“
La
Magiadel
Cinema”. Da domani
“Il sol dell’avvenir” di Nanni Moretti
sarà nelle sale cinematografiche d’Italia. Ha scritto Alberto Crespi in
“Ecce Nanni! Politica e amore nel
film-sogno che vale una vita” di Alberto Crespi pubblicato sul quotidiano
“la Repubblica” di oggi, mercoledì 19 di aprile 2023:
Il sole dell'avvenire, (…), ha un
difetto: dura solo 95 minuti, e se ne vorrebbe di più. Perché non è solo
"un film di Nanni Moretti". È "il cinema di Nanni Moretti"·
C'è una bella differenza. (…). …il film, che pure è percorso da rimpianti per
il passato, paure del presente e pulsioni autodistruttive, si chiude con una
festa di adorabile leggerezza, e con Nanni che nell'ultima inquadratura fa
"ciao" con la mano, e non sembra davvero un addio, semmai un
arrivederci a presto. Perché come dice il suo alter-ego Giovanni nel film, "non
va bene che faccio un film ogni cinque anni, qui bisogna accelerare, bisogna
stringere". Giovanni (Nanni Moretti) è un regista. (…). Moretti utilizza
lo strumento narrativo del film nel film: Giovanni sta girando una pellicola
ambientata nel '56, dove Ennio (Silvio Orlando) e Vera (Barbara Bobulova) sono
due coniugi militanti del Pci che hanno invitato a Roma dall'Ungheria il Circo
Budavari (nota per i morettiani: sì, Budavari era il giocatore di pallanuoto
magiaro che terrorizzava Michele in Palombella rossa). Il circo arriva proprio
nei giorni in cui i carrarmati sovietici entrano a Budapest: Ennio, redattore
dell'Unità, si attiene alle indicazioni del partito; Vera, assieme agli ospiti
ungheresi, si schiera con gli insorti. La trama del film prevede che Ennio,
alla fine, si suicidi - e Silvio Orlando non vede l'ora: "Ho sempre
sognato un personaggio che alla fine s'impicca!". Nel frattempo, Giovanni
e sua moglie Paola (Margherita Buy), anche produttrice, sono in crisi. O
meglio: è in crisi lei, che va in analisi senza dirlo a nessuno. Lui pensa solo
al film e a se stesso. Lei spera che cambi, ma lui la disillude: "Nella
vita nessuno cambia veramente, succede solo nei film". La crisi della
coppia diventa la crisi del film: il co-produttore francese (Mathieu Amalric)
si rivela inaffidabile, finiscono i soldi, una riunione con Neflix è un mezzo
disastro. Secondo gli esperti della piattaforma manca la scena "what the
fuck!", quella che fa esclamare "oh cazzo!" agli spettatori.
Subentrano dei co-pro-duttori coreani che apprezzano gli aspetti più
deprimenti: "Che bello, è un film sulla fine della coppia, sulla fine del
comunismo, sulla fine del cinema, sulla fine di tutto!". Intanto Giovanni
coltiva in segreto due sogni: un film da Il nuotatore di John Cheever (e nessuno
gli dice che l'ha già fatto Burt Lancaster nel '68) e soprattutto un film
d'amore costruito solo su canzoni italiane. Questo terzo film nel film comincia
a visualizzarsi: due ragazzi si baciano sul finale di La dolce vita mentre in
colonna sonora infuria Lontano lontano di Tenco, e Moretti compare a "dar
loro" le battute manco fosse Bogart in Provaci ancora Sam. Ma poi succede
un miracolo. Si gira la scena in cui Vera restituisce a Ennio la tessera del
Pci, Giovanni dice "azione!" ...e guai se andassimo avanti, ma è
questa la scena "what the fuck!", in cui sullo schermo esplode Voglio
vederti danzare di Battiato e Giovanni/Nanni decide che il finale va cambiato,
che il Pci deve ribellarsi all'Unione Sovietica con qualche decennio di
anticipo, che i quattro elefanti del circo Budavari (due francesi e due
tedeschi, sempre in lite - gli elefanti! - alla faccia dell'Europa unita)
devono far pace... "La storia non si fa con i 'se'. E chi l'ha
detto?". Il sol dell'avvenire si apre e si chiude con due omaggi a
Fellini, il primo da Intervista e il secondo da 8½, e forse è davvero il film
"felliniano" di Nanni Moretti. È un film di straordinaria libertà
narrativa, costruito su associazioni libere come Palombella rossa, e come
Palombella rossa è anche - non solo - una riflessione sulla militanza e su come
la politica influenzi la vita delle persone. "Chi se ne frega della
politica, questo è un film d'amore!", dice Barbara Bobulova, e ha ragione:
è un film sull'amore di Moretti per il cinema e per il suo cinema, per il suo
universo di personaggi, di piccole nevrosi e di grandi pensieri, quindi su di
noi. E un film su quello che abbiamo perduto e dimenticato, e su ciò che
dovremmo ritrovare e ricordare al cinema e nelle nostre vite. Perché alla fin
fine, chi se ne frega se un film di Netflix viene visto in 190 Paesi: come dice
Giovanni, "nella vita due o tre princìpi bisogna averli", e lui li
ha. Di seguito, “opinioni e memorie” di Nanni Moretti raccolte nella
intervista –
“Non buttatela in politica”
– di Michele Serra pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 14
di aprile ultimo:
(…). "Quando scrivo un film, quando lo giro e lo monto, come
destinazione e pubblico ideale penso solo alla sala cinematografica", (…).
