"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 6 aprile 2023

ItalianGothic. 37 Concita De Gregorio: «Denigrare la funzione del sapere: trasformare i cittadini in sudditi».

Ha scritto Alessandro Robecchi in «Scandalo. I giovani non conoscono il “made in Italy” e dicono “fuck you”» pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, 5 di aprile 2023:(…). Da quel che si capisce, il liceo del Made in Italy dovrebbe insegnare ai nostri ragazzi cosa è italiano e cosa no, difenderci dalle contraffazioni cinesi, assaggiare vini, stagionare il Parmigiano, servire a tavola e sorridere al momento della mancia, unico welfare rimasto. Il dibattito è ricco e stimolante, e quindi non poteva mancare l’illuminata analisi di Daniela Santanché (…): “In questi anni abbiamo avuto una sinistra che ha invogliato i giovani a fare il liceo”; licei peraltro moltiplicati da lady Moratti quand’era ministro dell’Istruzione di Berlusconi, e poi realizzati da Mariastella Gelmini quand’era ministro dell’Istruzione di Berlusconi. Una li ha pensati (i licei), una li ha istituiti, e poi la sinistra (intendono il Pd, roba da matti, ndr) ha invogliato la gente ad andarci. Gira la testa, eh? E questo è niente. Tenetevi forte. Come sempre quando la questione si fa dura, più dura del comprendonio di Giorgia e Daniela, arrivano i maestri di sostegno ad aggiungere complessità. Uno è l’ideuzzologo autarchico Fabio Rampelli, con la sua nuovissima trovata – mai sentita, davvero inedita, che sorpresa! – di dare multe qua e là a chi usa parole straniere (tipo “made in Italy”, per dire, con cui hanno battezzato un ministero e vogliono creare un liceo). L’altro è il cognato dell’agricoltura, ministro di Giorgia Meloni, che sogna di mandare a zappare i giovani che prendevano il reddito di cittadinanza, e ora non lo prendono più. Insomma, l’agricoltura italiana ha bisogno di braccia, le braccia stanno attaccate a corpi posteggiati sui divani, bisogna che si alzino e vadano a raccogliere le arance, mentre gli studenti del liceo Made in Italy controllano che i divani siano veramente italiani e non, che so, costruiti in Belgio o in Albania. Il segreto obiettivo di tutta questa frenesia riformista che la destra italiana lancia sul mercato delle scempiaggini – mercato in grande espansione – sarebbe quello di recuperare un’egemonia culturale, rispolverando tradizioni e italianità là dove ancora si possono trovare. Spezzare le reni alla farina di grilli e inchiodare sul bagnasciuga due bistecche sintetiche, magari con otto milioni di cotolette, riporterebbe in alto i cuori. Anche affollare le bidonvilles della piana di Rosarno con raccoglitori ex-fancazzisti non sarebbe male. Per non dire del ritrovato rispetto della nostra amata lingua, oggi così lordata dal “forestierismo” (sic), per cui molti giovani – sbagliando – preferiscono rifugiarsi in un “fuck you”, aglofono e globalista, invece dell’italianissimo, volitivo e maschio “vaffanculo”. Di seguito, “L’istruzione è il potere del popolo” di Concita De Gregorio, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 26 di marzo ultimo: Voltando le spalle al palco si illumina la platea: a spettacolo finito applaude o fischia, decreta il successo o la debacle di chi è di scena. La chiave di ogni cosa è sempre lì, nel consenso. Se ci sia o non ci sia è evidente, si misura – in politica, per esempio – in numero di voti. La questione non è se arrivi o meno l’applauso ma perché: cosa determini il gradimento, o il dissenso, o l’indifferenza. A ogni passo, per ogni cosa. Sul tema dell’antifascismo, per esempio. È evidente che la presidente del consiglio faccia fatica a pronunciare la parola, prima ancora a pensarla come radice del presente. È ovvio, è coerente con la sua proposta. (…). Cancellare pezzi di storia è quel che fanno tutti coloro che vogliono scriverne una nuova: dimenticano quello che sono, diventano chi vorrebbero essere. Lo facciamo talvolta persino nelle nostre private esistenze, ma c’è sempre qualcuno che presto o tardi ci riporta alla realtà. Un testimone del passato, un figlio di quella storia, chi la conosca e dica: ehi, scusa, ti sbagli. Guarda che hai dimenticato un pezzo. Il problema si pone quando quel testimone, quel figlio, quel qualcuno non c’è: quando in platea non c’è più nessuno che abbia consapevolezza di quel che è stato. Che sappia valutare il presente con gli strumenti del sapere, che non