Da “Industria
e repressione sessuale in una società padana” di Umberto Eco (1962), tratto
da “Diario minimo”, prima edizione
Oscar narrativa Mondadori (ottobre 1988), pagg. 71-75: (…). 2. La “Pensée Sauvage”
(Saggio di ricerca sul campo). La giornata dell’indigeno milanese si svolge
secondo i ritmi solari elementari. Di buonora esso si sveglia per recarsi alle
incombenze tipiche di questa popolazione, raccolta di acciaio nelle
piantagioni, coltivazione di profilati metallici, concia di materie plastiche,
commercio di concimi chimici con l’interno, semina di transistori, pascolo di
lambrette, allevamento di alfaromeo e così via. L’indigeno tuttavia non ama il
suo lavoro e fa il possibile per evitare il momento in cui lo inizierà; quello
che è curioso è che i capi del villaggio paiono assecondarlo, eliminando ad
esempio le vie consuete di trasporto, divellendo le rotaie dei primitivi
tramways, confondendo la circolazione con larghe strisce gialle dipinte lungo
le mulattiere (con chiaro significato di tabù) e infine scavando profonde buche
nei punti più inopinati, dove molti’indigeni precipitano e vengono
probabilmente sacrificati alle divinità locali. È difficile spiegare
psicologicamente l’attitudine dei capi del villaggio, ma questa distruzione
rituale delle comunicazioni è legata senza dubbio a riti di risurrezione (si
pensa ovviamente che costringendo schiere di abitanti nelle viscere della
terra, dalla loro immolazione quale seme, nasceranno altri individui più forti
e robusti). Ma la popolazione ha immediatamente reagito con una chiara sindrome
nevrotica a questo atteggiamento dei capi, elaborando un culto nato
apparentemente per generazione spontanea, vero e proprio esempio di esaltazione
collettiva: il “culto della metropolitana da carico” (tube cult). Ad epoche
determinate si propaga cioè per la città “Il Rumore”, e gli indigeni vengono
posseduti dalla fiducia quasi mistica che un giorno enormi veicoli si
muoveranno nelle viscere della terra trasportando ogni individuo a velocità
miracolosa in qualsiasi punto del villaggio.
Il Dr. Muapach, un serio e
preparato membro della mia spedizione, si è chiesto anzi a un certo punto se
“Il Rumore” traesse origine da qualche fatto reale, ed è sceso in queste
caverne: ma non vi ha trovato nulla che potesse sia pure lontanamente
giustificare la diceria. Che i capi della città tengano a mantenere la
popolazione in uno stato di incertezza è provato da un rituale mattutino, la
lettura di una sorta di messaggio ieratico che i capi fanno pervenire ai loro
sudditi sul far dell’alba, il “Corriere della Sera”: la natura ieratica del
messaggio è sottolineata dal fatto che le nozioni che comunica sono puramente
astratte e prive di alcun riferimento con la realtà; in altri casi il
riferimento, come abbiamo potuto verificare, è apparente, così che all’indigeno
viene prospettata una sorta di controrealtà o realtà ideale nella quale egli
presume di muoversi come in una foresta dalle viventi colonne, vale a dire in
un mondo eminentemente simbolico e araldico. Tenuto costantemente in questo
stato di smarrimento, l’indigeno vive in una persistente tensione che i capi
gli permettono di scaricare solo nelle festività collettive, quando la popolazione
si riversa a frotte in costruzioni immense di forma elissoidale dalle quali
proviene senza interruzione un clamore spaventoso. Inutilmente abbiamo tentato
di entrare in una di queste costruzioni; con una diplomazia primitiva ma
smaliziatissima gli indigeni ce lo hanno sempre impedito, pretendendo che noi
si esibisse per l’accesso dei messaggi simbolici che apparentemente risultavano
in vendita, ma per i quali ci è stato chiesto un tale quantitativo di denti di
cane che noi non avremmo potuto pagare senza dovere in seguito abbandonare la
ricerca. Costretti dunque a seguire la manifestazione dall’esterno, dapprima si
era formulata l’ipotesi, avallata dai rumori fragorosi e isterici, che si
trattasse di riti orgiastici; ma in seguito ci si è fatta chiara l’orribile
verità. In questi recinti gli indigeni si dedicano, con il consenso dei capi, a
riti di cannibalismo, divorando esseri umani acquistati presso altre tribù. La
notizia di questi acquisti viene anzi data nei consueti messaggi ieratici mattutini,
dove si può assistere giorno per giorno a una vera e propria cronaca delle
acquisizioni gastronomiche; dalla qual cronaca emerge che particolarmente
pregiati sono gli stranieri di colore, quelli di alcuni ceppi nordici e in gran
quantità gli ispano-americani. A quanto ci è stato dato di ricostruire, le
vittime vengono divorate in enormi portate collettive composte da più
individui, secondo complicate ricette che vengono pubblicamente esposte per le
