva non
tanto sull'ignoranza quanto sulla fortissima depoliticizzazione di questo
Paese, dove molti si sentono esautorati dalla democrazia. E ora che sono al
potere riscrivono la Storia, quella del ventennio e quella degli anni Settanta.
Partono astutamente dal tono astutamente dal dogma dei due totalitarismi,
avallato qualche anno fa anche dall'Ue, per cui il nazismo sarebbe equiparabile
allo stalinismo. È una tesi controversa. Le analogie sono evidenti:
soppressione della democrazia e delle libertà individuali, introduzione del
partito unico e il monopolio dello Stato. Ma le differenze sono
incommensurabili. L'ideale umanistico di emancipazione può essere criticato, ma
neppure lontanamente avvicinato al nazifascismo, che è stato il progetto di una
perversione, quello del rimodellamento etnico della popolazione. E soprattutto
il gulag non è il campo di sterminio dove, con un salto nell'antimondo, si è
passati all'industrializzazione della morte. Se non si capisce questo, si
rischia di sottovalutare un progetto politico fondato sul mito dell'identità
etnica, che non si è esaurito e ricompare oggi in altre forme e con slogan
analoghi. La Russa, Lollobrigida, Piantedosi, Valditara – la fascistizzazione
dello Stato è in atto. E passa fra l'altro per il discredito gettato sulla
Resistenza, a cui hanno contribuito quelli che nell'ultimo anno l'hanno a torto
utilizzata per avallare la guerra d'Ucraina. Un paragone vergognoso, che ha
avuto e ha ripercussioni politiche devastanti. In questo nuovo scenario occorre
allora chiedersi che cosa significa la parola "antifascista", che
appare logora ed esaurita. Se lo chiede Gianfranco Pagliarulo nel suo libro
Antifascisti adesso... perché non è ancora finita (Mimesis 2023), dove
rinviando alla difesa della Costituzione, riconosce anche l'esigenza di una
decostruzione di questo post-fascismo, che purtroppo manca. Cambiare rotta
insomma, interrogarsi davvero sull'antifascismo, dato troppo spesso per
scontato, prenderlo non come punto d'arrivo, bensì di partenza.
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