Ha lasciato (a 63 anni, il 26 di febbraio 2023) Curzio Maltese alla nostra memoria – ed in forma scritta – il “pezzo” “Siate realisti, chiedete l’impossibile: in passato ha funzionato”, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del primo di luglio dell’anno 2016:
Volere l’impossibile non è
soltanto uno slogan del ’68, ma uno dei più potenti motori della nostra civiltà
fin dalla sua culla, il pensiero greco, al quale in realtà s’ispirava la parola
d’ordine del maggio francese. Bisogna volere l’impossibile, perché
l’impossibile accada, diceva Eraclito. L’impossibile è accaduto spesso nel
corso delle nostre vite o di quelle dei nostri genitori o nonni, anche se
tendiamo a dimenticarlo. Le prime rivendicazioni del movimento operaio, sugli
orari di lavoro, i salari, lo sfruttamento dei minori, furono accolti con
derisione dai padroni e dai giornali. Un sarcasmo assoluto, anche in ambienti
progressisti, ha circondato per molti anni le battaglie femministe. Se si
leggono i manifesti anarchici dell’800, il massimo di estremismo politico
dell’epoca, si può constatare facilmente che molte delle folli utopie di allora
sono realizzate, per esempio, l’istruzione e la sanità pubbliche. Quello che è
accaduto negli ultimi decenni, segnati da una colossale redistribuzione della
ricchezza verso l’alto, è un rovesciamento del campo dell’utopia, da strumento
di rivoluzione a strumento di restaurazione. Le oligarchie dominanti hanno
capito molto meglio la forza dell’utopia, anche negativa, di quanto non lo
abbiano capito i progressisti. Hanno agito dunque su due livelli, da un lato
limitando il campo dei sogni altrui, dall’altro estendendo all’infinito quello
dei propri. Per fare qualche esempio, ormai è considerato utopistico, da parte
delle giovani generazioni, aspirare a obiettivi minimi come un posto di lavoro
fisso e garantito da tutele. Al contrario il potere economico è vicino a
realizzare imprese impensabili fino a pochi anni fa, come brevettare gli
organismi viventi e privatizzare tutte le risorse naturali, a cominciare
dall’acqua. Per cambiare le cose non basta protestare. È fondamentale
ricominciare a pensare l’impossibile. Proibire per legge la povertà, come
propone Riccardo Petrella, il padre del movimento per l’acqua bene comune, oggi
può sembrare un’assoluta utopia, ma domani potrebbe essere diritto universale.
Così come chiedere a Draghi di distribuire soldi della Bce direttamente ai
cittadini meno abbienti, invece di continuare a pompare montagne di miliardi nel
sistema bancario: è una follia da sognatori o non sarebbe magari la vera
soluzione? Oggi, 18 di aprile 2023, sarà nelle librerie il volume “Azzurro”, ultimo dono dell’indimenticato
Curzio (Feltrinelli editore, pagg. 176, euro 199). Di seguito, “Stralci di vita poco prima di mandare l’ultimo
pezzo” di Ezio Mauro pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica”
del 14 di aprile ultimo: Come una cartolina postuma spedita agli amici
prima di andar via, Curzio Maltese ci ha lasciato un libro (Azzurro, editore
Feltrinelli) in cui rivela che la ragione profonda e la vera missione del
giornalismo è il bisogno di capire. Più che spiegarlo Curzio, che non ha mai
fatto prediche e lanciato messaggi, lo testimonia. Raccontando stralci della
sua vita ad occhi aperti, ciò che ha visto e chi ha incontrato, quel che ha
cercato e infine cosa gli è rimasto dentro, nel saldo dell'ultimo passaggio.
Capire è la parola che ritorna come un'ossessione, è il movente. Da quando a
cinque anni vede la madre che dopo una telefonata fuma e piange sola nella casa
di Milano dove aveva portato tre anni prima lui e la sorella Cinzia, lasciando
a Roma il marito, e non ha bisogno di domandare: appunto, capisce che suo padre
malato è morto. Una lontananza irrimediabile ma soprattutto insopportabile, col
ragazzo che condanna il padre perché non c'è, maledicendo perfino la parola socialismo,
troppo legata a lui. Poi la crescita borderline di periferia, dove nei
sottopassi oltre viale Palmanova «ci affacciavamo alle miserie della vita», tra
la gente seduta per terra con gli aghi intorno, il terrorista Fatane che vuole
mettere in mano a Curzio una pistola e lui che risponde: «Io voto, mi basta
quello». È la coscienza politica che affiora guidata dall'istinto di classe,
dal senso del popolo e dai libri che ti salvano, anche quelli rubati alla
Standa, insieme con una fetta di formaggio. Poi tutto si compie quando la madre
lo trascina riluttante in piazza Duomo ai funerali dopo la strage di piazza
Fontana, lui si guarda intorno e ha già deciso: «Ora sapevo da che parte stare,
sarei stato sempre un antifascista».
