Da “Governare
il disordine, la sfida dei nuovi leader” di Thomas L. Friedman, sul quotidiano
la Repubblica di sabato 23 di maggio dell’anno 2015: (…). …per adesso il mio candidato
preferito al titolo di autore del miglior incipit di un articolo di
informazione quest’anno è Tom Goodwin, dirigente di Havas Media, il cui
intervento del 3 marzo su Techcrunch. com iniziava così: “Uber, la più grande
compagnia di taxi al mondo, non possiede vetture. Facebook, proprietario del
social network più popolare del mondo, non crea contenuti. Alibaba, il
rivenditore più efficace al mondo, non ha beni inventariati. E Airbnb, il più
grosso fornitore al mondo di soluzioni ricettive, non possiede alcun bene
immobiliare reale. Stiamo assistendo a qualcosa di molto interessante”. Questo
è poco ma sicuro. Ci troviamo all’inizio di una trasformazione molto
significativa di ciò che vale la pena possedere. Le aziende di cui parlavamo
hanno in comune una cosa: tutte hanno creato piattaforme fiduciarie nelle quali
l’offerta incontra la domanda per oggetti e servizi che nessuno aveva pensato
in precedenza di mettere a disposizione — una camera da letto in più nella
propria casa, un posto a bordo della propria auto, un contatto commerciale tra
un piccolo negoziante del Nord Dakota e un piccolo artigiano in Cina; oppure
sono tutte piattaforme comportamentali che hanno generato come sottoprodotto
informazioni di altissimo valore per i rivenditori al dettaglio o i
pubblicitari, o ancora sono tutte piattaforme comportamentali nelle quali la
gente comune può farsi un nome — per come guida, per come ospita qualcuno o per
qualsiasi altra competenza si possa immaginare — per poi offrirsi al mercato su
scala globale.
Tutto ciò nasce dalla crescita esponenziale dell’informatica —
dalla potenza alla possibilità di archiviare e fare rete, a quella di generare
e far interagire sensori e software — che ci consente sia di raccogliere enormi
quantità di dati sia di applicare a questi ultimi programmi software in grado
di evidenziarne gli schemi a una velocità e con una portata finora sconosciute.
Tutto ciò sta rendendo meno complicate molte cose, come chiamare un taxi,
prenotare una stanza a casa di qualcuno a Timbuctu, comprare verdura fresca,
imparare da chiunque e ovunque a disegnare un pezzo di aeroplano da produrre
con una stampante 3D in una sola settimana invece che in sei mesi. Ogni
complessità sta per emanciparsi. Un recente studio dell’Oxford Martin School è
giunto alla conclusione che negli Stati Uniti entro i prossimi vent’anni il 47
per cento dei posti di lavoro corre un rischio molto alto di essere sostituito
da macchine e software intelligenti. La cosa più singolare, fa notare James
Manyika, direttore del McKinsey Global Institute e coautore di No Ordinary
Disruption , è che contrariamente a quanto si potrebbe supporre da questo punto
di vista corrono maggiori rischi i lavoratori della conoscenza che occupano i
vertici e le posizioni intermedie, rispetto a chi svolge il lavoro fisico vero
e proprio. Per generare oltre tremila comunicati finanziari al trimestre, per
esempio, l’Associated Press adesso utilizza computer, non più giornalisti.
Questo processo da un lato può affrancare i lavoratori e far sì che si occupino
di mansioni più creative, per svolgere le quali dall’altro lato devono essere
formati. In geopolitica sussistono grandi contrapposizioni di potere, ma lo
spartiacque più rilevante nel mondo di oggi non è più quello tra Oriente e
Occidente, capitalisti e comunisti: sempre più spesso sarà quello tra Mondo
dell’Ordine e Mondo del Disordine, a mano a mano che le pressioni di natura ambientale,
settaria ed economica faranno piazza pulita di stati deboli e falliti. Tutti i
giorni, ormai, leggiamo sui quotidiani di chi fugge dal Mondo del Disordine
verso il Mondo dell’Ordine. I rohingya, un gruppo composto per lo più da
musulmani, stanno cercando di raggiungere Tailandia e Malesia dal Myanmar e dal
Bangladesh; africani e arabi fanno di tutto per guadare il Mediterraneo e
raggiungere l’Europa; dall’America centrale alcuni genitori hanno mandato negli
Stati Uniti migliaia di loro figli. La settimana scorsa il Washington Post ha
reso noto che il governo di Israele ha iniziato a spedire una lettera ai 45mila
profughi eritrei e sudanesi — arrivati in Israele a piedi, con mezzi di fortuna
o via mare, alla ricerca di ordine e lavoro — per comunicare loro che hanno un
mese di tempo a disposizione per accettare 3.500 dollari in contanti e un
biglietto di sola andata per rimpatriare o trasferirsi in un non ben
identificato paese terzo in Africa, perché in caso contrario potranno finire in
carcere. L’anno scorso l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi e i
rifugiati ha comunicato che in tutto il globo si contano più sfollati — 50
milioni circa — di quanti ce ne siano mai stati dalla Seconda guerra mondiale
in poi. Il guaio è che non sappiamo proprio che cosa fare. Un tempo, per
controllare molti di questi paesi nei quali regna il disordine facevamo
affidamento su imperi, colonizzatori e dittatori, ma ormai viviamo in un’era
postimperialista, post-colonialista e in qualche caso perfino post-dittatoriale.
Nessuno vuole occuparsi delle zone nelle quali il disordine permea ogni cosa,
perché tutto ciò che se ne ha in cambio è un conto da pagare. Per di più, la
maggior parte di questi paesi è del tutto incapace di autogovernarsi in modo
democratico. Chi assumerà dunque il controllo di queste aree? E se la risposta
fosse “nessuno”? Questa sarà una delle più serie sfide di leadership del
prossimo decennio. (…).
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