Da “Cosa il
premier non dice quando cita Berlinguer” di Silvia Truzzi, su “il Fatto
Quotidiano” del 22 di maggio 2016: (…). “La sinistra è stata sempre per
superare il bicameralismo. Enrico Berlinguer parlava direttamente di
monocameralismo” (il virgolettato è stato pronunciato da quel
buontempone di Renzi Matteo nella giornata di ieri sabato 21 di maggio, detta del
“referendum-day”. n.d.r.). Infatti la riforma mantiene il
bicameralismo. Il Senato continuerà ad esistere, semplicemente i membri della
Camera alta (trasformata in “camerino”, copyright di Michele Ainis) non saranno
più eletti dai cittadini, bensì “dai Consigli regionali” ma “in conformità alle
scelte espresse dagli elettori” (la fantasia al potere). Saranno di meno (da
315 a 100), manterranno l’immunità, eleggeranno due giudici costituzionali,
parteciperanno all’elezione del presidente della Repubblica, parteciperanno
alla funzione legislativa per le leggi su referendum popolare e ordinamento
degli enti territoriali. I procedimenti legislativi saranno sette (bicamerale
paritario, monocamerale con intervento eventuale del Senato, non paritario
rafforzato, non paritario con esame obbligatorio per leggi di bilancio, disegni
di legge a “data certa”, conversione dei decreti, leggi di revisione
costituzionale). Il bicameralismo resta, da paritario diventa confuso. (…).
…Azzariti sostiene: “Un’unica Camera eletta con sistema proporzionale. Chi se
la sente di proporre una riforma rivoluzionaria come questa? Eppure in passato
era questa la frontiera avanzata della sinistra”. (…).
Da “Bene il No, ma la battaglia è altrove” di Ugo Mattei, su “il Fatto Quotidiano” del 19 di maggio 2016: La discussione sul referendum costituzionale che si celebrerà in autunno è iniziata. (…). Più di un referendum con cui il popolo sovrano conferma un nuovo compromesso costituzionale fra i suoi rappresentanti in Parlamento, quello che sta andando in scena è un plebiscito muscolare con cui un gruppo di potere chiama il popolo a raccolta intorno al vitalismo (fare per fare) del proprio capo. Non un referendum costituente, ma un plebiscito politico intorno al mutamento formale di un documento, la Costituzione del ‘48, già nella prassi completamente svuotata di contenuto. Difficile non accorgersi che in tutta Europa i Parlamenti da tempo non contano più nulla. Il potere legislativo si è concentrato progressivamente nelle mani dell’Esecutivo, secondo il modello della V Repubblica di De Gaulle. Senza modificare gli apparati formali, ovunque un uomo solo al comando risponde ai diktat del potere privato, ormai molto più forte di quello pubblico. È futile dunque contrastare la riduzione del ruolo del Senato, quando né questo né la Camera svolgono oggi alcun ruolo legislativo, visto che tutte le leggi passano con il voto di fiducia. Di che riduzione stiamo parlando? Si può ridurre il nulla? In Italia oggi la sola fonte del diritto, inesistente quando negli Anni Ottanta ero studente in giurisprudenza, né prevista dalla Costituzione, è il Dpcm (Decreto presidente Consiglio dei ministri), un atto che non solo scavalca il legislativo ma pure la collegialità dell’esecutivo, nonché il tradizionale ruolo del Presidente del Consiglio come primus inter pares. Dunque stiamo discutendo del nulla o meglio della simbologia del potere e del valore performativo delle parole. Secondo la strategia discorsiva del governo, chi sta col Sì è riformista vuole il cambiamento, il progresso, la modernità, il fare. Chi sta col No è conservatore, corporativo, perditempo, vecchio. Francamente, gran parte delle persone che danno immagine mediatica alla contrapposizione (i cosiddetti professoroni del No), confermano una impostazione spettacolare che culturalmente ha già vinto. Non voglio negare che in Italia, come del resto in tutta Europa, sia in atto un momento Costituente. Voglio solo dire che esso sta altrove. (…). Oggi il capitale, col Referendum Costituzionale distrae la pubblica opinione, mentre sotto banco conduce la sua rivoluzione tramite il Ttip, il trattato di libero scambio fra Europa e Stati Uniti. Negoziato in segreto, il Ttip infligge il colpo di grazia a ciò che resta della sovranità pubblica. Il suo impatto costituente è la ristrutturazione, tramite il diritto, del rapporto fra capitale e lavoro. Gli Stati che intervengano a favore dei lavoratori, della salute e dell’ambiente, saranno considerati responsabili di un danno al capitale privato. Stuoli di avvocati ben pagati dalle corporation faranno causa agli Stati i quali dovranno guardarsi da qualunque intervento sul libero mercato (inclusa la tutela dello sciopero) che torna costituzionalizzato come valore trascendente. Altro che riforma del Senato!
