"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 18 aprile 2023

Memoriae. 48 Curzio Maltese: «Ora sapevo da che parte stare, sarei stato sempre un antifascista».


Ha lasciato (a 63 anni, il 26 di febbraio 2023) Curzio Maltese alla nostra memoria – ed in forma scritta – il “pezzo” “Siate realisti, chiedete l’impossibile: in passato ha funzionato”, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del primo di luglio dell’anno 2016:

Volere l’impossibile non è soltanto uno slogan del ’68, ma uno dei più potenti motori della nostra civiltà fin dalla sua culla, il pensiero greco, al quale in realtà s’ispirava la parola d’ordine del maggio francese. Bisogna volere l’impossibile, perché l’impossibile accada, diceva Eraclito. L’impossibile è accaduto spesso nel corso delle nostre vite o di quelle dei nostri genitori o nonni, anche se tendiamo a dimenticarlo. Le prime rivendicazioni del movimento operaio, sugli orari di lavoro, i salari, lo sfruttamento dei minori, furono accolti con derisione dai padroni e dai giornali. Un sarcasmo assoluto, anche in ambienti progressisti, ha circondato per molti anni le battaglie femministe. Se si leggono i manifesti anarchici dell’800, il massimo di estremismo politico dell’epoca, si può constatare facilmente che molte delle folli utopie di allora sono realizzate, per esempio, l’istruzione e la sanità pubbliche. Quello che è accaduto negli ultimi decenni, segnati da una colossale redistribuzione della ricchezza verso l’alto, è un rovesciamento del campo dell’utopia, da strumento di rivoluzione a strumento di restaurazione. Le oligarchie dominanti hanno capito molto meglio la forza dell’utopia, anche negativa, di quanto non lo abbiano capito i progressisti. Hanno agito dunque su due livelli, da un lato limitando il campo dei sogni altrui, dall’altro estendendo all’infinito quello dei propri. Per fare qualche esempio, ormai è considerato utopistico, da parte delle giovani generazioni, aspirare a obiettivi minimi come un posto di lavoro fisso e garantito da tutele. Al contrario il potere economico è vicino a realizzare imprese impensabili fino a pochi anni fa, come brevettare gli organismi viventi e privatizzare tutte le risorse naturali, a cominciare dall’acqua. Per cambiare le cose non basta protestare. È fondamentale ricominciare a pensare l’impossibile. Proibire per legge la povertà, come propone Riccardo Petrella, il padre del movimento per l’acqua bene comune, oggi può sembrare un’assoluta utopia, ma domani potrebbe essere diritto universale. Così come chiedere a Draghi di distribuire soldi della Bce direttamente ai cittadini meno abbienti, invece di continuare a pompare montagne di miliardi nel sistema bancario: è una follia da sognatori o non sarebbe magari la vera soluzione? Oggi, 18 di aprile 2023, sarà nelle librerie il volume “Azzurro”, ultimo dono dell’indimenticato Curzio (Feltrinelli editore, pagg. 176, euro 199). Di seguito, “Stralci di vita poco prima di mandare l’ultimo pezzo” di Ezio Mauro pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 14 di aprile ultimo: Come una cartolina postuma spedita agli amici prima di andar via, Curzio Maltese ci ha lasciato un libro (Azzurro, editore Feltrinelli) in cui rivela che la ragione profonda e la vera missione del giornalismo è il bisogno di capire. Più che spiegarlo Curzio, che non ha mai fatto prediche e lanciato messaggi, lo testimonia. Raccontando stralci della sua vita ad occhi aperti, ciò che ha visto e chi ha incontrato, quel che ha cercato e infine cosa gli è rimasto dentro, nel saldo dell'ultimo passaggio. Capire è la parola che ritorna come un'ossessione, è il movente. Da quando a cinque anni vede la madre che dopo una telefonata fuma e piange sola nella casa di Milano dove aveva portato tre anni prima lui e la sorella Cinzia, lasciando a Roma il marito, e non ha bisogno di domandare: appunto, capisce che suo padre malato è morto. Una lontananza irrimediabile ma soprattutto insopportabile, col ragazzo che condanna il padre perché non c'è, maledicendo perfino la parola socialismo, troppo legata a lui. Poi la crescita borderline di periferia, dove nei sottopassi oltre viale Palmanova «ci affacciavamo alle miserie della vita», tra la gente seduta per terra con gli aghi intorno, il terrorista Fatane che vuole mettere in mano a Curzio una pistola e lui che risponde: «Io voto, mi basta quello». È la coscienza politica che affiora guidata dall'istinto di classe, dal senso del popolo e dai libri che ti salvano, anche quelli rubati alla