"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 15 febbraio 2025

MadreTerra. 38 Pablo Neruda: «Rio delle Amazzoni / capitale delle sillabe dell'acqua, / padre patriarca, sei / l'eternità segreta / delle fecondazioni, / a te scendono fiumi come uccelli».


“Cominciai questo viaggio il 15 febbraio 1715 alle nove del mattino. Il vento era molto propizio; tuttavia feci uso dapprima soltanto delle mie pagaie, considerando che mi sarei presto stancato e che il vento avrebbe probabilmente mutato direzione, mi avventurai a issare la mia piccola vela; e così, con l'aiuto della marea, filavo alla velocità di una lega e mezzo all'ora, a quanto potei arguire. Il mio maestro e i suoi amici rimasero sulla spiaggia finché fui quasi fuori di vista, ed io udii più volte il cavallino sauro (che sempre mi aveva amato) gridare: «Hnuy illa nyha maiah Yahoo» (Abbi cura di te, gentile Yahoo)”. (Tratto da “I viaggi di Gulliver” – 1726 – di Jonathan Swift).

Storied’Acqua”. “Chiare, fresche, dolci acque”, “racconto” di Antonio Spadaro pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 26 di gennaio 2025: Le nostre sono storie d'acqua. Nasciamo nell'acqua e nell'acqua troviamo la fiducia dell'abbandono o quel benessere che riceviamo quando l'acqua scorre sulla nostra pelle seguendone le forme, i salti, le ferite e le ondulazioni senza trovare ostacoli. Impossibile fare un buco nell'acqua. Per l'acqua io non sono un ostacolo perché sa come assediarmi, sa come vincere la barriera della forma, la resistenza dell'oggetto. Lo fa in modo sensuale e gentile, quello delle «chiare, fresche et dolci acque» che accarezzano le «belle membra». Lo fa in modo catastrofico come quando - leggiamo nella Genesi - tutte le fonti del grande abisso scoppiarono, e le cateratte del cielo furono aperte. E la pioggia fu sulla terra, per lo spazio di quaranta giorni e quaranta notti per guastare la terra e distruggere ogni carne. Diluvio, tempesta e naufragio svoltano la carezza in schiaffo. L'acqua ci ha sempre accolti, «agile argento gentile gelido elemento, che a un bagnante precipita sulle membra lungo» (Gerard Manley Hopkins, Epithalamion). Ma pure precipitandoci nel suo abbraccio che stritola e ingoia, gorgo fisico ed emotivo che inghiotte e assorbe la carne, come Rimbaud, nel suo battello ebbro d'acqua, dice di conoscere: «Mi sono immerso nel Poema / del Mare, infuso d'astri, e lattescente, / divorando i verdeazzurri dove, flottaglia / pallida e rapita, un pensoso annegato talvolta discende». (...). «Mi sono riconosciuto Una docile fibra / Dell'universo». Aveva ragione Ungaretti, che lo ha intuito tuffandosi nell'Isonzo, lasciandosi levigare delle sue acque. Io l'ho capito immerso nelle acque dello Stretto di Messina. Docile fibra io sono. Ma un'amica con un WhatsApp, mentre sono disteso sulla spiaggia, mi ricorda che uno dei motti ascetici e mistici dei gesuiti è agere contra, agire contro. Ma che dice? Come fa una docile fibra ad agire contro? Contro che cosa? Contro il disordine, le tentazioni, tutto quel che si impone contro di me con le apparenze dell'alleato. Contro i cavalli di Troia. Mi ha dato fastidio questo pensiero perché mi ha ricordato sulla sabbia serena che la vita è desiderio, ed è complicata. Neanch'io so che cosa voglio, ed è bene che lo capisca per agire pro e agire contro. Mi ha ricordato che nella mia vita c'è l'acqua che mi leviga e il gorgo che mi risucchia. E poi ho sollevato gli occhi dal mare. E ho visto agire le correnti. Distante, ma ben visibile, è l'acqua scura e crespa di Scilla e Cariddi. «Così, tra i lamenti, attraversammo lo stretto: / da una parte c'era Scilla, dall'altra la divina Cariddi/ che inghiottiva orribilmente l'acqua salata del mare. Quando la vomitava, essa gorgogliava fremente, / come un paiolo sotto un grande fuoco; dall'alto / cadeva schiuma sulla cima di entrambi gli scogli. / Ma quando risucchiava i flutti del mare salato, / tutta dentro ribolliva vorticosa...» (Odissea, Libro XII). «Non appariva la terra già formata, essendo / ancor nel grembo delle acque, come embrione / immaturo avviluppato; l'immenso oceano copriva / l'intera faccia della terra, non indarno, anzi, / imbevendo l'intero globo di caldo ferace umore, / faceva fermentar, disponendola