"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 10 aprile 2023

Dell’essere. 79 Stefano Massini: «La sindrome di Bucha, in nome della quale l’avverbio “veramente” di Longino ha finito per mutarsi in “verosimilmente”».

 

«Le Letture che la Chiesa oggi ci offre possiamo definirle un dialogo fra i lamenti di Dio e le giustificazioni degli uomini. Dio, il Signore, si lamenta. Si lamenta di non essere stato ascoltato lungo la storia. È sempre lo stesso: “Ascoltate la mia voce… Io sarò il vostro Dio… Sarai felice…”. “Ma essi non ascoltarono né prestarono orecchio alla mia parola, anzi: procedettero ostinatamente secondo il loro cuore malvagio. Invece di rivolgersi verso di me, mi hanno voltato le spalle” (Ger 7,23-24). È la storia dell’infedeltà del popolo di Dio. (…). Il popolo di Dio era solo, e questa classe dirigente – i dottori della legge, i sadducei, i farisei – era chiusa nelle sue idee, nella sua pastorale, nella sua ideologia. E questa classe è quella che non ha ascoltato la Parola del Signore, e per giustificarsi dice ciò che abbiamo sentito nel Vangelo: “Quest’uomo, Gesù, scaccia i demoni con il potere di Beelzebul” (Mt 11,15). È lo stesso che dire: “È un soldato di Beelzebul o di Satana o della cricca di Satana”, è lo stesso.

Si giustificano di non aver ascoltato la chiamata del Signore. Non potevano sentirla: erano tanto, tanto chiusi, lontani dal popolo, e questo è vero. Gesù guarda il popolo e si commuove, perché lo vede come “pecore senza pastori”, così dice il Vangelo. E va dai poveri, va dagli ammalati, va da tutti, dalle vedove, dai lebbrosi a guarirli. E parla loro con una parola tale che provoca ammirazione nel popolo: “Ma questo parla come uno che ha autorità!”, parla diversamente da questa classe dirigente che si era allontanata dal popolo. Ed era soltanto con l’interesse nelle sue cose: nel suo gruppo, nel suo partito, nelle sue lotte interne. E il popolo, là… Avevano abbandonato il gregge. E questa gente era peccatrice? Sì. Sì, tutti siamo peccatori, tutti. Tutti noi che siamo qui siamo peccatori. Ma questi erano più che peccatori: il cuore di questa gente, di questo gruppetto con il tempo si era indurito tanto, tanto che era impossibile ascoltare la voce del Signore. E da peccatori, sono scivolati, sono diventati corrotti. È tanto difficile che un corrotto riesca a tornare indietro. Il peccatore sì, perché il Signore è misericordioso e ci aspetta tutti. Ma il corrotto è fissato nelle sue cose, e questi erano corrotti. E per questo si giustificano, perché Gesù, con la sua semplicità, ma con la sua forza di Dio, dava loro fastidio. E, passo dopo passo, finiscono per convincersi che dovevano uccidere Gesù, e uno di loro ha detto: “È meglio che un uomo muoia per il popolo”. Questi hanno sbagliato strada. Hanno fatto resistenza alla salvezza di amore del Signore e così sono scivolati dalla fede, da una teologia di fede a una teologia del dovere: “Dovete fare questo, questo, questo…”. E Gesù dice loro quell’aggettivo tanto brutto: “Ipocriti! Tanti pesi opprimenti legate sulle spalle del popolo. E voi? Nemmeno con un dito li toccate! Ipocriti!”. Hanno rifiutato l’amore del Signore e questo rifiuto ha fatto sì che loro fossero su una strada che non era quella della dialettica della libertà che offriva il Signore, ma quella della logica della necessità, dove non c’è posto per il Signore. Nella dialettica della libertà c’è il Signore buono, che ci ama, ci ama tanto! Invece, nella logica della necessità non c’è posto per Dio: si deve fare, si deve fare, si deve… Sono diventati comportamentali. Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini. Gesù li chiama, loro, “sepolcri imbiancati”. (…). Questi (…) non capiscono la misericordia né la pietà. Invece, quel popolo che tanto amava Gesù, aveva bisogno di misericordia e pietà e andava a chiederla al Signore. (…)». Tratto da “Dio perdona i peccatori ma i corrotti no…” di Jorge Mario Bergoglio (Papa Francesco), pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 28 di marzo dell’anno 2014. 
 
