Sopra. "Il Polittico Averoldi" di Tiziano Vecellio (1490-1576).
«Che cosa possiamo sperare in un mondo così
piagato da guerre e violenze? Continuiamo ad avere negli occhi le terribili
immagini che ci arrivano dalla martoriata Ucraina, ma troppo spesso non ci
ricordiamo di altri conflitti dimenticati, di altri focolai di violenza, dei
tanti “pezzi” della Terza Guerra Mondiale che purtroppo stiamo vivendo. Oggi è
Pasqua, oggi per noi cristiani risorge il Principe della Pace, quel Gesù di
Nazaret che entrando nel Cenacolo dov’erano riuniti i suoi apostoli ancora
impauriti per averlo visto morire in croce ha detto loro: «Pace a voi!». Pace a
voi è l’augurio che ci scambiamo in questo giorno. Per dire veramente “no” alla
guerra e alla violenza, non basta soltanto far tacere le armi e fermare gli
aggressori. È necessario estirpare le radici delle guerre e delle violenze, che
sono il rancore, l’invidia, l’avidità. Mi piace che in questi giorni ci siano
dei media, come il vostro settimanale, che decidono di dare spazio e voce agli
operatori di pace. Perché bisogna avere il coraggio di “disarmare” i cuori, di
“smilitarizzarli”, di togliere il veleno e il risentimento. E bisogna anche
avere il coraggio di dire “no” al riarmo al quale stiamo purtroppo assistendo,
perché la vera pace non può nascere dalla paura. Ciò che serve è quello che
sessant’anni fa san Giovanni XXIII, nell’enciclica Pacem in terris, chiamava
«disarmo integrale»: al criterio dell’assenza di guerra che si regge
sull’equilibrio degli armamenti dobbiamo sostituire il principio che la vera
pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. Capisco che a qualche
orecchio queste parole possano sembrare utopistiche, specialmente in questo
momento. Ma non è utopia, è sano realismo: solo fermando la corsa agli
armamenti, che sottrae risorse da impiegare per combattere la fame e la sete e
per garantire cure mediche a chi non ne ha, potremo scongiurare
l’auto-distruzione della nostra umanità. È per questo che insieme agli auguri
di Buona Pasqua ripeto, con le parole del Nazareno Risorto: pace a voi!».
Appello alla “Pace” di Jorge Mario Bergoglio (Papa Francesco) riportato sul
settimanale “L’Espresso” – “Il disarmo
integrale non è un’utopia” – del 9 di aprile 2023.
“StoriedallaPasqua”. Di seguito, “Gesù di Nazareth. Il figlio del Padre che
dopo la morte non finì di danzare” di Stefano Massini pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” del 9 di aprile ultimo: Un giorno chiesero a Nureyev cosa
provava all’idea che, prima o dopo, avrebbe smesso di danzare. Pare che inaspettatamente
egli si concesse un ampio sorriso, prima di rispondere con assoluta certezza
che quell’addio avrebbe coinciso con l’attimo stesso dell’addio alla vita,
perché «solo la morte è la fine della danza». Confesso che ripensai subito a
queste parole, quando il 18 marzo 2022 lessi la notizia che Artyom Datsishin,
primo ballerino dell’Opera Nazionale d’Ucraina, era deceduto in un ospedale di
Kiev. Ed è una storia emblematica la sua, perché questo Roberto Bolle (aveva
pressappoco la sua età) fu gravemente ferito nel corso di uno dei primissimi
bombardamenti russi sulla capitale, ai nastri di partenza della mattanza che ha
prontamente convertito i bollettini sui morti Covid in bollettini sui caduti
civili e militari. Ricoverato in condizioni critiche, Datsishin ha resistito in
terapia intensiva per poche settimane, e infine, per dirla con Nureyev, ha
finito di danzare. Per cui, nella tabella giornaliera delle vittime di quel
giorno di marzo, rientra anche un +1 russo e un -1 ucraino che in termini numerici
se ne infischia di denotare un artista straordinario, capace di emozionare gli
