Avevo scritto in “Storiedallitalia” - n°
75 - del 20 di maggio ultimo scorso: “Storie
dall’Italia”. Anzi “Storie dell’Italia”, che sta meglio assai. Poiché penso che
esistano ben pochi paesi nell’intiero globo terracqueo nei quali gli ipocriti,
i saltimbanco ed i teatranti vari abbiano ad essere in un numero sì
sproporzionato. Oggi che il Giacinto Pannella detto “Marco” non c’è più, una
turba di turiferari vociferanti s’ingegna a lodarne la vita e le opere. Noi non
se ne conosceva nulla del Marco quale “uomo”, ma se ne conosceva assai del
Marco quale “politico”. E pur non volendo apparire od essere – nella generale
emozione del momento - il solito “bastian contrario”, o il solito “grillo
parlante”, al Marco quale “uomo politico”, che è la cosa che qui penso ci stia
particolarmente a cuore, non pensiamo di poter innalzare profumati incensi e
cesellare encomi solenni. Non possiamo e non lo vogliamo, per non venire a far
parte di quella turba d’incensatori d’accatto. Incensatori d’obbligo e di
mestiere, pronti a smentirsi non appena il venticello flebile dell’emozione,
sollecitata e solleticata dai media tonitruanti, si sarà affievolito – il
venticello intendo dire - nel turbinio del generale, inutile parlottare. Così
scrivevo in quel recentissimo mio post. Poiché accade, e penso che accada a
chiunque si segga su di una sedia e provi a vergare su di un foglio in bianco con
lo stilo o con la penna o a digitare, come faccio sul mio pc, i pochi pensieri coerenti
che fulminei attraversano la mente, penso che a tutti accada, dicevo, di
formulare e porsi all’improvviso una domanda: ma quel che vado pensando e che
voglio far divenire nero su bianco, insomma in poche parole che provo a
scrivere, ha un suo senso che possa essere condivisibile con altri? O sono
solamente le mie fumisterie, le mie fissazioni o farneticazioni? Accade sempre,
quando si voglia mettere nero su bianco, che quei pensieri che fulminei
attraversano la mente si comportino come dei “grilliparlanti” che
abbisognano, quei pensieri lì intendo dire, di essere afferrati per la coda e,
con certosina pazienza, essere spalmati sull’immacolato foglio di carta od
impressi sull’elettronico foglio di stampa del personal computer. Il processo è
sempre lo stesso, in un caso e nell’altro. Ed avviene così, in quell’opera di
certosina pazienza che la formulazione astratta dei propri pensieri inducano proprio
a chiedersi: farnetico o son desto? Il “Marco” lì è mancato all’affetto della
carissima Sua sfera degli umani il giorno precedente a quel posto lì. E quel
che mi venne di getto da pensare alla funerea notizia è tutto ciò che ho
scritto in quel post lì. E sempre con l’immancabile domanda, come un tarlo che
rode: ma che vado scrivendo? Poiché la “fatica” dello scrivere è cosa ben
diversa dallo sproloquiare: quella fatica lì impone allo scrivente, immancabilmente,
l’obbligo d’acciuffare per la coda i fulminei, fuggevoli pensieri e provare a
farne cose materiali e concrete quali sono parole scritte e frasi coerenti e compiute,
per l’appunto. E così avviene che, due giorni dopo appena, un arguto – come
sempre – editoriale di Marco Travaglio appaghi e renda quella fatica lì meno
pesante da portarsi appresso. Il post del Travaglio, apparso su “il Fatto
Quotidiano” del 22 di maggio, ha per titolo “Selfie col morto”.