si faccia persuadere da una performance ben riuscita se fondata sull’inganno. Che sappia togliere la maschera a chi ne indossa una. Perciò, alla fine, si torna sempre alla conoscenza. L’unico potere di cui disponiamo noi che non ne abbiamo in dote altri: né le famiglie (biologiche o politiche, accademiche o di clan) né i denari guadagnati dai padri, né le terre dei signori. L’istruzione è il potere del popolo. Chi avesse letto Gramsci, anche un compendio scolastico, potrebbe ricordare la famosa esortazione. Si torna sempre alla scuola. Pubblica gratuita universale. La scuola architetto di democrazia. La scuola che ci mette tutti quanti allo stesso livello, tutti in grado di dire e disdire: ma non al grado zero della conoscenza, quello è facile. È terribilmente facile e colpevole denigrare la funzione del sapere: trasformare i cittadini in sudditi serve a chi esercita il potere. Meno sanno più facile sarà dar loro in pasto un inganno. Difficile è costruire un mondo in cui tutti abbiano accesso ai gradi alti del sapere. È faticoso e pericoloso per chi governa, se il suo obiettivo è mantenere il consenso, saldo il posto. Del resto essere autorevoli ed essere autoritari sono condizioni molto diverse: la prima è fondata sulla conoscenza e la seconda sulla forza, e la forza sempre si esercita quando le ragioni del dialogo sono sconfitte. La scuola, dunque. Ripartire da qui: qualcosa nel passaggio di consegne fra generazioni non ha funzionato. Qualcosa è davvero andato storto. L’Italia ha avuto per decenni le scuole migliori del mondo. Gli asili nido, si chiamavano allora: venivano dall’America e dal Giappone a studiare quelli di Reggio Emilia. Le scuole di infanzia, le elementari e le medie, la scuola dell’obbligo. Ha avuto, l’Italia, Don Milani e Maria Montessori: la scuola capace di educare accogliendo le differenze, aspettando chi va meno veloce, dando a ciascuno ciò di cui aveva bisogno. Non era autoritaria, quella scuola. Era democratica e autorevole. Ha fatto l’Italia ricostruendola dalle macerie. Salto, scusate, molti anni e vengo alle cronache di oggi. Quasi ogni giorno leggiamo di un insegnante denunciato per aver violato gli odierni codici del rispetto della privacy, la presunta “integrità morale del fanciullo”. (…). Giorni fa in un liceo di Roma un ragazzo ha gettato una lavagna in cortile, dal terzo piano. L’insegnante gli ha detto “è un comportamento da subnormale”. Non ha detto lo sei, ha detto è un comportamento da. C’è un’enorme differenza fra dire sei un cretino e dire ti comporti da cretino. Il ragazzo ha chiamato la famiglia, la famiglia ha protestato con la preside, la preside ha redarguito l’insegnante. Quasi ogni giorno leggiamo di professori aggrediti fisicamente, picchiati da genitori che protestano per un brutto voto, un rimprovero. Da quando i genitori difendono i figli dall’educazione anziché augurarsi che ne abbiano una? Ricordavo l’altro giorno a una platea di ragazzi che Enea in fuga dalla città in fiamme portava sulle spalle il padre, non il figlio. Ai figli basta indicare la strada, che poi la percorrano da soli come vogliono e come possono. In diversi hanno risposto eh, sì, ma non è che i vecchi abbiano sempre ragione: gli insegnanti ci vessano, non rispettano le nostre diversità, ci chiudono in gabbie e ci stressano con le loro regole. È così? Non lo so, non è dato sapere di tutti. Ci saranno certo rigidità, in qualche caso. Ma è stressante imparare un verso, una formula a memoria? Chiedo alle famiglie. Quale altro modo esiste, a parte il Superenalotto, di ottenere qualcosa senza fatica? Il problema della scuola sono oggi certo gli insegnanti mal pagati, male utilizzati, forse anche mal selezionati. Certamente screditati. Ma è anche un sentire comune che ci riguarda tutti. Proteggere i propri figli non significa evitar loro le frustrazioni ma insegnare ad attraversarle. In un caso li si infragilisce, in un altro li si rafforza. Certo, sempre nell’ascolto delle diverse condizioni di partenza: ma eliminare gli ostacoli non è la soluzione. Tornando al consenso, alla cittadinanza, alla salute di una democrazia. Sapere cosa siano state le Fosse ardeatine – saperlo bene, saperlo tutti – eliminerebbe di colpo la consueta becera e ormai stanca discussione da stadio sulla parola antifascismo. A saperlo, non ci sarebbe proprio niente da discutere.

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