La “dialettica” che non c’è. Definisce in
questi termini la “dialettica” il Dizionario Treccani: “Dal gr. διαλεκτικὴ (τέχνη),
propr. «arte dialogica». In senso generico significa l’arte del dialogare, del
discutere, intesa come tecnica e abilità di presentare gli argomenti adatti a
dimostrare un assunto, a persuadere un interlocutore, a far trionfare il
proprio punto di vista su quello dell’antagonista”. Bene. La “dialettica”
è stata il pane ed il nutrimento di intere generazioni che si siano ispirate in
varia misura a quella parte politica che si soleva definire la “sinistra”.
La “dialettica”
è stata il tratto essenziale e la connotazione privilegiata di quelle forze che
nel tempo si siano proposte a dare un assetto di democrazia compiuta
incoraggiando “partecipazione” e “responsabilità”. “Dialettica”,
“partecipazione”
e “responsabilità”
molto diffuse risultano essere termini inscindibili senza i quali la democrazia
risulta essere una “democrazia sciancata”, senza vitalità alcuna ed in mano ad
improvvisatori e dilettanti. Chi non ha a cuore la realizzazione delle predette
pre-condizioni non ha a cuore una democrazia matura. La “dialettica” è stata dapprima
sostanzialmente appannaggio di una ben riconoscibile parte politica; senza la “dialettica”
quella parte politica è come se non esistesse più. Il politico che opera per
non incrementare “dialettica”, “partecipazione” e “responsabilità”
ha come mira, poi non tanto velata, una democrazia “immatura”, che sia
facilmente condizionabile sul piano del consenso per mezzo delle arti proprie
dei seduttori di folle inconsapevoli sì ma non per questo meno colpevoli. Scriveva
Adriano Prosperi sulle conseguenze “del ventennio berlusconiano” – che
non si è di fatto interrotto - in “Il
diritto alla politica” sul quotidiano la Repubblica dell’8 di gennaio dell’anno
2013:
(…). …parliamo (…) dei partiti, quelli ai quali la Costituzione riconosce il
compito di garantire ai cittadini il diritto di «concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale» (art.49). Chi ha una certa età
non può dimenticare l’appassionata partecipazione che a partire dal’48 ha
portato grandi masse a fare uso effettivo di quel diritto sulla base del
programma del partito e caricando il proprio voto di un fortissimo investimento
di volontà di cambiamento. Oggi il confronto politico si svolge per lo più al
di fuori dei partiti e più o meno esplicitamente contro di essi. Anche laddove
resiste la forma partito o ne sussistono le vestigia, quello che conta e a cui
si affida l’efficacia del richiamo elettorale è il leader: il suo nome, la sua
storia personale, o almeno la sua faccia, i suoi tic individuali. (…). In
questo Paese la stragrande maggioranza della popolazione per secoli non ha
avuto diritti ma solo doveri, quelli biblici di Adamo ed Eva: lavorare per gli
uomini, partorire nel dolore per le donne. I diritti alla vita, alla libertà,
al perseguimento della felicità che la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati
Uniti aveva definito inalienabili non sfiorarono le masse contadine dei sudditi
del Regno d’Italia più di quanto avessero sfiorato le tribù dei nativi
americani. È stato solo col secondo dopoguerra che è nata un’esperienza dei
diritti per effetto di una liberazione che fu politica e divenne rapidamente
sociale - liberazione dalla stretta del bisogno e della mancanza di lavoro, possibilità
di partecipare al grande e felice banchetto dei consumi e di presentarsi al
seggio elettorale sentendosi finalmente soggetti e costruttori del proprio
destino. Oggi tutto questo appare lontanissimo: e la radice primaria è la
scomparsa del lavoro come diritto oltre che come realtà. (…). Di fatto quello
che fu il caposaldo della Costituzione repubblicana e dette una risonanza
straordinaria alla formulazione fanfaniana dell’articolo 1 è oggi una vuota
parola. (…). L’esito finale di tutto questo è una estromissione collettiva
dalla politica come campo aperto di cui si fa parte normalmente, senza dover
attendere la chiamata dall’alto. Contro l’alto e il basso bisognerà pur
restaurare un approccio orizzontale, laico e concreto alla lotta politica: a
meno di non voler tornare all’Italia dei secoli antichi, quando i contadini
veneti si sentivano stretti fra l’«Altissimo di sopra che manda la tempesta» e
«l’Altissimo disotto che prende quel che resta». Con la sconsolata conclusione:
«E noi tra ‘sti doi Altissimi restemo poverissimi». Il martedì 12 di
maggio dell’anno 2015 Ferruccio De Bortoli rilasciava un’intervista a Silvia
Truzzi su “il Fatto Quotidiano”, intervista che aveva per titolo "L'Italia è un Paese ad alta
digeribilità, che ama l'uomo forte perché è una democrazia immatura". La
trascrivo in parte:
Perché è possibile adesso? - Intanto perché
c’è un solo grande protagonista, al quale ovviamente dobbiamo riconoscere
grandi meriti… -.