StoriedallaPasqua”. Di seguito, “Il centurione. La lancia nel costato non basterebbe contro le fake news” di Stefano Massini pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” dell’8 di aprile 2023: Longino, ci insegnano, era il centurione che trafisse il costato di Cristo. Lo fece per avere la certezza che fosse morto sul serio, e che non servisse la consueta liturgia splatter di spezzare al condannato gli arti inferiori, che poi era il metodo sbrigativo dei boia per contrarre i tempi e non sforare l’orario di lavoro. Quella lancia fu insomma l’elettrocardiogramma piatto che sancì la fine del dead man walking del Calvario, e fino a qui diciamo che siamo nel perimetro della cronaca. A margine, si pone però anche il grande tema della verità, multiforme e opinabile, corrotta e plasmata, per cui già duemila anni fa, perfino nei Vangeli, si percepiva il pericoloso crinale che separa i fatti dalla versione dei fatti, e quindi occorreva un Longino che non da discepolo, ma dalle fila della controparte, ponesse a futura memoria quel sigillo autoptico che è «Egli era veramente il figlio di Dio!». Fermiamoci appunto su questo avverbio, “veramente”. Sosteneva P.T. Barnum, fondatore dello show-business, che nessuna miniera è più produttiva della capacità mitopoietica delle masse, pronte come non mai a coalizzarsi nel credere, più ancora che nell’agire (ed egli lo dimostrò, trionfalmente esibendo nel suo circo la sedicente balia di George Washington, che avrebbe avuto 160 anni). Avevi ragione, Barnum, noi umani accettiamo tutto, se nel patto solidale col gregge è stabilito che quella verità sia un recinto, un rifugio, un perimetro. E dunque ecco a voi la paradossale contraddizione del nostro centurione, che da un lato sul Golgota certificò la Verità, ma dopo un attimo diventò il simbolo perfetto della sua alterazione. Non solo il nome Longino è posticcio, ma tutta la sua rocambolesca vicenda è un romanzo da far invidia a Emilio Salgari: si narra che egli fosse un soldato cieco, i cui occhi - colpo di scena - guarirono all’istante appena fu investito in viso da quel famoso fiotto di sangue e acqua, dopodiché si convertì e diffuse la lieta novella, ma - colpo di scena - fu arrestato dai romani, che gli strapparono i denti e mozzarono la lingua, poi lo decapitarono esattamente mentre il prefetto aguzzino - colpo di scena - perdeva pure lui la vista, ma San Longino - colpo di scena - lo miracolò restituendogliela per intercessione. Questa è la leggenda che la devozione popolare ha inventato di sana pianta, intorno a colui che sul Calvario testimoniò la Verità affinché non inventassero di sana pianta. Ma non ci stupisce affatto, sprofondati come siamo nella melma russo-ucraina delle menzogne contrapposte e del bluff continuo, al punto tale da aver reso ormai questa guerra (anzi Operazione Speciale) un tedioso Carnevale in cui non ti fidi più di niente e di nessuno. È la sindrome di Bucha, in nome della quale l’avverbio “veramente” di Longino ha finito per mutarsi in “verosimilmente”, a scanso di equivoci e in attesa di una verifica che non verrà mai. Come avvenne un anno fa per quei cadaveri giustiziati e buttati per le strade, così se Gesù Cristo fosse morto nel 2023 leggeremmo online che era tutto finto. Prima ipotesi, l’Intelligenza Artificiale. Ormai Midjourney ci ha mostrato Trump con la tuta da galeotto come fosse vero, e allora cosa vuoi che sia ricreare un corpo in croce, ci riesce anche un dilettante con l’app giusta. Seconda ipotesi è la messinscena, figlia di quella dell’allunaggio. La croce? Ma per piacere, si vede a occhio nudo che era polistirolo. Il Golgota? Gira in rete che era solo un set. Il sangue? Succo di pomodoro. La corona di spine? Gomma. E quanto a quel centurione che dice «egli era veramente il figlio di Dio», sono pronto a scommettere che era un attore, proprio come lo era, ma sì, ma certo, quella donna incinta in fuga dall’ospedale bombardato dai russi. In un anno di guerra militare e mediatica abbiamo imparato ormai la lezione, e niente ci fa più sobbalzare, la catastrofe si è contratta nella sua teatralizzazione, e il dramma si è fatto drammatizzazione, guardiamo Bakhmut e Mariupol con il sorriso laico con cui si assiste ai numeri dei prestigiatori, arciconvinti che se ci impegnassimo scopriremmo senza dubbio il trucco, perché Putin è una caricatura da Gogol’ e quello Zelensky nasce proprio guitto. Già. Con l’aggravante che questo perenne tarlo del falso lo legittimiamo come antidoto alla propaganda, mentre è sintomo di qualcosa di molto più profondo, un rifiuto che scatta ogni volta che i decibel dell’orrore si fanno insostenibili, e pur di non sprecare fatica nella compassione, barriamo la casella della negazione. È anch’essa in fondo una forma di resurrezione, non divina ma squallidamente furba, per la quale morte e dolore li costringiamo a rinascere nella forma addomesticata e inoffensiva di un fake, deplorabile ma rassicurante. Evviva, è tutto finto, evviva, è tutto un copione. Quel Longino l’hanno scelto con un casting.

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