a produrre, la gran / madre, pregna d'umidor fecondo...» immagina John Milton nel suo Paradiso perduto. La Terra è embrione immerso nelle acque. «La Terra era una cosa deserta e vacua, e tenebre erano sopra la superficie dell'abisso, e lo spirito di Dio si muoveva sopra la superficie delle acque» (Genesil,2): è questo il ritratto biblico delle origini. Non c'è il nulla, ma il caos. Le acque ci sono da sempre, ma ricoperte di tenebre, in uno stato potenziale di disordine che anticipa l'intervento divino. Le acque sono un universo allo stato brado, grezzo, caldo umore. Dio interviene e il suo primo gesto è quello di separare le acque e stabilire un "firmamento" nel loro mezzo, separando le acque dalle acque. Da quel momento ci sono le acque di sopra, associate al cielo e agli aspetti celesti, e le acque di sotto, legate alla terra e ai mari. Così lo spazio diventa abitabile: il caos non è distrutto ma trasformato. Ma il firmamento ha dei buchi, e la pioggia ne è il segno. Il caos resta sempre in agguato al di là dell'arco azzurro del cielo, e sta lì pronto anch'esso ad ammorbidire le nostre zolle. All'Ulisse di Nikos Kazantzakis Itaca e l'amore di Penelope non bastano più, come aveva intuito Dante nel Canto XXVI dell'Inferno. Il cuore è infiammato, coraggioso, inquieto. Confessa: «La patria mi stava stretta, sentivo oltre le sue rive altre patrie». Ulisse sente oltre: l'acqua lo chiama. Lui è stato baciato nella culla da tre spiriti: Tantalo, progenitore dell'uomo disperato, Prometeo, signore della mente, ed Eracle, campione dalla spada di ferro. Loro gli hanno trasmesso fame insaziabile, ribellione e lotta che si traducono in un cuore indomito, un'intelligenza brillante e uno spirito votato alla conoscenza e all'esplorazione: «I desideri antichi splendono come una madreperla / negli abissi del mare, e lui chino sopra di essi / sorride e si accarezza la barba fradicia di stelle. / L'anima rude si scioglie lenta, acqua e stella insieme; / nel petto la memoria dorme come una gabbianella / dentro la grotta; e la mente si culla spensierata, / come un gabbiano silenzioso sopra la schiuma azzurra». La sensualità estrema di Ulisse è acquatica, liquida. Per questo tende a esaurire, a saturare l'esperienza, in modo che il suo succo sia spremuto fino in fondo e non resti che la scorza. E questo perché, in realtà, Ulisse si confronta sempre con la morte. Kazantzakis vede il suo Ulisse come un uomo che ha reciso tutti i legami, gli schemi e le strutture per rendere capaci i propri appetiti vitali di abbracciare tutta l'esperienza. Cioè: si confronta con la morte perché non vuole che essa gli strappi nulla, perché non ci sarà più nulla da strappare. Ma forse è proprio qui il suo naufragio, la sua vera tragedia, come ambiguamente e lucidamente aveva prefigurato: «Il nostro corpo è una nave e naviga sopra acque color blu scuro. Qual è il nostro scopo? Far naufragio!». Poi, dopo l'orgasmo, la quiete estrema, e «tutto svanisce come bruma, soltanto un grido resta / sospeso per brevi istanti sulle calme acque notturne». Molti sono i naufragi: naufragano san Brandano sulle soglie dell'altro mondo e Tristano sulle coste dell'Irlanda, l'Ulisse di Dante e gli eroi di Ariosto, Robinson Crusoe, i protagonisti o i derelitti di Poe, Melville e Conrad. Già Baudelaire aveva notato in L'homme et la mer una congenialità tra il mare e l'uomo, Homo abyssus, a un tempo tenebrosi e discreti, insondabili entrambi eppure eterni lottatori «senza rimorso né pietà». Il naufragio è vertice e vortice a un tempo. Gli «irati flutti» del naufragio sono sinonimo di fallimento, di lacerazione, di morte. Il naufrago è colui che ha perso ogni riferimento, che si è allontanato da ciò che è certo, da ciò che conosce, che soccombe dinanzi alla forza e alla prepotenza di ciò che non può dominare: il naufragio è delusione, mancato approdo, come crisi. Ma, al contempo, occorre "naufragare", abbandonarsi alla corrente per intuire, per sentire ciò che esiste "oltre". Ecco la dolcezza del naufragio leopardiano, simbolo di un'esperienza mistica. Ecco anche, in altro modo, il dérèglement de tous les sens di Rimbaud, poi seguito da Jim Morrison. Il naufragio fa parte integrante della grammatica teologica e può essere