altri esseri umani, abitarne la fantasia e illuminarne i vuoti con il raro
miracolo dell’armonia. Irrilevante. Irrilevante perché egli resta comunque 1
degli oltre 10.000 civili che hanno finito di danzare dall’inizio dell’ultima
guerra, irrilevante perché la morte è una ragioniera sulla cui calcolatrice
l’inventore della penicillina conta quanto il dottor Mengele, e d’altra parte
se un drone costa qualche milione di denaro pubblico, vogliamo fargli fare il
suo mestiere di ammazzarne il più possibile? La bara di un étoile è un danno
collaterale, spiacevole ma necessario, perché Mussolini insegna che «ci servono
alcune migliaia di morti per sedersi da vincitori al tavolo della pace». E
quindi requiem per un danzatore, basta, fine, capolinea. Anche Gesù di
Nazareth, esattamente come Artyom Datsishin, era candidato al «basta, fine,
capolinea». Anche lui giungeva allo strapiombo della morte con i suoi miracoli,
con parole straordinarie di una predicazione rivoluzionaria, ma ai fini
dell’abaco 1 conta 1, e la sua croce era destinata a mimetizzarsi fra le
migliaia di anonimi crocifissi ogni giorno nelle province romane, condannati da
innumerevoli Pilato su innumerevoli Golgota. Tanto per capirsi, pare che i due
ladroni che gli morirono accanto si chiamassero Gesta e Disma, ma io per primo
ne ignoravo i nomi: Gesta e Disma, come il profeta di Galilea, finirono di
danzare quel giorno sul Calvario, ma sono precipitati nell’oblio, nel vuoto,
sopraffatti nell’universale nevicata di cui Joyce si serve nei Dubliners come
metafora del volgere umano. Questo era previsto che accadesse, per il profeta
figlio di falegname che incantava le folle e guariva gli storpi, cosicché
qualcuno avrà pensato «lo eliminiamo e tempo qualche mese non se lo ricorda
nessuno», perché in fondo il potere fa così, usa la morte come una gomma da
cancellare, la flette a sinonimo di archiviazione, come ben dimostra quel
potente del Cremlino che il giorno stesso dell’omicidio di Anna Politkovskaja
avrebbe commentato «non so chi sia». Viceversa, in un giorno qualsiasi sotto
Tiberio, dopo l’ennesimo cadavere tirato giù e sistemato per il sonno eterno,
ecco che lo squallido copione si scardina del tutto, e a distanza di duemila
anni sia i credenti che gli scettici fanno ancora i conti con l’unico che dopo
la morte non finì di danzare. Ci sono, fra chiese e musei, incalcolabili quadri
e affreschi sulla Risurrezione, ma fra tutti io vorrei soffermarmi sul
polittico Averoldi, dipinto cinque secoli fa da Tiziano Vecellio: Gesù è
raffigurato con le braccia aperte, quasi si divertisse a mimare la posizione
del crocifisso senza più la croce, e si slancia sulla gamba sinistra sollevando
l’altra in aria, torcendo il busto, insomma la sua sembra davvero una danza. E
in quel danzare c’è il riscatto di tutto ciò che la morte ha tolto, sottratto o
interrotto agli uomini, c’è il ribaltarsi di tutto, con la bomba al tritolo che
fa esplodere di vita la città dei morti, il fosforo che brucia perché rianima e
l’uranio impoverito che squaglia definitivamente il countdown, quello che fa di
noi dei lavori in pelle alla Blade Runner. Ecco perché la Risurrezione di
Tiziano è formidabile, lo è nella misura in cui ci racconta un Cristo danzante
che è una liberazione, un oltraggio, una ribellione scandalosa, una Sagra della
primavera di Stravinskij. Alla fine sta tutta qui la potenza eversiva del
cristianesimo, ahimè cristallizzato in una liturgia che s’è fatta sclerosi, il
cui nucleo era e resta: io e voi non ci perderemo, nel tempo, come lacrime
nella pioggia. E Artyom Datsishin danzerà ancora.
Nessun commento:
Posta un commento