Ha
scritto Alessandro Robecchi in «Scandalo. I giovani non conoscono il “made
in Italy” e dicono “fuck you”» pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” di ieri, 5 di aprile 2023:(…). Da quel che si capisce, il
liceo del Made in Italy dovrebbe insegnare ai nostri ragazzi cosa è italiano e
cosa no, difenderci dalle contraffazioni cinesi, assaggiare vini, stagionare il
Parmigiano, servire a tavola e sorridere al momento della mancia, unico welfare
rimasto. Il dibattito è ricco e stimolante, e quindi non poteva mancare
l’illuminata analisi di Daniela Santanché (…): “In questi anni abbiamo avuto
una sinistra che ha invogliato i giovani a fare il liceo”; licei peraltro
moltiplicati da lady Moratti quand’era ministro dell’Istruzione di Berlusconi,
e poi realizzati da Mariastella Gelmini quand’era ministro dell’Istruzione di
Berlusconi. Una li ha pensati (i licei), una li ha istituiti, e poi la sinistra
(intendono il Pd, roba da matti, ndr) ha invogliato la gente ad andarci. Gira
la testa, eh? E questo è niente. Tenetevi forte. Come sempre quando la
questione si fa dura, più dura del comprendonio di Giorgia e Daniela, arrivano
i maestri di sostegno ad aggiungere complessità. Uno è l’ideuzzologo autarchico
Fabio Rampelli, con la sua nuovissima trovata – mai sentita, davvero inedita,
che sorpresa! – di dare multe qua e là a chi usa parole straniere (tipo “made
in Italy”, per dire, con cui hanno battezzato un ministero e vogliono creare un
liceo). L’altro è il cognato dell’agricoltura, ministro di Giorgia Meloni, che
sogna di mandare a zappare i giovani che prendevano il reddito di cittadinanza,
e ora non lo prendono più. Insomma, l’agricoltura italiana ha bisogno di
braccia, le braccia stanno attaccate a corpi posteggiati sui divani, bisogna
che si alzino e vadano a raccogliere le arance, mentre gli studenti del liceo
Made in Italy controllano che i divani siano veramente italiani e non, che so,
costruiti in Belgio o in Albania. Il segreto obiettivo di tutta questa frenesia
riformista che la destra italiana lancia sul mercato delle scempiaggini –
mercato in grande espansione – sarebbe quello di recuperare un’egemonia
culturale, rispolverando tradizioni e italianità là dove ancora si possono
trovare. Spezzare le reni alla farina di grilli e inchiodare sul bagnasciuga
due bistecche sintetiche, magari con otto milioni di cotolette, riporterebbe in
alto i cuori. Anche affollare le bidonvilles della piana di Rosarno con
raccoglitori ex-fancazzisti non sarebbe male. Per non dire del ritrovato
rispetto della nostra amata lingua, oggi così lordata dal “forestierismo”
(sic), per cui molti giovani – sbagliando – preferiscono rifugiarsi in un “fuck
you”, aglofono e globalista, invece dell’italianissimo, volitivo e maschio
“vaffanculo”. Di seguito, “L’istruzione
è il potere del popolo” di Concita De Gregorio, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del 26 di marzo ultimo: Voltando le spalle al palco si illumina la
platea: a spettacolo finito applaude o fischia, decreta il successo o la
debacle di chi è di scena. La chiave di ogni cosa è sempre lì, nel consenso. Se
ci sia o non ci sia è evidente, si misura – in politica, per esempio – in
numero di voti. La questione non è se arrivi o meno l’applauso ma perché: cosa
determini il gradimento, o il dissenso, o l’indifferenza. A ogni passo, per
ogni cosa. Sul tema dell’antifascismo, per esempio. È evidente che la
presidente del consiglio faccia fatica a pronunciare la parola, prima ancora a
pensarla come radice del presente. È ovvio, è coerente con la sua proposta. (…).
Cancellare pezzi di storia è quel che fanno tutti coloro che vogliono scriverne
una nuova: dimenticano quello che sono, diventano chi vorrebbero essere. Lo
facciamo talvolta persino nelle nostre private esistenze, ma c’è sempre
qualcuno che presto o tardi ci riporta alla realtà. Un testimone del passato,
un figlio di quella storia, chi la conosca e dica: ehi, scusa, ti sbagli.