Come aveva detto la madre davanti alla sua resistenza? «Ci vieni». Perché?
«Perché devi capire». Dalla curiosità al giornalismo. C'è la scuola, coi
ragazzini che in classe scivolano giù dalla sedia per guardare meglio le gambe
della maestra, c'è la tappa generazionale del cineforum, per arrivare agli anni
della contestazione («Ti sentivi parte di qualcosa, credevamo che storia e
società sarebbero cambiate per sempre e invece era solo un'epoca troppo bella
perdurare»), l'Università e un anno da operaio, con le scorribande in R4 a
fineturno attraverso una Milano ancora ingenua, allegra, rivolta al futuro, «in
cui perfino i poveri potevano sentirsi felici». E il sabato la madre portava i
figli con lei al lavoro alla Rinascente, dove tra i banchi vedevano passare
Mariangela Melato e Carla Fracci: per poi mettersi in fila dal Pugliese accanto
al Duomo per i panzerotti più buoni del mondo. Lo sbocco naturale di quella
curiosità intellettuale, di quella osservazione vissuta, è il giornalismo, alla
Notte, alla Gazzetta, al Corriere dello sport, alla Stampa, a Repubblica, al Domani.
Fatto di passione, fatica, esperienze, incontri, bar come Gattullo, riso al
salto notturno all'Assassino, cronache prima sportive poi politiche, Giro d'Italia
e Renzo Piano, Gianni Brera a San Siro e Benigni nella notte dell'Oscar,
Piovani, Cerami, Paolo Conte e la musica dell'avventura, l'italiano periclitante
di Di Pietro e le ossessioni di Polanski, in una lunga marcia di avvicinamento
al totem Berlusconi. Tutto unito da una scrittura metallica e rilucente, qualcosa
di lucido e implacabile, un procedere quasi obbligatorio, semplice ma mai
banale, senza un luogo comune e un'indulgenza retorica, con i concetti che
sembrano nascere dalle cose, se le sai mettere in fila. È il talento spontaneo
di Curzio, il carattere civile del suo lavoro, che compensava ampiamente la
dissipazione del tempo e la latitanza ricorrente: «Andavo a letto all'alba, mi
alzavo tardi, facevo una vita ancora da ragazzo, a tratti poco affidabile,
arrivavo tardi agli appuntamenti, a volte scomparivo, facevo confusione con più
di una fidanzata alla volta. Stavo ancora cercando il mio posto nel mondo». Una
volta il giornale cercava lui, introvabile, e finì per chiedere aiuto ai
carabinieri che lo scovarono nella casa dove si era rinchiuso coi due amici
Pino e Massimo per finire un libro su Berlusconi. Tutto riscattato dal lampo di
un'idea, di un'immagine forte come un'intuizione, dell'intelligenza degli avvenimenti.
Dalla passione umana per le persone, dal regalo continuo e sempre stupefacente
dell'amicizia. Fino alla malattia, che gli salta addosso all'improvviso, dopo
la morte giovane di Cinzia che tornava nei sogni dolorosi, per dieci anni. «Cado
sul pavimento, faccia a terra. Sono morto. Non potevo sapere di avere qualcosa
nella testa. Sentivo la morte, c'erano le streghe, Macbeth, avevo paura». Non
può muovere il corpo, ma vuole sapere, interroga tutti con gli occhi, non
parla, non scrive, non legge, però pensa. «Sono ateo, sono di sinistra, della
Chiesa non m'importa nulla, però adesso è successo qualcosa, e mi vergogno un
po' ma penso a Dio». La fatica della riabilitazione, la tristezza di non
riuscire ad esprimersi parlando con Zeno, suo figlio: «La parola che non esce,
che inciampa senza tregua non lascia via d'uscita alle emozioni. Mentre parli,
elabori quel che provi. Se non puoi, ti scoppia dentro. Siamo fatti di parole.
E io ora le ho perse». Le riunioni per i dossier del Parlamento europeo con i
compagni di Tsipras e gli assistenti su una panchina nel cortile della clinica,
i primi articoli, l'insonnia e l'ambulanza con Paola sempre sul seggiolino
accanto: «Per questo l'ho sposata, perché lei capisce». E la proiezione d'amore
su Zeno, guardarlo mentre gli tocca diventare uomo a 16 anni, «un uomo
perbene», quindi la felicità di seguirlo, nella certezza che non avrà paura di
quel che deve accadere. Poi quella cosa è tornata, Curzio lo ha compreso, ha
ricominciato a combattere ma non ha vinto. Dopo, Paola giustamente gli ha
infilato gli occhiali, come se lui dovesse magari guardarsi intorno per cercare
infine di capire il mistero, e scrivere ancora l'ultimo capitolo.
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