“Omaggio a Sebastiao Salgado”. Tratto da “Chiudere il cerchio”, intervista di Michele Smargiassi a Sebastiao Salgado pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 31 di marzo 2023:
Ci vuole una volontà per questo, un progetto, no? «In realtà, guardandomi indietro, penso di aver colto una grande occasione per legare la mia vita al momento storico che stavo vivendo. Ho avuto una grande fortuna, nascere dove sono nato. Sono nato nel 1944 in una fattoria del Minas Gerais, lontana da tutto, ci volevano otto ore a cavallo per raggiungere la città più vicina, se vogliamo chiamarla città... Avevo sette sorelle, due più giovani e cinque più grandi, ero l'unico maschio, mio padre voleva che studiassimo tutti, era una cosa molto costosa e la fattoria non dava abbastanza reddito. Era più conveniente vendere la fattoria e comprarne una più vicina alla città, cosa che fece nel 1949. Ricordo perfettamente il giorno in cui dalla fattoria arrivammo in città, con tutte le nostre cose sul cassone del camion. Avevo cinque anni. Fu uno sbarco su un altro pianeta, ero estasiato. Sulla strada che facevo per andare a scuola c'era un'officina dove si trasformavano i camion che dovevano trasportare i lunghissimi tronchi di legno, era l'inizio della grande deforestazione, per fabbricare i vostri mobili, i vostri pavimenti... Lì aspiravo odori che non avevo mai sentito, un misto di gomma di pneumatici, di gasolio, era l'odore dell'industria, era l'odore del mondo di fuori. Poi c'era l'odore del pane, in Brasile c'è poca farina di grano, prima mangiavamo mais, non avevo mai sentito l'odore di quel pane che un uomo portava a casa nostra in un cesto, era un pane meraviglioso, con un profumo meraviglioso, eccitante...».
Un uomo di visioni ricorda odori: è curioso, non crede? «E i suoni! Mio padre possedeva l'unica radio della zona. Eravamo così isolati... Funzionava con batterie che dovevano essere mandate in città a ricaricare ogni settimana, proprio con quei camion di legname. La radio si ascoltava solo la domenica, e quella meravigliosa musica che veniva da chissà dove, mi diceva che c'era un mondo oltre la nostra enorme fattoria. Musica, odori sono stati lamia scoperta del nuovo mondo. Avevo una grande voglia di scoprirlo. Un giorno si ammalò uno zio, a Belo Horizonte, ci volevano due giorni di treno, mia madre andò e mi portò con sé. Partenza alle dieci di mattina, si cambiava di notte. Alle cinque di mattina, da buon contadino, ero sveglio e dal finestrino vidi un paesaggio incredibile, grandi edifici, ciminiere che emettevano fuoco, e mia madre disse: Sebastiào, vedi, tutti gli attrezzi di metallo della nostra fattoria vengono da qui, da queste fabbriche. Il treno ci passava in mezzo, mi sembrava una cattedrale con i suoi fuochi sacri, potevo vedere uomini completamente vestiti di amianto che colavano il metallo, era un mondo lunare, e io pensavo incredulo: dunque è da qui che viene la lama del coltellino che ho in tasca».
La modernità è stata una scoperta entusiasmante, per l'uomo che ha voluto fotografare l'origine del mondo? «Al punto che a quindici anni volevo diventare un pilota d'aereo. La guerra mondiale era ancora recente, in Brasile si narravano le gesta dei nostri piloti che avevano combattuto con gli Alleati, qui in Italia, a Cassino. Mi preparai al concorso di ammissione nell'aviazione, studiai con passione. Il concorso era a Rio de Janeiro, non c'ero mai stato, andai con un amico, mi ospitò una sorella che viveva là. Alla prova d' esame c'erano migliaia di candidati. Pensavo: uno o due giorni e sarò pilota. Macché: per gli esiti ci volevano almeno dieci giorni. Al terzo giorno pensai a mia madre. Così lontana. Al quinto presi un bus e tornai a casa. Quando aprii la porta della fattoria c'era mia mamma, mi vide le corsi incontro, ah... (…). Avevo scoperto due cose: di avere una mamma, e che le cose nella vita non sono stabili, possono cambiare».