Da “Quel
compromesso illusorio” di Gian Giacomo Migone - presidente della “Commissione esteri” del
Senato dall’anno 1994 all’anno 2001 – sul quotidiano la Repubblica del 21 di
maggio 2016: Caro direttore, (…) da buoni
professoroni, abbiamo ripetutamente e noiosamente spiegato che di regole (un
referendum confermativo di revisione costituzionale n.d.r.) si
tratta, che non devono essere soggette a maggioranze di governo, oltretutto
puntellate da abusi di voti di fiducia. Soprattutto, che esse non devono ledere
alcuni principi costituzionali a fondamento della nostra democrazia: sovranità
popolare, con il conseguente diritto dei cittadini ad esprimere la propria
rappresentanza, governo a cui corrisponda un Parlamento altrettanto forte,
separazione dei poteri, autonomie non improvvisate. Non credo di sbagliarmi se
affermo che la (…) preoccupazione di fondo sia quella di salvaguardare l’unità
del Partito Democratico, offrendo una via d’uscita alla sua minoranza dalle sue
ambasce attuali. Ricorrendo ad un antico timore della tradizione comunista, che
fedelmente rievoca, quella di una “spaccatura del Paese”, Reichlin propone un
compromesso: il segretario rinunci ad una tattica referendaria legata alla sua
persona e in cambio riceva il sostegno al Sì degli oppositori interni, paghi
della soddisfazione di avere eliminato il bicameralismo paritario, non importa
come, con che cosa e a quale prezzo; eventualmente pronti a pronunciare qualche
penultimatum riguardo alla vigente legge elettorale. In realtà si tratta di un
compromesso illusorio, non soltanto per la mercurialità del presidente del
Consiglio, appena dimostrata con il voltafaccia sul voto al lunedì (inizialmente
ventilato e poi negato n.d.r.): fatto apparentemente banale, ma che
nasconde la rinuncia ad una partecipazione dei cittadini al voto che costituiva
uno dei motivi di forza della democrazia italiana rispetto ad altre. O anche
questo è populismo? Tuttavia, vi è un altro fatto che mina alla radice la
stabilità del compromesso — meglio sarebbe chiamarla tregua — interno al Pd che
Reichlin propone. Vittorio Foa lo chiamava il silenzio dei comunisti rispetto
alla revisione della loro pur grande storia che ha contribuito in maniera
decisiva non solo a scrivere la Costituzione, oggi messa in discussione in
alcuni suoi gangli vitali, ma a salvaguardare l’Italia dal cosiddetto
socialismo reale e da forme involutive all’interno della Nato cui Washington
sapeva ricorrere alla bisogna. Ricordo una riunione della direzione del Pds in
cui Reichlin aveva il compito di spiegarci che dovevamo tutti diventare socialdemocratici.
Dissi allora: «Sono d’accordo, ma forse non basta la relazione ad una riunione
della direzione, nemmeno un libro di Massimo L. Salvadori che rivaluti l’ex
”rinnegato Kautsky”. La Seconda Internazionale ha una storia più lunga della
Terza. Wigforss, Beveridge, Meidner, Brandt… Non serve Blair». Con un sorriso
mi rispose: «Tu ci odi veramente». Ebbene non è così. E la sinistra non
comunista, sia laica che cattolica, cui appartengo per cultura politica, deve
chiedersi quanto in Italia abbia realizzato in nome della sua maggiore
comprensione della storia occidentale. Ma non voglio divagare più di tanto. Ciò
che manca, e che ancora costituisce problema per la democrazia italiana, al di
là di tutte le conclamate rottamazioni, è una comprensione critica dello stato
del Paese e quale sia il compito di forze, per quanto diversificate, che ne
vogliano salvaguardare la democrazia. Tutto ciò in un contesto mondiale in cui
il predominio della finanza tende a sostituirsi alle istituzioni politiche e
l’impoverimento dei ceti medi apre inquietanti prospettive. E in cui la Banca
Morgan, dopo avere contribuito a consolidare il regime mussoliniano negli anni
Venti, ancora una volta consiglia di ridurre la democrazia specie nei Paesi
caratterizzati da costituzioni postfasciste. No, stiamo al merito, come dice
giustamente, e come sembra dire, almeno fino al prossimo sondaggio d’opinione,
colui che – presume - ci salva da ulteriori disgrazie, conservando gelosamente
quella coalizione corporativa, la classe dirigente italica, politica e non, di
cui amministra temporaneamente gl’interessi. E se, così facendo, senza
plebisciti favorevoli e contrari, si dovesse spaccare il Paese sulla base di un
diverso giudizio sul ddl Boschi… è la democrazia, bellezza!
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