Da “Un dovere
per i giudici schierarsi sul referendum” di Armando Spataro, sul quotidiano
la Repubblica dell’8 di maggio 2016: Caro direttore, ebbene sì, lo confesso: ho
aderito da subito al Comitato promotore per il "No" in vista del
referendum confermativo della recente riforma costituzionale. (…). …si tratta,
(…), di un diritto costituzionale di cui anche il magistrato - come ogni
cittadino - è titolare e che viene oggi contestato, in misura ben più dura di
quanto avvenne nel 2006, quasi che una "militanza civica" comporti
rinuncia alla propria libertà morale e di giudizio, quasi che una simile
testimonianza abbia il significato dello schierarsi "contro" qualcuno,
piuttosto che "per" valori e principi. Bisogna invece chiedersi
perché mai un premier debba proporre una interpretazione impropria del
referendum governativo: "per me" o "contro di me",
annunciando l'impegno di dimettersi in caso di vittoria del "No"!
Perché mai questa scelta, visto che si tratta di una riforma voluta da una
oscillante maggioranza di governo e non certo da un vasto schieramento
trasversale, politicamente e culturalmente solido? La risposta pare risiedere
nelle modalità di comunicazione per spot e tweet che l'attuale contesto storico
sociale sembra imporre, sicché conviene - secondo alcuni - proporsi ai
cittadini invocando fiducia nella propria immagine e nella propria capacità
manageriale (con brand del tipo: "meno spese e tempi rapidi per le leggi!
Via i laccioli del bicameralismo che compromettono la governabilità del paese e
l'azione dell'esecutivo!") senza doversi far carico di un difficile e
motivato confronto con le preoccupazioni di chi ricorda che la nostra
Costituzione fu approvata dopo diciotto mesi di lavoro da 556 parlamentari e
giuristi di ogni estrazione, mentre questa riforma, anche attraverso mozioni di
fiducia e tagli di emendamenti, ricorda piuttosto, almeno quanto al metodo,
quella bocciata nel 2006, scritta da quattro "saggi" durante alcuni giorni
estivi trascorsi a Lorenzago di Cadore. (…). Non esiste un "Governo
costituente", specie se nato da una maggioranza partorita da una legge
dichiarata incostituzionale, anche perché - come ha scritto L. Ferrajoli -
"se c'è una questione che non ha niente a che fare con le funzioni di
Governo è precisamente la Costituzione". (…). Bisogna ricordare a tutti
che ben 56 costituzionalisti, tra cui 11 ex presidenti della Consulta e molti
"saggi" in precedenza nominati per contribuire alla riforma della
Costituzione, si sono schierati pubblicamente per il "NO", pur con
rilievi ricchi di spunti propositivi. Bisogna far conoscere le argomentate ragioni
dei numerosi altri professori del Comitato per il NO che hanno criticato il
futuro pericolo di squilibrio tra le componenti del Parlamento, quello di
indebolimento delle autonomie regionali, nonché il rischio di influenza del
Presidente del Consiglio nelle nomine degli organi di garanzia (dal Capo dello
Stato ad una parte dei membri della Consulta e del CSM). E tanto altro potrebbe
dirsi. (…). A tanti di noi, (…), tale impegno appare doveroso anche se, come ha
detto Paolo Borgna, esso va attuato, "rifuggendo da atteggiamenti di
schieramento e da logiche di amico-nemico" e ricordando quanto avvenne nel
gennaio del 2005 e del 2010, in occasione delle cerimonie di inaugurazione
dell'anno giudiziario, allorché tutti i magistrati italiani vi parteciparono
stringendo in mano, ben visibile, una copia della Costituzione, quel pezzo di
carta - disse Calamandrei - che non va lasciato cadere inerte al suolo. (…).
Da “L’equivoco
del plebiscito” di Salvatore Settis, sul quotidiano la Repubblica del 3 di
maggio 2016: Chiunque intenda il referendum d’autunno sulla Costituzione come un
plebiscito pro o contro il governo fa un errore di grammatica istituzionale. La
Costituzione non è un regolamento condominiale. Non si riforma per comodo di
chi governa, né si respinge se l’attuale governo non ci piace. Le Costituzioni
vanno pensate “per sempre”: come quella americana, che dal 1789 ha avuto solo
27 emendamenti, dei quali dieci tutti insieme, e dal 1992 nessuno. Ma
l’equivoco del plebiscito oscura la sostanza dei problemi, spinge a trattare il
tema come una competizione sportiva e non come una discussione sul merito, da
valere nei tempi lunghi. Dimenticando che dalla tenuta della Costituzione
dipende la vita della democrazia, anzi della Repubblica. Certo, non è facile
discutere nel merito una riforma che modifica in un sol colpo 47 articoli della
Carta; mentre dal 1948 ad oggi si erano cambiati 43 articoli, a uno a uno,
seguendo l’aureo principio secondo cui le revisioni della Costituzione devono essere
«puntuali e circoscritte, con una specifica legge costituzionale per ogni
singolo emendamento» (Pizzorusso). Nonostante questa valanga di modifiche, è
assolutamente necessario entrare nel merito. Con un intervento tanto invasivo,
è statisticamente improbabile che vada tutto bene o tutto male. Proverò a
indicare due punti che ritengo accettabili e due che mi paiono da respingere.