E l'esame? «Mai saputo se lo superai o no».
Fu una rinuncia a vedere il mondo? «No, ma imparai che il mondo devi scoprirlo lentamente, passo dopo passo, accumulando cose. Ecco la mia grande opportunità: nascere in un luogo isolato e partire da lì. Meravigliarsi ogni volta. Il telefono lo scoprii a Vitoria, quando mi iscrissi alle superiori e vivevo in una repubblica, una piccola comunità di ragazzi. Un amico mi passò la cornetta, sentii una voce, mi paralizzai, sudavo, la restituii senza dire parola».
Dopo molti anni, lei è tornato nel luogo da cui era partito. Perché? «Chi lo sa. Chiudere un cerchio, forse. Non era un bel momento per me. Avevo fatto le fotografie del genocidio in Ruanda, un lavoro che mi aveva duramente provato. Stavo preparando In cammino, il lavoro sui migranti, molto faticoso. Ero sul punto di abbandonare la fotografia, volevo tornare in Brasile. I miei genitori erano vecchi. Trovai la fattoria completamente devastata, ma non solo quella. Tutta la regione era in decadimento. La foresta atlantica era quasi ovunque sparita. Era iniziato il grande sfruttamento "per costruire un Brasile moderno". Fu Lélia, mia moglie, ad avere l'idea: ripiantiamola».
Tornare alle origini, ricominciare...? «Amo quella fattoria, la conosco come le linee della mia mano. Da ragazzino l'ho percorsa tutta a piedi, perché il sabato e la domenica non potevo avere il cavallo».
Avete ripiantato due milioni di alberi. «Tre, al momento. E non è così facile come dirlo. Piantare una foresta significa rispettare lunghe tappe, devi piantare prima gli alberi pionieri che arricchiscono il terreno e fanno ombra, lasciarli lavorare per anni. Solo adesso, ventidue anni dopo, possiamo cominciare a piantare gli alberi che ci sopravviveranno, per cento o cinquecento anni. Intanto sono tornati gli animali. Abbiamo contato 173 specie di uccelli. Anche i mammiferi e gli insetti sono tornati. Si è visto perfino il giaguaro, e questo vuol dire che la catena alimentare si è ricomposta».
Che cosa volevate dimostrare? «Avevamo la possibilità di ricostruire una foresta e l'abbiamo fatto. All'inizio degli anni Novanta si risvegliava la coscienza ambientalista, ma noi non eravamo attivisti, volevamo solo riavere la nostra foresta. Per farlo però avevamo bisogno di un vivaio, di specialisti, scienziati, tecnici... Da loro cominciammo a capire che era qualcosa di essenziale, cominciammo a sistematizzare. Oggi sì, posso dire che siamo ambientalisti. Non attivisti: un attivista combatte contro qualcosa, io non combatto, costruisco. Avevo paura di essere troppo radicale. Invece di creare collaborazioni temevo di creare una singola resistenza. Per questo abbiamo allargato il progetto, abbiamo associato tremila contadini. Ora l'Instituto Terra è la più grande istituzione rurale del Brasile. La nostra prossima sfida è l'acqua, ricostruire i sistemi idrici naturali della valle, le sorgenti e i corsi d'acqua. Per capirci: la nostra valle è grande come il Portogallo».
Ma si possono fare grandi progetti in un Paese in bilico fra libertà e dittatura? «Il mio Paese ha sofferto una intera catena di dittature. Io avevo 25 anni, Lélia 22, eravamo militanti politici di sinistra, se non fossimo fuggiti ci avrebbero arrestati, torturati. Siamo stati undici anni in esilio in Francia... Quando tornammo, nel '79, era la fine della dittatura, i sindacati si riformavano, è lì che Lula cresceva e diventava un leader».