Standa, insieme con una fetta di formaggio. Poi tutto si compie quando la madre lo trascina riluttante in piazza Duomo ai funerali dopo la strage di piazza Fontana, lui si guarda intorno e ha già deciso: «Ora sapevo da che parte stare, sarei stato sempre un antifascista». Come aveva detto la madre davanti alla sua resistenza? «Ci vieni». Perché? «Perché devi capire». Dalla curiosità al giornalismo. C'è la scuola, coi ragazzini che in classe scivolano giù dalla sedia per guardare meglio le gambe della maestra, c'è la tappa generazionale del cineforum, per arrivare agli anni della contestazione («Ti sentivi parte di qualcosa, credevamo che storia e società sarebbero cambiate per sempre e invece era solo un'epoca troppo bella perdurare»), l'Università e un anno da operaio, con le scorribande in R4 a fineturno attraverso una Milano ancora ingenua, allegra, rivolta al futuro, «in cui perfino i poveri potevano sentirsi felici». E il sabato la madre portava i figli con lei al lavoro alla Rinascente, dove tra i banchi vedevano passare Mariangela Melato e Carla Fracci: per poi mettersi in fila dal Pugliese accanto al Duomo per i panzerotti più buoni del mondo. Lo sbocco naturale di quella curiosità intellettuale, di quella osservazione vissuta, è il giornalismo, alla Notte, alla Gazzetta, al Corriere dello sport, alla Stampa, a Repubblica, al Domani. Fatto di passione, fatica, esperienze, incontri, bar come Gattullo, riso al salto notturno all'Assassino, cronache prima sportive poi politiche, Giro d'Italia e Renzo Piano, Gianni Brera a San Siro e Benigni nella notte dell'Oscar, Piovani, Cerami, Paolo Conte e la musica dell'avventura, l'italiano periclitante di Di Pietro e le ossessioni di Polanski, in una lunga marcia di avvicinamento al totem Berlusconi. Tutto unito da una scrittura metallica e rilucente, qualcosa di lucido e implacabile, un procedere quasi obbligatorio, semplice ma mai banale, senza un luogo comune e un'indulgenza retorica, con i concetti che sembrano nascere dalle cose, se le sai mettere in fila. È il talento spontaneo di Curzio, il carattere civile del suo lavoro, che compensava ampiamente la dissipazione del tempo e la latitanza ricorrente: «Andavo a letto all'alba, mi alzavo tardi, facevo una vita ancora da ragazzo, a tratti poco affidabile, arrivavo tardi agli appuntamenti, a volte scomparivo, facevo confusione con più di una fidanzata alla volta. Stavo ancora cercando il mio posto nel mondo». Una volta il giornale cercava lui, introvabile, e finì per chiedere aiuto ai carabinieri che lo scovarono nella casa dove si era rinchiuso coi due amici Pino e Massimo per finire un libro su Berlusconi. Tutto riscattato dal lampo di un'idea, di un'immagine forte come un'intuizione, dell'intelligenza degli avvenimenti. Dalla passione umana per le persone, dal regalo continuo e sempre stupefacente dell'amicizia. Fino alla malattia, che gli salta addosso all'improvviso, dopo la morte giovane di Cinzia che tornava nei sogni dolorosi, per dieci anni. «Cado sul pavimento, faccia a terra. Sono morto. Non potevo sapere di avere qualcosa nella testa. Sentivo la morte, c'erano le streghe, Macbeth, avevo paura». Non può muovere il corpo, ma vuole sapere, interroga tutti con gli occhi, non parla, non scrive, non legge, però pensa. «Sono ateo, sono di sinistra, della Chiesa non m'importa nulla, però adesso è successo qualcosa, e mi vergogno un po' ma penso a Dio». La fatica della riabilitazione, la tristezza di non riuscire ad esprimersi parlando con Zeno, suo figlio: «La parola che non esce, che inciampa senza tregua non lascia via d'uscita alle emozioni. Mentre parli, elabori quel che provi. Se non puoi, ti scoppia dentro. Siamo fatti di parole. E io ora le ho perse». Le riunioni per i dossier del Parlamento europeo con i compagni di Tsipras e gli assistenti su una panchina nel cortile della clinica, i primi articoli, l'insonnia e l'ambulanza con Paola sempre sul seggiolino accanto: «Per questo l'ho sposata, perché lei capisce». E la proiezione d'amore su Zeno, guardarlo mentre gli tocca diventare uomo a 16 anni, «un uomo perbene», quindi la felicità di seguirlo, nella certezza che non avrà paura di quel che deve accadere. Poi quella cosa è tornata, Curzio lo ha compreso, ha ricominciato a combattere ma non ha vinto. Dopo, Paola giustamente gli ha infilato gli occhiali, come se lui dovesse magari guardarsi intorno per cercare infine di capire il mistero, e scrivere ancora l'ultimo capitolo.

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