Guarda che hai dimenticato un pezzo. Il problema si pone quando quel testimone,
quel figlio, quel qualcuno non c’è: quando in platea non c’è più nessuno che
abbia consapevolezza di quel che è stato. Che sappia valutare il presente con
gli strumenti del sapere, che non si faccia persuadere da una performance ben
riuscita se fondata sull’inganno. Che sappia togliere la maschera a chi ne
indossa una. Perciò, alla fine, si torna sempre alla conoscenza. L’unico potere
di cui disponiamo noi che non ne abbiamo in dote altri: né le famiglie
(biologiche o politiche, accademiche o di clan) né i denari guadagnati dai
padri, né le terre dei signori. L’istruzione è il potere del popolo. Chi avesse
letto Gramsci, anche un compendio scolastico, potrebbe ricordare la famosa
esortazione. Si torna sempre alla scuola. Pubblica gratuita universale. La
scuola architetto di democrazia. La scuola che ci mette tutti quanti allo
stesso livello, tutti in grado di dire e disdire: ma non al grado zero della
conoscenza, quello è facile. È terribilmente facile e colpevole denigrare la
funzione del sapere: trasformare i cittadini in sudditi serve a chi esercita il
potere. Meno sanno più facile sarà dar loro in pasto un inganno. Difficile è
costruire un mondo in cui tutti abbiano accesso ai gradi alti del sapere. È faticoso
e pericoloso per chi governa, se il suo obiettivo è mantenere il consenso,
saldo il posto. Del resto essere autorevoli ed essere autoritari sono
condizioni molto diverse: la prima è fondata sulla conoscenza e la seconda
sulla forza, e la forza sempre si esercita quando le ragioni del dialogo sono
sconfitte. La scuola, dunque. Ripartire da qui: qualcosa nel passaggio di
consegne fra generazioni non ha funzionato. Qualcosa è davvero andato storto.
L’Italia ha avuto per decenni le scuole migliori del mondo. Gli asili nido, si
chiamavano allora: venivano dall’America e dal Giappone a studiare quelli di
Reggio Emilia. Le scuole di infanzia, le elementari e le medie, la scuola
dell’obbligo. Ha avuto, l’Italia, Don Milani e Maria Montessori: la scuola
capace di educare accogliendo le differenze, aspettando chi va meno veloce,
dando a ciascuno ciò di cui aveva bisogno. Non era autoritaria, quella scuola.
Era democratica e autorevole. Ha fatto l’Italia ricostruendola dalle macerie.
Salto, scusate, molti anni e vengo alle cronache di oggi. Quasi ogni giorno
leggiamo di un insegnante denunciato per aver violato gli odierni codici del
rispetto della privacy, la presunta “integrità morale del fanciullo”. (…).
Giorni fa in un liceo di Roma un ragazzo ha gettato una lavagna in cortile, dal
terzo piano. L’insegnante gli ha detto “è un comportamento da subnormale”. Non
ha detto lo sei, ha detto è un comportamento da. C’è un’enorme differenza fra
dire sei un cretino e dire ti comporti da cretino. Il ragazzo ha chiamato la
famiglia, la famiglia ha protestato con la preside, la preside ha redarguito
l’insegnante. Quasi ogni giorno leggiamo di professori aggrediti fisicamente,
picchiati da genitori che protestano per un brutto voto, un rimprovero. Da
quando i genitori difendono i figli dall’educazione anziché augurarsi che ne
abbiano una? Ricordavo l’altro giorno a una platea di ragazzi che Enea in fuga
dalla città in fiamme portava sulle spalle il padre, non il figlio. Ai figli
basta indicare la strada, che poi la percorrano da soli come vogliono e come
possono. In diversi hanno risposto eh, sì, ma non è che i vecchi abbiano sempre
ragione: gli insegnanti ci vessano, non rispettano le nostre diversità, ci
chiudono in gabbie e ci stressano con le loro regole. È così? Non lo so, non è
dato sapere di tutti. Ci saranno certo rigidità, in qualche caso. Ma è
stressante imparare un verso, una formula a memoria? Chiedo alle famiglie.
Quale altro modo esiste, a parte il Superenalotto, di ottenere qualcosa senza
fatica? Il problema della scuola sono oggi certo gli insegnanti mal pagati,
male utilizzati, forse anche mal selezionati. Certamente screditati. Ma è anche
un sentire comune che ci riguarda tutti. Proteggere i propri figli non
significa evitar loro le frustrazioni ma insegnare ad attraversarle. In un caso
li si infragilisce, in un altro li si rafforza. Certo, sempre nell’ascolto
delle diverse condizioni di partenza: ma eliminare gli ostacoli non è la soluzione.
Tornando al consenso, alla cittadinanza, alla salute di una democrazia. Sapere
cosa siano state le Fosse ardeatine – saperlo bene, saperlo tutti –
eliminerebbe di colpo la consueta becera e ormai stanca discussione da stadio
sulla parola antifascismo. A saperlo, non ci sarebbe proprio niente da
discutere.
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