…e talenti, come lei ha scritto. - Matteo
Renzi è uno straordinario comunicatore, è un politico raffinato. E poi c’è il
disfacimento del centrodestra, di partiti che si erano in qualche modo
stabilizzati in un bipolarismo molto claudicante nella Seconda Repubblica… -.
Berlusconi è finito? – (…). …in questa
grande decomposizione del quadro politico l’Italicum favorisce il trasformismo,
forse anche nella certezza di chi comanderà. Però il trasformismo, attenzione,
è una malattia che mina alla base la democrazia. Vedo il rischio di un distacco
tra la società e la politica: con la nuova legge elettorale non decidiamo più i
nostri eletti, per il 60-70%, a Montecitorio -.
Lei è favorevole al monocameralismo. - Sì,
ma dubito molto delle funzioni di un Senato ridotto a una Camera di secondo
grado, eletta dai consigli regionali. Il pericolo è un progressivo distacco dei
cittadini che non credono più nel governo, nella politica, nello Stato e nella
possibilità di stare insieme. L’effetto collaterale dell’Italicum sarà di
aumentare l’astensionismo: se l’offerta politica si riduce a un Partito della
Nazione, e ad alcuni residuali cespugli, che non hanno la minima attrattività
perché sono perdenti nati… È avvenuto un cambio sostanziale nella forma di
governo, siamo passati a un premierato forte: un passaggio che si è
concretizzato con leggerezza colpevole. L’Italia, una democrazia immatura, ama
l’uomo forte. Mentre la partecipazione è fatta da contrappesi, istituzioni che
si rispettano. Siamo passati dal berlusconismo, che occupava le istituzioni
anche con fini personali, a un impoverimento delle istituzioni, un indice
importante del grado di salute della nostra democrazia -.
(…). Lei ha detto che Renzi è allergico al
dissenso, che mal sopporta le critiche. Le sue pare lo abbiano fatto
particolarmente arrabbiare. - Non lo so. Vorrei ricordare che la novità di
Renzi è stata salutata, anche da me, come una novità positiva: ha portato la
sfida della modernità all’interno di un partito ancorato a vecchi schemi
ideologici. Dopodiché, a me pare abbia mutuato dalla controparte molti dei modi
con i quali gestisce il potere. La sua è una concezione autoritaria di
occupazione delle istituzioni. A mio parere dovrebbe imparare – se vuole
paragonarsi ai leader europei – che l’informazione non è un male necessario.
L’informazione è scomoda, per lui come lo è stata per le persone che ha
‘rottamato’. Non può pensare che la stampa lo applauda costantemente. Questo
riflesso personale autoritario m’inquieta -.
(…). Le notizie non sempre piacciono ai
protagonisti. - Il giornalismo deve nutrire l’opinione pubblica di verità, non
sempre piacevoli. Deve far ragionare, mettere la classe dirigente nella
condizione di valutare le priorità. Deve esercitare una pressione che induce a
prendere decisioni, a tendere al meglio, a valutare molti aspetti di ogni
singola questione. Dove non c’è opposizione, dove non c’è il controllo
democratico da parte di giornali che sono i cani da guardia del potere, è
chiaro che il potere non si comporta bene. Il potere tende a prendere pessime
abitudini che fanno male alla democrazia -. (…).
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