"Se cominci a chiederti che cosa può pensare il pubblico del tuo film ti
blocchi, non riesci a seguire l'ispirazione, ti distrai, tradisci il tuo
desiderio. Certo, dopo il percorso dentro le sale il film probabilmente andrà
nelle piattaforme, e dunque andrà ovunque. Ma non possono chiedermi di pensare
al tredicenne in Pennsylvania che andando in metropolitana guarda film sul suo
cellulare. Non faccio cinema per questo... Il cinema lo faccio per me, certo
che lo faccio per me". (…). "Poi ovviamente mi auguro che il mio film
trovi il suo pubblico, ma il bello è che è impossibile sapere prima che cosa
accadrà. Il pubblico è più trasversale di quanto si possa pensare, più
sorprendente. Tanti film, teoricamente commerciali, alla prova dei fatti non lo
sono per niente, e vale anche il contrario: l'enorme successo delle Otto
montagne è stato una sorpresa per i due registi e per chi l'ha prodotto. Ma non
è successo lo stesso per il film iraniano Gli orsi non esistono, bellissimo,
con il regista Jafar Panahi in carcere. Peccato, fino a pochi anni fa avrebbe
avuto molti spettatori in più. Io ho un cinema, so bene quanto il pubblico si
stia riducendo, si andava al cinema una o due volte a settimana, ora poche
volte all'anno, è una situazione nuova, pesante. Ma io continuo a far finta di
niente, come se non ci fosse nessuna crisi. Pensando un film non mi lascio
condizionare, lo faccio come voglio io. Non voglio farmi disturbare". (…).
"Mi identifico totalmente nel protagonista del mio film, Giovanni, quando
dice quella frase, vi metterete a piangere quando capirete cosa avete
combinato. È proprio una mia frase". (…). "Ho rivisto molto Fellini
durante il lockdown. Ero felliniano già cinquant'anni fa, i due partiti erano
Fellini e Antonioni. Mi sono ritrovato felliniano anche cinquant'anni
dopo". "Sono stato un trotskista non dogmatico, stavo in un gruppo
attorno alla rivista Soviet, con Paolo Flores d'Arcais. Nei cortei, all'epoca,
c'era spesso il ritrattone di Stalin, io nel film ci ho messo quello di
Trotsky, per la serie: se avesse vinto lui... Spesso mi sono chiesto, molto
ingenuamente, perché nel '56 il Pci non prese posizione contro i carri armati
sovietici. Un giorno, nel 2010, filmando tutto, intervistai Pietro Ingrao. E
glielo chiesi. Lui mi rispose, guardandomi negli occhi: non era
possibile". "La storia non si fa con i se è una frase alla quale ho
pensato spesso, soprattutto quando Rifondazione fece cadere Prodi, all'epoca
molto popolare. L'Ulivo ebbe paura e non volle andare ad elezioni anticipate,
che avrebbe comunque vinto anche senza Rifondazione. Questo Paese sarebbe stato
diverso".
Al cinema invece i "se" possono
vincere. Addirittura trionfare, generando quel turning point che piace tanto ai
manager di Netflix. Giovanni cambia il finale del suo film, doveva essere
mortale, lo fa diventare vitale... L'arte conta più della politica? "Se
dentro l'arte c'è autenticità ed energia, può contare molto".
Hai scritto il film con tre donne, Francesca
Marciano, Federica Pontremoli, Valia Santella. Come avete lavorato?
"Insieme. Senza dividerci i compiti. Si parla tutti insieme, poi si
comincia a scrivere. È un gran bel viaggio, professionale e umano. Da solo ho
scritto parecchi dei miei film, Io sono un autarchico, Ecce Bombo, Sogni d'oro,
Palombella rossa, Caro diario e Aprile. Ora non mi piace più scrivere da solo.