strade, nelle quali si presenta una sorta di posologia non ignara di
reminiscenze alchemiche, del tipo di “3 a 2”, “4 a 0”, “2 a 1.” Che il
cannibalismo non rappresenti tuttavia una semplice prescrizione religiosa ma un
vizio diffuso, radicato in tutta la popolazione, è dimostrato dalle somme
enormi che gli indigeni paiono spendere per l’acquisto dei cibi umani. Pare
tuttavia che presso i gruppi più abbienti questi banchetti domenicali suscitino
un vero e proprio terrore, in modo che, nel momento in cui la maggior parte
della popolazione si avvia ai refettori collettivi, i dissidenti si danno a una
fuga disperata lungo tutte le vie di uscita dal villaggio, urtandosi
disordinatamente, calpestandosi con i veicoli, perdendo la vita in sanguinosi
tafferugli. Sembra che costoro, presi da una sorta di menadismo, intravedano
come unica salvezza la via del mare, dato che la parola che ricorre con maggior
insistenza in questi esodi sanguinosi è “la barca”. Il basso livello
intellettuale degli indigeni è dimostrato dal fatto che essi evidentemente
ignorano che Milano non si trova sul mare; e così scarsa è la loro capacità di
memorizzazione che ad ogni domenica mattina si danno alla consueta fuga
precipitosa per rientrare nella città in mandrie spaurite la sera stessa,
cercando rifugio nelle proprie capanne, pronti a dimenticare la loro cieca
avventura il giorno dopo. D’altra parte sin dai suoi primi anni il giovane
nativo viene educato in modo che lo smarrimento e l’incertezza siano posti a
fondamento di ogni suo gesto. Tipici a questo proposito sono i “riti di
passaggio” che hanno luogo in locali sotterranei, dove i giovani vengono
iniziati a una vita sessuale dominata da un tabù inibitivo. Caratteristica è la
danza che essi praticano, in cui un giovane e una giovane si pongono l’uno di
fronte all’altra dimenando le anche e muovendo avanti e indietro le braccia
piegate ad angolo retto, sempre in modo che i corpi non si tocchino. Già da
queste danze traspare il più totale disinteresse da parte di ambo i
partecipanti, completamente ignari l’uno dell’altro, tanto che quando uno dei
danzatori si piega assumendo la posizione consueta dell’atto sessuale –
mimandone le fasi ritmiche – l’altro si ritrae come inorridito e cerca di
sfuggire curvandosi talvolta sino a terra; ma nel momento in cui l’altro, ormai
pervenuto a raggiungerlo, potrebbe usare di lui, se ne allontana di colpo
ristabilendo le distanze. L’apparente asessualità della danza (un vero è
proprio rito iniziatico improntato a ideali di astinenza totale) è tuttavia
complicato da alcuni particolari osceni. Infatti il danzatore maschio, anziché
ostentare normalmente il membro nudo e farlo roteare tra gli applausi della
folla (come farebbe qualsiasi nostro fanciullo partecipando a una festa
sull’isola di Manus o altrove), lo tiene accuratamente coperto (lascio
immaginare al lettore con quale impressione complessiva di ribrezzo per
l’osservatore anche più spregiudicato). Del pari la danzatrice non lascia mai
scorgere i seni, e sottraendoli alla vista dei presenti contribuisce ovviamente
a creare desideri insoddisfatti che non possono non provocare frustrazioni
profonde. Il principio di frustrazione come costitutivo del rapporto pedagogico
appare del resto funzionare anche nelle assemblee degli anziani, ugualmente
compiute in sottordine, dove apparentemente si celebra un ritorno ai valori
morali-naturali elementari: infatti una danzatrice appare lubricamente coperta
di indumenti e gradatamente si spoglia mostrando le proprie membra, in modo che
l’osservatore è portato a pensare che si stia qui preparando una risoluzione
catartica dell’emozione, che dovrebbe sopravvenire quando la danzatrice si
mostrasse pudicamente nuda. In realtà – per ordine espresso dei capi, come ci è
stato dato di appurare – la danzatrice all’ultimo conserva alcuni indumenti
fondamentali, oppure fìnge di toglierseli per scomparire, nell’istante in cui
accenna a farlo, nel buio che improvvisamente invade la caverna. In tal modo
gli indigeni escono da questi luoghi ancora in preda alle loro turbe. Ma la
domanda che il ricercatore si pone è la seguente: sono lo smarrimento e la
frustrazione veramente effetto di una decisione pedagogica consapevole, oppure
concorre a questo stato di cose, influenzando le stesse decisioni dei capi e
dei sacerdoti, qualche causa più profonda connessa alla stessa natura
dell’habitat milanese? Terribile domanda, perché in questo caso si porrebbe il
dito sulle sorgenti profonde della mentalità magica che possiede i nativi, e si
discenderebbe alle madri oscure da cui si origina la notte dell’anima di
quest’orda primitiva.(…).
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