Da “Per un capitalismo sostenibile” di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos
Labini, sul quotidiano la Repubblica del 16 di maggio dell’anno 2013: (…).
Nella prima fase che segna l’affermazione del capitalismo industriale, il
profitto viene estratto dallo sfruttamento del lavoro. Il conflitto sociale
nasce dalla contrapposizione tra gli interessi capitalistici e quelli della
democrazia politica: da una parte i rendimenti del capitale, dall’altra i
redditi da lavoro sostenuti dal sindacato e promossi dallo sviluppo della
democrazia. La composizione tra queste due esigenze è affidata a politiche dei
redditi che si esprimono attraverso una distribuzione proporzionale all’aumento
della produttività. La libertà nello scambio delle merci è “compensata” da
controlli di varia natura sul movimento dei capitali. L’insieme di queste
politiche sociali, commerciali e finanziarie permette di promuovere una fase
caratterizzata da crescita economica e maggiore eguaglianza: l’età dell’oro
(1945-1973). Dopo il primo shock petrolifero, la situazione muta radicalmente: si
scatena una controffensiva capitalistica segnata dalla liberazione del
movimento dei capitali. Agli inizi degli anni ’80 si verifica dunque una
transizione dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario mentre il
profitto è realizzato sempre più attraverso la mobilità del capitale che
assicura rendimenti più elevati. (…). Nel luglio 2012 uno studio di James Henry
McKinsey, stimava il patrimonio nascosto dai super-ricchi nei paradisi fiscali
in oltre 32mila miliardi di dollari, una cifra equivalente alla somma delle
economie degli Stati Uniti e del Giappone. In questa fase, il capitalismo
realizza l’obiettivo mancato dal movimento operaio: una vera e propria
“internazionale capitalistica” che provoca enormi diseguaglianze tra capitale e
lavoro e minaccia di deprimere la domanda. Questa minaccia viene fronteggiata
con un indebitamento sistematico che dà luogo a una “grande sbornia” del
credito: una vera e propria inflazione finanziaria. L’indebitamento delle
famiglie e delle imprese che ne risulta viene sistematicamente rinnovato così
da rendere il nuovo capitalismo finanziario un sistema nel quale i debiti non
si rimborsano mai. Una scommessa chiaramente insostenibile eppure incentivata
dai governi e avallata dalle agenzie di rating contro ogni logica. Ma le onde
del debito che si accavallano l’una sull’altra, prima o poi si infrangono sulla
riva. È il momento della crisi. L’immensa liquidità creata dalle banche e dagli
altri intermediari finanziari si essicca di colpo. La liquidità sparisce. Le
banche cessano dal farsi credito tra di loro. Ma i debiti restano e devono
essere pagati. Per salvare il capitalismo dal collasso vengono mobilitate
risorse pubbliche di una portata mai vista nella storia contemporanea. (…).
L’intervento dello Stato ha privilegiato il salvataggio delle banche mentre è
stato molto debole sul lato della crescita. E così che i governi sono “puniti”
per i loro disavanzi dalle agenzie di rating e riducono le spese sociali
addossando i costi della crisi ai ceti più deboli. (…). Oggi sarebbe quanto mai
necessario un nuovo compromesso storico tra il capitalismo e la democrazia, del
tipo di quello che contraddistinse, alla fine della Seconda guerra mondiale,
l’età dell’oro. Abbandonare il capitalismo finanziario sregolato per tornare a un
capitalismo governato. (…). Ridurre i divari nella distribuzione della
ricchezza non solo perché diseguaglianze troppo marcate sono moralmente
inaccettabili ma perché costituiscono un freno allo sviluppo dell’economia. Uno
sviluppo economico sostenibile si deve fondare su investimenti, crescita della
produttività e dei salari reali. Per questo la politica dei redditi deve
ritornare al centro della politica economica.
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