Ha fiducia adesso? «No, non molta, ma non penso solo al Brasile. Non siamo diversi dal resto del mondo, ci sono ritorni di governi fascisti ovunque. Non crediamo di esserci liberati di Trump. E ora siete voi in Italia ad avere un problema. Il mondo sta vivendo un momento molto pericoloso. Ma tutto questo dipende da un problema ancora più grande: quale futuro vogliamo per la nostra specie e il pianeta. Tutto quello che sta accadendo dipende da questo».
Perché sceglieste la Francia? «Gran parte degli intellettuali brasiliani del Novecento guardavano alla cultura francese, la costituzione brasiliana è modellata su quella francese, le correnti ideali come il positivismo ebbero grande impatto da noi, il francese è la prima lingua straniera insegnata a scuola. Ogni grande città ha una sede dell'Alliance Française... Così, quando presi la mia laurea a San Paolo ed ebbi l'opportunità di un dottorato in una grande università americana, scelsi la Francia».
Anche oggi lei vive tra Parigi e il Brasile. Si sente un uomo del Sud o del Nord del mondo? «Sono una mescolanza di tutto questo. Sono intriso di cultura francese come di cultura sudamericana, ma anche di cultura africana... L'Africa è il mio secondo Brasile. Guarda il mappamondo: si vede benissimo che 150 milioni di anni fa Africa e Sudamerica erano unite, trovi gli stessi minerali, le stesse specie botaniche sui due lati dell'Atlantico. La deportazione di milioni di schiavi africani in Brasile poi ha mescolato le culture...».
L'Africa però la stava stroncando. Ebbe una crisi, dovette curarsi. «Nella terribile carestia del Sahel vidi cose orribili. Mi entrò la morte dentro. Arrivò un momento in cui mi dissi: non posso più tornare in Africa. Però sono sempre tornato. L'Africa è per me il continente più complesso, più sofisticato. Ho cominciato a fotografare in Africa, è lì che capii di essere un fotografo e non un economista o un funzionario di organizzazioni internazionali. Adattai la mia mente. Ho messo la mia vita in gioco in Africa. Ho anche dovuto adattare le mie tecniche... Le emulsioni delle pellicole fotografiche sono nate nel Nord, non erano adatte a cogliere le sfumature della pelle nera e la luce dura dell'Africa. Se esponi normalmente ottieni occhi troppo bianchi e volti troppo scuri. Ho dovuto imparare da zero come esporre e sviluppare per avere le sfumature, i dettagli di quei volti».
Che cos'è la fotografia per lei, dopo tanti anni? Linguaggio, vocazione, strumento, arte? «Un modo di vivere. Sicuramente anche un linguaggio, che ho scoperto tardi, quando ero già un uomo maturo. La prima fotografia la feci nel 1970 ed era un ritratto di Lélia, con la macchina fotografica che lei aveva comprato per il suo lavoro in architettura. Mi conquistò. Capii immediatamente che la fotografia mi permetteva di materializzare in una visione quello che ritenevo importante».
Già, ma che cosa è importante? «Prima di tutto ciò che senti, pensi, immagini, e la fotografia ti rende possibile trasformare tutto questo in qualcosa che puoi vedere, in una magica frazione di secondo. Quando lo scoprii, la mia vita cambiò. Abbandonai qualsiasi cosa e mi tuffai nella fotografia. Le sono grato. Mi ha permesso di liberare i miei sogni, di visitare 130 paesi del mondo, mi ha obbligato a immergermi nella vita delle persone. Ricordo quando venni a Trapani a fotografare la mattanza del tonno. Appena arrivato mi dissero: domattina alle cinque si parte, pensavo fosse una cosa veloce. Passammo 53 giorni in mare, il pesce c'era ma non entrava nelle reti. Niente fotografie. Ma così ho vissuto coi pescatori, ho visto preparare le barche, avuto il tempo di conoscere le loro famiglie, i bambini, mangiato con loro. Questo vale più di una immagine. E mi è successo quasi in ogni storia. Io metto tutta la mia vita in ogni storia».
