Ha lasciato amorevolmente scritto (*) per noi che
siamo di fatto i Suoi posteri: C’era un paese che si reggeva sull’illecito.
Non che mancassero le leggi, né che il sistema
politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo
sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari
smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti
soldi non si è più capaci di concepire
la vita in altro modo) e questi mezzi si
potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di
favor i illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi
soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche
modo circolare e non privo d’una sua armonia. Nel finanziarsi per via illecita,
ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la
propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito;
anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene
comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Ohibò, chi avrà osato mai
scrivere tali cose? E chi era costui che vergando amorevolmente questi Suoi
pensieri, affinché i Suoi posteri non avessero a sprofondare nel baratro più
profondo, aggiungeva: Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è
usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa
ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione:
quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con
se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il
privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente
collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in
favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che
la sua condotta era non solo lecita ma benemerita. Ohibò, ohibò, chi è
stato costui? Quale menagramo, quale inveterato gufo? O rosicone che dir si
voglia? Quale mala pianta che sia attecchita nel giocondo e festevole paese? E
del paese addirittura ha lasciato scritto che:
Il paese aveva nello stesso tempo
anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni
attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o
illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era
disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si
vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci
rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del
bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune
s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre
epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava
alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località
all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni
gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per
evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto
la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva
amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività
illecite, normalmente esentate da ogni imposta. Di tanto in tanto, quando meno
ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando
piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che
avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In
quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita
della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti
d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile
stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e
strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i
tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare
l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti
gli altri. Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le
associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e
gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo
scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella
giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei,
da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza
lecita o illecita. In opposizione al
sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli
stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato
stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini,
illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema.
Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne
il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore
sistema possibile e di non dover cambiare in nulla. Così tutte le forme
d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un
sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale
moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il
vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque
dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una
pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo
attribuire: gli onesti. E già, “gli onesti” per l’appunto. Cosa
farne? Cosa farne di quelli ossequiosi delle leggi, delle regole e dei regolamenti
vari? Ché a quegli onesti, dinnanzi a quell’inverecondo scempio non veniva meno
la voglia di rettitudine e di rispetto del pubblico e del sociale. Ma ohibò, in
quel paese l’esempio calava dall’alto. Ohibò, e quale esempio! Ha scritto (**) un
tale che: (…). Su un totale di 957 parlamentari la percentuale di delinquenza
oggetto di indagini o accertata si aggira (…) tra il 9 e il 12%. Secondo
l’Istat, nel 2014 le varie forze di polizia hanno denunciato 2.812.000 di
reati. La popolazione adulta italiana (superiore ai 14 anni) si aggira intorno
ai 50.000.000. Poiché è ovvio che una sola persona commette in genere più
reati, la percentuale dei delinquenti si avvicina al 5%. Sicché la percentuale
di delinquenza tra i parlamentari è più del doppio di quella tra i cittadini
comuni. Se poi si dovesse calcolare lo sterminato numero di politici non
parlamentari e tuttavia delinquenti, la categoria ne uscirebbe schiacciata.
(…). È nella premessa che il 9/12% dei politici rubano. I loro colleghi che non
rubano possono essere al corrente del misfatto oppure no. Nel primo caso –
quando sanno che il collega ha effettivamente rubato – non denunciarlo
costituisce un reato (art. 361 del codice penale, punito con la risibile pena
di una multa tra i 30 e 516 euro; ma sempre reato è), se poi, chiamati a votare
per consentire ai giudici l’utilizzabilità di intercettazioni telefoniche o
autorizzare perquisizioni o arresti, negano l’una e l’altra, essendo
consapevoli che il loro collega è un delinquente, commettono anche il reato di
cui all’art. 378, favoreggiamento personale; che può essere aggravato se si tratta
di reato di mafia. Non proprio “rubare”, come si vede; ma delinquere sì. (…). Tale
era lo scempio agli occhi degli onesti. Che nondimeno, divenuti netta minoranza
nel paese, diversamente acculturati sfuggendo alla malia del mostruoso schermo
alla quale si prosternava la maggioranza del giocondo paese, continuavano
stoicamente ad aver rispetto delle leggi, delle regole e dei regolamenti e ad
accorrere coscienziosamente e puntualmente alle urne ogni qualvolta se ne approntavano
nelle sedi convenute, fossero elezioni o qualsivoglia referendum. Sempre! Come
ad ogni buon cittadino si prescrive. Ha lasciato scritto ancora per i Suoi
posteri quel tale: Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano
richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non
avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento
caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se
le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro,
se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che
collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria
alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva
sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli
scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che
fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano
troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere
non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel
potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri
paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una
società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più
probabile. Dovevano rassegnarsi
all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a
tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini,
di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva
mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere
nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a
dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se
vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà
degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine
al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità ,
di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito
per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di
qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora
detto e ancora non sappiamo cos’è.
(*) “Apologo
sull’onestà nel paese dei corrotti” di Italo Calvino, pubblicato sul
quotidiano la Repubblica del 15 di marzo dell’anno 1980, tratto da “Romanzi e
racconti” – volume 3°, “Racconti e apologhi sparsi”, i Meridiani, Arnoldo Mondadori editore.
(**) “La
delinquenza in politica è un fatto, non un’opinione” di Bruno Tinti, su “il
Fatto Quotidiano” del 28 di aprile 2016.
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