Sopra. Fotogramma da "Il settimo sigillo" di Ingmar Bergman (1957).
“(…). Chi potrebbe affermare che i morti siano veramente sotterra? Una volta gettata l’ultima palata sulla loro fossa, essi si alzano e si allontanano vacillando pei sentieri oscuri, quali verso i cieli, quali verso i mari, quali verso le verdi profondità del globo, e Dio solo sa dove andranno e quale forma rivestiranno, e se non ci fissano ogni giorno, assorti, sotto forma di un povero animale o di un fiore. Questa Vita è talmente indipendente dal nostro pensiero limitato, che tutto, dico tutto, ogni più nobile cosa può accadere: e lo sa chi, capace di ricordare e osservare, prova continuamente davanti a essa un sentimento di rispetto e terrore”. (Anna Maria Ortese, in “Vita di Dea”).
Ha scritto Tomaso Montanari – critico dell’Arte,
Rettore della “Università per Stranieri” di Siena – in “Dove i morti appartengono alla vita”, pubblicato sul settimanale “il
Venerdì di Repubblica” del 21 di aprile 2023: Il venerdì mattina, nel cimitero di
Bab Guissa a Fes, in Marocco, appaiono figure velate o incappucciate che scivolano
tra una tomba e l'altra. Donne e uomini in visita alle spoglie dei propri cari:
con loro la città dei vivi irrompe nella città dei morti. Tuttavia, il confine
tra le due non è così ovvio: in un'inversione spiazzante, il cimitero è
moderno, mentre sono antiche, e divorate dal tempo, le mura urbane fuori dalle
quali, come d'uso, esso sorge. È un simbolo eloquente: in questa capitale
fondata a partire dal 789 dopo Cristo, la città dei vivi e quella dei morti
convivono senza che sia sempre possibile distinguerle, né tantomeno separarle.
Scrivendo dell'Italia, Carlo Levi notava che da noi «l'arcaico è vicinissimo e
familiare, per l'uso non interrotto delle generazioni. Questa stratificazione
non è una giustapposizione ma un'assimilazione successiva, un accrescimento
reale, una reale presenza». Una «reale presenza»: quella di corpi sepolti che i
musulmani, come i cristiani, ritengono appartenere alla vita, non alla morte.
Così la prossimità tra mura antiche e tombe moderne acquista un senso profondo:
quello della comunione dei vivi e dei morti. Perché quello che chiamiamo
patrimonio culturale, il tessuto antico delle nostre città, è l'unico possibile
luogo materiale di una coabitazione tra chi è vivo ora, e chi lo è stato. In
Marocco, che è qualche decennio dietro a noi nel processo di separazione tra
antico e moderno, tutto questo è ancora visibile: quasi tangibile. Vita
quotidiana e patrimonio culturale condividono uno spazio che contiene tempi
diversi, e compresenti. Lo spazio delle strade, delle moschee, delle madrase: lo
spazio dell'aria, perfino. Parlando dei ciechi che mendicano a Marrakech, Elias
Canetti scrive che le loro invocazioni «iniziano con Dio, terminano con Dio,
ripetono il suo nome diecimila volte al giorno. Tutte le loro grida contengono
il suo nome in forme mutevoli, ma il grido, una volta stabilito, rimane sempre
lo stesso. Sono arabeschi acustici intorno a Dio, mille volte più
impressionanti di quelli visivi». Analoghi arabeschi acustici, uguali nei
secoli, solcano l'aria sui tetti di Fes: gli inviti alla preghiera, e ora
quelli ad osservare il ritmo del Ramadan, non uniscono solo minareto a
minareto, ma anche secolo a secolo, generazione a generazione. Spazio, voci,
tempo: generazione dopo generazione, la città dei vivi trapassa nella città dei
morti, senza spostarsi. Una comunione che è anche una scuola di umiltà capace
di rimettere il nostro ego di occidentali di fronte al senso del limite. Che è
forse proprio ciò di cui, oggi, abbiamo disperato bisogno. Di seguito, “Non rimuoviamo il pensiero della morte”
di Umberto Galimberti pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la
Repubblica” di ieri, sabato 22 di aprile: Ho abbracciato la cultura greca per la semplice