E tutta la storia in ogni libro? «Vedi, in questa mostra ad esempio, Amazonia, ci sono 250 immagini. Ora, io scatto quasi sempre a un centoventicinquesimo di secondo. Quindi tutte le fotografie di questa mostra sommate fanno due secondi nella storia del mondo. Ma per ottenerle ho speso nove anni della mia vita. Preparare, viaggiare, conoscere persone, attendere autorizzazioni, camminare, aspettare, parlare, montare attrezzature... Tutto per una sola frazione di secondo, che deve essere perfetta, e allora devi essere all'altezza, la luce deve essere giusta, la composizione impeccabile, perché ti giochi tutto in una frazione di secondo. Sei così coinvolto che appena finisci devi stenderti, riposarti l'anima».
In tutto questo, che ruolo ha Lélia Wanick, sua moglie? «L'anno prossimo saranno sessant'anni di vita e lavoro insieme. No, non ci sarebbe Salgado senza Lélia, sarebbe un Salgado diverso. Lavoro e vita non sono mai state due cose diverse per noi. Non è solo la persona che amo, è una comunione, ci siamo costruiti assieme. Quando ci incontrammo aveva sedici anni, io ero segretario dell'Alliance Française e lei lavorava lì, era una delle più belle ragazze che avessi mai visto. Eravamo bambini, ma era favolosa. Il direttore capì tutto e mi disse: non la lascerai mai, credimi, è per tutta la vita. Aveva ragione. Lélia ha un gusto sofisticato, un'enorme capacità di lavoro e può controllare una quantità di variabili nello stesso tempo, è logica, precisa, sa come mettere assieme le immagini, graficamente e ideologicamente. Eravamo senza soldi, quando trovammo casa a Parigi brindammo con una bottiglia di birra, progettammo la nostra vita e l'abbiamo realizzata. Abbiamo vinto, abbiamo vinto insieme».
Quanto conta la famiglia per lei? «Abbiamo due figli, Juliano ha realizzato il film Il sale della terra, con Wim Wenders. Rodrigo ha la sindrome di Down, e questo ha cambiato la mia vita, anche la mia fotografia, mi ha fatto vedere la società da un altro punto di vista. Ho visto cos'è un mondo di silenzio. Sì, devi avere una base, e la base è stata la mia famiglia. La cosa più bella in tutti i miei viaggi era sempre l'ultimo taxi, quello che dall'aeroporto mi portava a casa. Una volta tornai da Bruxelles con un charter a N ewYork, e poi con un piccolo aeroplano verso il Brasile, ci furono dei problemi, atterrammo da un'altra parte, Lélia fece 350 chilometri in macchina per venirmi a prendere, ci fermammo in un alberghetto per fare l'amore. Non so dove finisco io e comincia lei».
Genesi è un poema sulla coscienza di specie. È questa la nuova frontiera della politica? «Siamo animali politici, tutti noi umani. Per me la vera intelligenza della nostra specie è la capacità di adattamento. Quando ero fotogiornalista per le agenzie Gamma e Sygma seguii molte guerre. Nei primi momenti avevo sempre molta paura, non avevo più saliva in bocca, poi dopo due o tre giorni mi sentivo a casa, completamente adattato al pericolo, alle pallottole, alle esplosioni».
Significa che ci adatteremo anche al disastro climatico? «Questo è il problema! Siamo governati da una intelligenza adattativa che però può condurci alla nostra fine. Siamo colpiti da tempeste che non avevamo mai visto prima, distruzioni, questa settimana una pioggia catastrofica ha ucciso persone a San Paolo, come in Francia l'anno scorso, però ci sono comunità che possono bere solo se arriva l'autobotte. Bene, ci adattiamo, questo è il nostro problema. Facciamo leggi che sembrano avanzate e poi basta una guerra e ci scordiamo tutto, perché quel che ci importa veramente è conservare il nostro livello di vita e di consumi. E questo ci rende aggressivi, siamo animali duri. A parole tutti vogliono la pace ma ci comportiamo come guerrieri. Guarda questa guerra, dimmi quale politico o quale giornale in Europa invoca veramente un accordo di pace, nessuno, tutti vogliono la guerra. L'unico che parla di pace è Lula, l'unico che si rende conto che il mondo ricco sta giocando col pianeta».