l'equivalente dell'esperienza religiosa che paradossalmente trova Dio nel fondo del peccato e della disperazione. E Kafka giungeva a pregare così: «Prendimi nelle tue braccia, / cioè nell'abisso, / accoglimi nell'abisso». «Tu che mi domini / Dio! che dai soffio e pane; / riva del mondo, ritmo del mare; / dei vivi e dei morti Signore; / ossa e vene Tu mi hai legato, e fissato la carne, e - con che terrore - dopo hai quasi disfatto / l'opera tua: e mi colpisci di nuovo? / ancora sento il tuo dito e ti trovo». Hopkins avverte il dito di Dio entrare nella sua vita come un lampo. Lo scrive in maniera assolutamente biografica nel suo capolavoro, il poema Il naufragio del Deutschland, composto in memoria di cinque suore francescane tedesche, esiliate dalle leggi Falck e annegate la notte del 7 dicembre 1875 mentre erano in viaggio verso l'America. Dio è il ritmo del mare, quel flusso e riflusso che allaccia e slaccia, fa e disfa. «Come acqua di fonte, / sgorgo dalla tua mano, sballottato / come fossi pulviscolo nel raggio / di luce della tua onnipotenza» aveva scritto acquaticamente Hopkins in Primavera e autunno. La tragedia del naufragio, pur nel suo nero e violento terrore, anzi nel suo «electrical horror», cede davanti alla luce di Cristo, che la raggiunge nella tempesta dei suoi passi («storm of his strides»). Sia egli pasqua in noi, fonte del giorno al nostro buio, lanterna cremisi dell'oriente: «Let him easter in us, be a dayspring to the dimness of us; be a crimson-cresseted east» sull'orizzonte marino in tempesta. «Rio delle Amazzoni / capitale delle sillabe dell'acqua, / padre patriarca, sei / l'eternità segreta / delle fecondazioni, / a te scendono fiumi come uccelli». Papa Francesco cita questi versi del Canto General di Pablo Neruda nell'esortazione apostolica Querida Amazzonia per descrivere un «sogno fatto d'acqua». Perché in Amazzonia «l'acqua è la regina, i fiumi e i ruscelli sono come vene, e ogni forma di vita origina da essa». Le acque sotterranee affiorano per abbracciarsi con l'acqua che scende dalle Ande. Le acque avanzano riunite, moltiplicate in percorsi infiniti, bagnando l'immensa pianura. Questa è la Grande Amazzonia, dove la vita tesse «il suo ordito nelle intimità dell'acqua». Francesco ama l'acqua perché sa che «il diritto all'acqua è determinante per la sopravvivenza delle persone e decide il futuro dell'umanità», e che «il rispetto dell'acqua è condizione per l'esercizio degli altri diritti umani». L'acqua è poesia e diritto. Si è persino chiesto se non stiamo andando verso la «grande guerra mondiale per l'acqua». E invece «è un dono che dovrebbe unire e non dividere, un dono che dovrebbe essere condiviso per promuovere la pace». Forse solo la poesia, con l'umiltà della sua voce, potrà salvare questo mondo», cantando «sor'acqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta». È sera. Gesù è davanti alla folla presso il lago di Tiberiade, uno specchio d'acqua esposto a improvvise tempeste di vento. Parla da una barca. Dice ai suoi discepoli: «Passiamo all'altra riva». È buio. Non sarà, però, una traversata al chiaro di luna. Il caos sopraggiunge sotto forma di acque tumultuose: d'improvviso si leva una grande tempesta di vento e le onde si rovesciano nella barca, tanto che ormai è piena.  Gesù se ne sta a poppa, sul cuscino, e dorme, E deve essere profondo questo sonno se Gesù non si sveglia neanche per le frustate delle onde e per l'acqua che ha invaso la barca. Che fa Gesù davanti alla forza oscura che sconvolge il mare? Si desta, minaccia il vento e dice al mare: «Taci, calmati!». Il mare per lui non è solamente «mosso»: urla, grida, e si dimena come un mostro. Ma poche parole servono all'evangelista Marco per farci capire che Gesù passa, senza turbamento, dal riposo all'azione: minaccia il caos e si impone sugli elementi cosmici. Il caos non disturba il sonno. E allora: subito il vento cessa e c'è una grande bonaccia (Vangelo secondo Marco 4,35-41). La potenza divina si manifesta nel dominio immediato della confusione che ci piomba addosso all'improvviso. Dio impone il suo i cosmos sul caos ed esorcizza i mostri ammutolendoli. Non abbiamo forse bisogno di questo per vivere?

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