Va bene aggiungere la “trasparenza” tra i requisiti dei pubblici uffici (art.
97). La parola non era nel linguaggio politico del 1948, lo è adesso. Forse non
è proprio la Costituzione il luogo per dirlo, ma in fondo perché no? Altro
punto su cui si può esser d’accordo, la restrizione del potere del governo di
emanare decreti legge (art. 77). Ma punti ancor più importanti suscitano gravi
preoccupazioni. Ne indico solo due. L’art. 67 della Costituzione vigente dice:
«Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni
senza vincolo di mandato» (ossia senza obbligo di ubbidienza verso il partito,
ma con piena responsabilità personale). Questo principio è stato già svilito
dall’indecorosa migrazione di parlamentari da un partito all’altro (a fine
gennaio 2016 si contavano 325 metamorfosi dei voltagabbana di questa
legislatura). Ma nella proposta di riforma costituzionale il testo vigente,
breve e chiaro, viene smembrato e disfatto. Il nuovo articolo 67 direbbe
infatti: «I membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di
mandato ». Scompaiono le parole «rappresenta la Nazione», trapiantate (depotenziandole)
nell’art. 55, da cui risulta che «Ciascun membro della Camera dei deputati
rappresenta la Nazione». Avremo dunque un Senato i cui membri non rappresentano
piú la Nazione, perché «il mandato dei membri del Senato è connesso alla carica
ricoperta a livello regionale o locale» (cosí la relazione esplicativa). Ma
siccome gli ex Presidenti della Repubblica saranno senatori a vita, avremo
l’assoluta meraviglia di Presidenti come Ciampi e Napolitano che non
rappresenteranno più la Nazione, bensì le istanze locali. Ma come verrà eletto,
secondo la riforma, il Presidente della Repubblica? Lo faranno deputati e
senatori, come ora (art. 83). Ma con una differenza importante. Oggi il
Presidente è eletto con una maggioranza di due terzi dell’assemblea nei primi
tre scrutini (così nel caso di Ciampi, 1999), con la maggioranza assoluta dal
quarto in poi (così Napolitano, 2006). In futuro, se la riforma sarà approvata
nel referendum, non sarà più così. Nei primi tre scrutini resta valida la
maggioranza di due terzi dell’assemblea, dal quarto in poi si passa ai tre
quinti dell’assemblea; ma la vera novità della riforma scatta a partire dal
settimo scrutinio: da questo momento in poi basterà la maggioranza assoluta non
più dell’assemblea, bensì dei votanti. In altri termini, se al settimo
scrutinio dovessero votare solo 20 fra deputati e senatori, a eleggere il
Presidente basteranno 11 voti. Gli assenti dall’aula avranno sempre torto. Si
aprirebbe così la gara a colpi di mano, delegittimazioni, conflitti procedurali.
Un Presidente eletto cosí, certo, non «rappresenta la Nazione» nemmeno quando è
in carica, figurarsi da senatore a vita. Chi ha votato questo articolo in aula
doveva essere davvero assai distratto. Nel merito bisogna entrare (non lo farò
ora) anche sul neo-bicameralismo che nasce dal nuovo Senato non elettivo. È difficile, è vero, render conto dell’intrico
di competenze fra le due Camere quale risulta dall’ammucchiata verbale della
riforma (l’art. 70, nove parole nella Costituzione vigente, ne conta 434 nel
nuovo). Ma è importante parlarne nel merito: perché criticare il “bicameralismo
perfetto” della Costituzione vigente non vuol dire necessariamente
sottoscrivere un testo che «non funzionerà mai e complicherà in modo
incredibile i lavori del Parlamento» (Ugo De Siervo). Davanti a enormità come
quelle degli artt. 67 e 83 (e non sono le sole), c’è da chiedersi perché mai
l’elettore debba essere obbligato a votare in blocco con un SI’ a tutto
(comprese le modifiche che detesta) o con un NO a tutto (comprese quelle su cui
è d’accordo). È stato uno svarione istituzionale cucinare in un unico testo una
riforma tanto estensiva; ma è ancora possibile rimediare in parte segmentando i
quesiti referendari in più punti, come propone il documento firmato da 56
costituzionalisti, fra cui 11 presidenti emeriti della Corte Costituzionale.
Sarebbe più rispettoso della Costituzione, degli elettori, della democrazia. Ma
il governo avrà il coraggio di farlo?
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