Il mondo è orribile. Ma l'accusa di averlo estetizzato le pesa ancora? «(…). Cosa significa estetizzazione? La fotografia è un linguaggio inevitabilmente estetico. È un linguaggio formale. Qualsiasi fotografia è estetica. Ma la gente qui da voi arriccia il naso, pensa che il brutto dovrebbe essere rappresentato in modo brutto. Ma la bellezza non è una proprietà esclusiva della bella gente nel Nord del pianeta. Non è una proprietà privata dei ricchi. Tutto il mondo è bello, tutti gli umani sono belli, il contenuto della bellezza è la dignità. Perché le mie fotografie appaiono belle? Non perché hanno le luci giuste e la composizione perfetta, sono le persone che fotografo che le rendono belle, è la loro dignità di esseri umani».
Critiche che arrivano spesso da altri fotografi... «Quelli che fotografano il loro senso di colpa. Sanno che è la loro società che ha aggredito l'altra parte del mondo. E ancora oggi detta le regole e i prezzi del loro lavoro. Fotografano con la loro cattiva coscienza. Io non ho paura della bellezza della mia parte del pianeta».
Genesi, Esodo... Dio sembra incombere sul suo lavoro. «Ho studiato dai Salesiani ma non sono credente. Le parole che ho usato non appartengono solo alla Bibbia. La Bibbia le ha trovate proprio là dove le ho trovate io. Genesi è l'inizio, tutto ha un inizio, io ho cercato l'inizio... Esodo significa abbandono, partenza, io ho seguito gli uomini in cammino... Se c'è un dio, e probabilmente esiste, è l’evoluzione, e Darwin è il suo profeta. La costruzione di tutto il pianeta è evoluzione, per Amazonia ho camminato in un paradiso, lungo i sentieri dell'evoluzione, assieme a popoli che vivevano come diecimila anni fa, sono tornato nella preistoria vivente dell'uomo, eppure ho visto che ci somigliamo, quasi in tutto... Forse i piedi, ecco: noi abbiamo perso l'uso delle dita dei piedi, loro le usano per arrampicarsi... Ma al di là di questo siamo la stessa gente. Possiamo ancora farcela».
Qualche anno fa, in un'intervista, mi confessò il timore di essere uno degli ultimi fotografi. Cosa verrà dopo? «In realtà ho cambiato idea, ho visto molte altre cose da quell'intervista. Non è finita la fotografia, certo non è più la stessa cosa. Questo (mi prende dalle mani il cellulare, ndr) ha trasformato la fotografia in un mezzo di comunicazione fra le persone, benissimo, ma la fotografia è ancora e soprattutto memoria. Ti racconto questa cosa. Il sindaco di La Courneuve, dintorni di Parigi, mi ha chiesto un incontro, mi ha portato 200 fotografie che avevo fatto 45 anni fa nel suo comune, io neanche le ricordavo più. È un paese di immigrazione, nato per ospitare i reduci dall'Algeria dopo la decolonizzazione, poi arrivarono migranti dal Nord Africa e dal resto del mondo. Ma i palazzoni che fotografai allora, con tutti i loro problemi sociali, non sono più così, quei problemi sono dimenticati. Per me è stata una rivelazione. Allora è vero, c'è qualcosa che solo la fotografia sa conservare. La fotografia è una sezione trasversale della vita di una comunità, quando fotografi conservi per il futuro quel momento cruciale. No, cambieranno gli strumenti, ma per fortuna ora sono più sereno: non sarò l'ultimo fotografo della storia».
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