Godiamocene l’arguzia:
Forse anche un fottuto guitto esibizionista
come Marco Pannella, se potesse commentare l’orgia di diabetica retorica e di
tartufesco unanimismo che accompagna il suo feretro, ne sarebbe schifato. Ed è
incredibile che, avendone avuto tutto il tempo, non abbia lasciato tra le sue
ultime volontà, insieme al brano musicale da suonare al suo funerale, anche
l’ordine perentorio di evitare ogni eccesso. Tipo il “Non fate troppi
pettegolezzi” annotato da Cesare Pavese sulla sua copia dei Dialoghi con Leucò
poco prima del suicidio. Nemmeno l’uomo politico che più a lungo ha spaccato
l’Italia tra ammiratori e contestatori delle sue battaglie giuste e dei suoi
altrettanti errori, delle sue poche vittorie e delle sue molte sconfitte, è
riuscito a sfuggire alla maledizione che vuole i neonati tutti belli, i vivi
tutti cattivi e i morti tutti buoni. È bastato che chiudesse gli occhi per
l’ultima volta, e già c’erano alti prelati pronti a insinuare a mezza bocca che
il Grande Mangiapreti si era convertito in articulo mortis, e più al Papa che
al Padreterno, facendolo paurosamente somigliare ad Andreotti che, come
scriveva Montanelli, “in chiesa parlava col prete mentre De Gasperi parlava con
Dio”. È bastato che si aprisse la camera ardente perché i social si riempissero
di morti di fama che postavano selfie col morto e autoscatti panoramici con
vista bara. Naturale prosecuzione del rito macabro e indecente dei selfie col
moribondo esibiti senza pudore dai politici in campagna elettorale, della cui
presenza per fortuna il trapassando non si accorgeva neppure più (“Come hai
trovato il nostro presidente del Consiglio?”, pare gli abbia domandato l’amico
Clemente Mimun dopo la visita di Matteo Renzi con Bobo Giachetti incorporato,
ottenendo da Pannella la seguente risposta: “Mica l’ho visto, non è ancora
venuto”). E poi la cascata ininterrotta di dichiarazioni dei politici, che per
strappare anche mezza riga di citazione sui giornali sproloquiavano del grande
vuoto che lascia Pannella e della loro grande amicizia con lui: anche se, in
vita, l’avevano sempre considerato un simpatico rompipalle, o un
drogato-spacciatore, o un corruttore di minorenni e maggiorenni, o un mezzo
frocio, o un serial killer di feti. Persino Maurizio Gasparri, persino Paola
Binetti. Tutti, nessuno escluso, al punto che qualche straniero capitato per
caso in Italia in questi giorni, leggendo tutta questa brodaglia, si
domanderebbe: dunque questo Pannella era il leader del partito di maggioranza?
E poi gli ettari di carta stampata dedicati agli “ultimi giorni”, a cui pare
abbiano assistito migliaia di persone, quante difficilmente ne avrebbe potute
contenere la famosa mansarda di via della Panetteria a Roma. Tutte depositarie
di una frase storica o di un’ultima volontà che poi si rivelava sempre la
penultima. Roba da far rimpiangere gli osceni applausi ai funerali, che un
tempo suonavano come suprema bestemmia ed estremo oltraggio, mentre oggi fanno
parte della normale, sguaiata coreografia da reality di chi non riesce più a
stare in silenzio per non sentire il vuoto dei propri pensieri e sentimenti.
Nelle migliaia di righe partorite da Francesco Merlo su Repubblica per
commemorare non tanto Pannella, quanto soprattutto se stesso nei panni del
vedovo inconsolabile, dopo vagonate di citazioni barocche (…), abbiamo colto
questa preziosa perla: “Da Pannella ho persino visto la foto di un fecaloma”.
Ecco, il fecaloma di Pannella. Se ne sentiva proprio il bisogno. Ed è già un
miracolo se la foto non è stata riprodotta sul giornale, a benefico degli avidi
lettori. (…). Del “Marco politico” ne ha scritto lo stesso giorno,
sullo stesso quotidiano, Massimo Fini con un pezzo che ha per titolo “Bravo Pannella, che diffidò sempre dei
partiti”, mettendo così in risalto, tra le altre poche buone azioni
politiche del Marco, quella che a parere dell’illustre opinionista risulta
essere l’azione Sua più eccelsa. Rileva a proposito di quella diffidenza che
quel Marco lì ebbe verso la struttura partitica per come si è venuta costruendo
e rafforzando nel corso dei tempi, struttura che è asfissiante ed al contempo
responsabile dell’inquinamento e “distorcimento” della vita politico-sociale
nel bel paese, rileva, dicevo, Massimo Fini come quella struttura lì stringa e
schiacci il singolo cittadino del bel paese nelle sue poderose tenaglie di
apparato rivelatosi distorcente e nefasto assai per una democrazia più matura e
più compiuta: (…). Il voto del cittadino singolo, libero, non intruppato in gruppi,
si diversifica e si disperde, proprio perché libero, laddove gli apparati dei
partiti, facendo blocco, o addirittura il loro leader, sono quelli che
effettivamente decidono chi deve essere eletto. Il voto di opinione, cioè il
voto veramente libero, non ha alcun peso rispetto al voto organizzato. Così
l’uomo libero, che per convinzione o temperamento non vuole assoggettarsi a
umilianti infeudamenti ai partiti, e che sarebbe il cittadino ideale di una
democrazia altrettanto ideale, ne diventa invece la vittima designata
contradicendo i principi della Rivoluzione francese (…). In questa situazione
torna l’eterna e cernysevskijana e leniniana domanda: che fare? Con il proprio
voto ai partiti i cittadini non riusciranno mai a liberarsi della loro
invadenza perché i partiti non rinunceranno mai a ridurre il loro potere, dato
che, come dice ancora la Weil, il loro fine primo se non anche ultimo è quello
di costantemente autopotenziarsi. Ci vorrebbe una rivolta sociale. Ma gli
italiani sono troppo deboli, fiacchi o rassegnati per una soluzione del genere.
E così continueremo in questa agonia in saecula saeculorum. Caro Marco,
ti sia lieve la terra che ti accoglie.
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