ragione che, a differenza di quella cristiana che crede nella resurrezione dei
corpi, prende sul serio la morte. E pur avendo almeno due parole per dire
"uomo" (àntropos e anér) preferisce utilizzare la parola thnetòs che
significa "mortale". Nasce da qui un'etica caratterizzata dal senso
del limite che promuove azioni secondo misura (katà métron), perché chi oltrepassa
la sua misura prepara la sua rovina. Per questo l'etica greca non ha precetti e
neppure comandamenti. L'unica cosa a cui la condotta umana si deve attenere è
"non commettere hybris" che significa eccesso, tracotanza, in una
parola: oltrepassamento del limite, mentre chi conosce il suo limite non teme
il destino. Il limite consente la giusta proporzione delle parti che
nell'architettura e nella scultura produce harmonia, parola greca che esprime
la giusta proporzione con cui si compongono gli elementi da cui scaturisce la
bellezza (eumorphia) che consiste nella buona (eu) forma (morphé), che non è
solo un'espressione estetica, ma anche etica, se è vero, come scrive Platone,
che: "Il bello è la misura del bene". In questa saldatura tra
estetica ed etica sta l'arte del vivere (tèchne toù bìou) che consiste nella
capacità di abitare il mondo governando se stessi, diventando legislatori di sè
stessi. Ciò non significa che possiamo fare quel che vogliamo, ma che di volta
in volta dobbiamo delimitare l'ambito di ciò che possiamo fare e di ciò che non
possiamo fare, per non incorrere nelle conseguenze infauste e inattese che
possono derivare dall'imponderabile a cui l'uomo è ineluttabilmente esposto, o
dall'esercizio dissennato della sua libertà. Da ciò deriva la giusta mescolanza
(orthòs synkerasmòs) di coraggio (andreìa) per espandere la vita e di prudenza (phronesis)
per non espanderla oltre i limiti concessi dalle nostre potenzialità. Se ne
deduce che è morale chi sa amministrare il proprio potenziale di vita e immorale
chi, smarrita la giusta misura, si ritiene onnipotente e non tiene conto della
mutevolezza dei caso, del variare delle situazioni, della transitorietà degli
eventi, e soprattutto delle potenzialità di cui la sua natura dispone, a
partire dalla consapevolezza della morte che ci rappacifica con il nostro destino,
la cui bontà si offre solo a chi si è conciliato con la sua dimensione di
mortale, con-segnando il suo desiderio al limite, e il limite all'espressione
del suo desiderio. In questo equilibrio di forze contrapposte abita l'essenza
dell'uomo la cui condizione è tragica perché, a differenza dell'animale,
l'uomo, per vivere, ha bisogno di costruire un senso, in vista della morte che
è l'implosione di ogni senso. Dall'esperienza tragica, il Greco non esce, come
il cristiano, affidandosi alla speranza di una vita ultraterrena, ma approdando
alla saggezza filosofica, capace di indicare il giusto mezzo (mesòtes), come
proporzionato rapporto tra le forze della vita che vuole espandersi oltre ogni
limite e la misura che la contiene nel suo limite per consentirle di durare.
Per questo il pensiero della morte non va rimosso, perché irradia sulla vita la
nozione di limite, che evita l'infelicità che sempre si produce quando la
misura è abolita dal desiderio smisurato.
"Gli uomini sono guidati più dal cieco desiderio che dalla ragione". (B. Spinoza). "La felicità consiste nel non desiderare nulla, perché consiste nell'essere liberi". (Epitteto). "Non desiderare troppo e sarai l'uomo più ricco del mondo". (Miguel de Cervantes). "Desidero poco e quel poco che desidero, lo desidero poco". (S. Francesco D'Assisi). "Avevo da scegliere : potevo essere il me che desiderava, o il me che rideva del me che desiderava". (Tiziano Terzani). Grazie di cuore per questo post stupendo, necessario e ricco di preziosissimi spunti di riflessione. Buona continuazione.
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