Qui ho lavorato con tre sceneggiatrici, più giovani di me ma pressappoco della
mia generazione, perché è sì un film personale, nello stile e nei toni, come
sempre i miei film, ma non l'avrei potuto scrivere con un trentenne".
A proposito di generazione: ti senti reazionario,
rispetto ai tempi? "Non mi sembra... (…) sto facendo una panoramica
interna... Scettico sì, quello sempre. Anche da giovane. Cinico mai.
Reazionario nemmeno. Mi sento dell'altro secolo, questo sì. Ma è un dato di
fatto, non ci si compiange e non ce se ne compiace".
Magari si perde qualcosa di importante. Per
esempio: segui i siti, i blog, i nuovi media? "Non ho questo tipo di
ansia, a questa età uno ha un'altra considerazione del proprio tempo. Magari
quarant'anni fa andavo a vedere certi film apposta per indignarmi, ora i film
che già so che non mi piaceranno non li vedo. Quando davanti a te non hai una
vita intera, diventi per necessità più selettivo. E comunque le cose che
cambiano ci sono ugualmente. Per me, per esempio, un vero cambiamento dell'ultimo
anno e mezzo è stato il teatro. Prima ci andavo per dovere, invitato da amici
attori e registi, e spesso era un supplizio. Ora ci vado volentieri, ci vado
apposta, sono diventato uno spettatore appassionato come ai tempi di Carlo
Cecchi e del Gruppo della Rocca. Mi è piaciuto molto Tavola tavola, chiodo
chiodo, con Lino Musella. Moltissimo una strepitosa Opera da tre soldi del
Berliner Ensemble. E a ottobre esordirò come regista di teatro, due pezzi di
Natalia Ginzburg, Fragola e panna e Dialogo, una lingua molto moderna, mai
autocompiaciuta".
Dunque ti vedi operoso, da vecchio.
"Diciamo fattivo. Ho voglia di lavorare, quello sì. La mia regia teatrale
mi coinvolge molto, e anche il mio lavoro con la sala (cinema Nuovo Sacher) mi
impegna. Funzionano ancora gli eventi, è la programmazione normale che fatica.
Presto produrrò il film d'esordio di una giovane regista. Mi occupo del cinema
degli altri e non l'ho mai fatto per dovere, o perché mi sentivo investito da
una missione. Lo faccio per piacere, lo considero complementare al mio lavoro
di regista. E spero senza i pericoli dei registi che diventano produttori:
primo, non produco sottogeneri morettiani; secondo non produco film mediocri
soltanto per constatare che purtroppo non ci sono nuovi registi e dunque
esistiamo solo noi; terzo non faccio esordire giovani al solo scopo di
torturarli. Collaboro ai film che produco con suggerimenti non da produttore o
regista, ma da semplice spettatore. Tra gli esordienti l'anno scorso mi sono
piaciuti molto Californie, di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, visto
quasi da nessuno. E Piccolo corpo, di Laura Samani, ambientato in Carnia".
I critici, la critica: una volta servivano,
anche se poteva essere doloroso, per un autore, leggere le recensioni. "I
critici potevano condizionare, nel bene e nel male, il cammino di un film.
Ricordo l'importanza che poteva avere una recensione di Kezich su Repubblica.
Ora so che ci sono i blog che si occupano di cinema, sicuramente mi perdo
qualcosa ma riesco a campare senza. Senza vantarmene, ma senza nemmeno
vergognarmene, compro ancora il giornale, e leggo quello. (…)".
(…): Schlein? "Ho votato per lei,
contro il luogo comune sbagliato che fosse 'troppo di sinistra'. Senza
ricordare che dieci - quindici anni fa tanti amministratori sono stati eletti
essendo a sinistra del Pd, Doria a Genova, Pisapia a Milano, Vendola in Puglia,
Zedda a Cagliari. Incredibile come alle volte quella che viene chiamata
narrazione non si deposita nella memoria. Eppure è successo pochi anni fa. Devi
essere credibile, tanti elettori del Pd, tra cui io, hanno avuto per anni tanta
pazienza e ora si sentono un poco meno lontani da chi dovrebbe
rappresentarli".
Questo governo? "Avevo un pregiudizio.
Ora il giudizio è peggiore del pregiudizio".
Fai ancora sport? "Pilates e tennis. Ma
sono turbato: quando perdo a tennis, sono meno dispiaciuto di un tempo. Una
preoccupante deriva non agonistica".
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