Da “La
grande bugia della fame nel mondo”, tratto da un resoconto del giornalista Riccardo Staglianò a seguito dell’incontro con lo scrittore argentino Martin Caparros,
a margine della presentazione del volume “La
fame” – Einaudi editore, pagg. 722, € 26 -, resoconto pubblicato sul
settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 22 di aprile 2016: Che
colossale abbuffata di ipocrisia si consuma intorno alla fame. Prima l’hanno
ribattezzata «insicurezza alimentare», come se depotenziarla linguisticamente
la rendesse meno micidiale. Poi hanno truccato le statistiche, per vantare
inesistenti progressi in questa lotta che è di Sisifo solo per il sostanziale
disinteresse di chi la combatte. Intanto i misteri abbondano: produciamo cibo
per dodici miliardi di persone e tuttavia quasi un miliardo su sette di quelle
che abitano sulla terra non ha di che riempire il piatto. La scomoda verità è
che chi fa la fame oggi non lo deve tanto alla povertà propria quanto alla
ricchezza altrui. Succede perché i due terzi di aiuti all’India vanno a finire
nelle tasche dei funzionari corrotti. O perché la stessa percentuale dei soldi
stanziati dagli Stati Uniti in realtà resta a ingrassare l’economia americana.
O perché la Monsanto ha messo in piedi uno schema ricattatorio per lucrare sui
semi. O perché i derivati sul grano valgono cinquanta volte di più della produzione
del grano e questa e altre speculazioni hanno fatto triplicare il prezzo dei
cereali, rendendoli proibitivi per chi ne aveva un bisogno vitale. Tutto
questo, assai genericamente, lo sappiamo. Salvo poi dimenticarlo il giorno
dopo. È un meccanismo di difesa normale quello di scrollarsi di dosso fardelli
insopportabili per continuare a vivere. Sino a quando non arriva qualcuno che
ci rispiega tutto a un livello di risoluzione inedito, offrendo il contesto
storico che ci ha portati sin qui, e la storia prende un senso nuovo, più
nitido e urgente. È successo per la camorra con Roberto Saviano. (…).
Ho
incontrato Caparrós, fresco vincitore del Premio letterario internazionale
Tiziano Terzani 2016, quando è stato ospite del Festival Letteratura di
Mantova. (…). Tanto per non chiamarci fuori dalla catena delle responsabilità,
ho iniziato la conversazione leggendogli una sua frase sulla nostra categoria:
«Sono morti che non finiscono sui giornali. Non sarebbe possibile: farebbero
collassare i giornali». La fame, ho azzardato, avrebbe bisogno di un miglior
ufficio stampa? «Intanto è il problema altrui per antonomasia. Non è mai
direttamente nostro. Non siamo mai noi – noi che ci preoccupiamo
dell’ecosistema, dei diritti sessuali, della libertà d’espressione, della pace
in Medio Oriente – a soffrirne. Perché dovrebbe importarcene? Se ne avessi il
potere, però, pubblicherei una storia di fame al giorno. Anche non lunga, e
soprattutto non astratta, ma con un nome e un volto. Guardate cosa è successo
con la foto del piccolo Aylan, trovato morto su una spiaggia turca mentre
cercava rifugio in Europa. Sono convinto che lo stesso potrebbe accadere
parlando di affamati, piuttosto che di fame». (…). Il possente racconto si
snoda intorno ad alcune date chiave. La prima: anni 80. «È allora che si impone
il cosiddetto Washington Consensus con cui la Banca mondiale e il Fondo
monetario internazionale convincono, a forza di minacce riguardo i loro debiti
esteri, la maggior parte dei governi africani a ridurre l’ingerenza statale su
vari settori, a partire dall’agricoltura. In caso di raccolti scarsi o
carestie, i ministeri competenti non avrebbero più potuto combatterle
sovvenzionando alcuni alimenti oppure regolando i prezzi per legge». Senza
queste ragionevoli armi in Niger, negli anni successivi, migliaia di persone
che avrebbero potuto essere salvate morirono di fame. Una circostanza che, col
tempo, avrebbe sgretolato il consenso. «Al punto che più tardi la stessa Banca
mondiale avrebbe affermato che i sussidi all’agricoltura servono quattro volte
tanto rispetto a ogni altro sussidio nella riduzione della fame. Ma tra il 1980
e il 2010 la proporzione degli aiuti internazionali all’Africa destinati
all’agricoltura passò dal 17 al 3 per cento». La sagra delle parole vuote,
dalle bellezze in bikini ai funzionari internazionali in grisaglia, impazza
tragicomica. Con un’aggravante specifica e particolarmente odiosa che a
Caparrós non sfugge: «Mentre dicevano all’Africa che era peccato farlo, Stati
Uniti ed Europa sovvenzionavano i loro agricoltori con circa 300 miliardi di
dollari l’anno. Le vacche europee sono le creature con la maggiore sicurezza
alimentare del Pianeta. Per loro si spendono circa 2,70 dollari al giorno.
Perciò quando a un leader contadino di Vidarbha domandarono quale fosse il sogno
dell’agricoltore indiano, questi rispose: “Il sogno dell’agricoltore indiano è
reincarnarsi in una vacca europea”». Un’altra data importante, e ancora più
vaga, è quella in cui il mondo ha cominciato a essere in grado di produrre cibo
per tutti. Parla Caparrós: «Mi sono fatto l’idea che succeda a cavallo tra anni
80 e 90, ma mi piacerebbe che gli storici raccogliessero la sfida per una
datazione accurata. Oggi viviamo nel paradosso che produciamo cibo per 12
miliardi di persone eppure quasi un miliardo è ancora denutrito. Dove vanno a
finire i sei miliardi mancanti? Nei Paesi ricchi il 30-40 per cento lo
buttiamo. Poi ci sono altri sprechi, tipo che per produrre un chilo di salmone
in allevamento servono otto chili di altri pesci che lui si mangia. Quindi il
cibo c’è, ma è distribuito molto iniquamente. Per consentire a noi di sbafarci
un salmone o una bistecca serve che qualcuno che potrebbe mangiare altro non lo
faccia. L’aveva già fatto notare l’attivista Lester Brown ogni volta che gli
domandavano quanta gente è in grado di nutrire il nostro Pianeta: "Se
tutti mangiassimo come gli americani, che ingurgitano tra gli 800 e i 1.000
chili di cereali a testa l’anno, soprattutto attraverso le carni prodotte con
quei cereali, il raccolto mondiale di cereali potrebbe nutrire 2,5 miliardi di
persone. Se tutti mangiassimo come gli italiani, che consumano due volte meno
carne, si potrebbero nutrire 5 miliardi di persone. Se tutti seguissimo la
dieta vegetariana degli indiani potremmo nutrire 10 miliardi di persone". Quindi
dipende. (…). Per questo Caparrós si arrabbia per certe posizioni che trova un
po’ caricaturali, alla Vandana Shiva, sulla difesa della via naturale
all’agricoltura: «Da diecimila anni l’agricoltura è una lotta contro la natura,
perché non prenda il sopravvento, per sviluppare le astuzie di scegliere la
pianta che resiste meglio delle altre e così via». Il tentativo di fare della
natura una religione è tanto antico quanto pericoloso. L’autore cita la
seguente frase: «L’uomo che tenta di ribellarsi alla ferrea logica della natura
è coinvolto nella lotta contro i fondamenti cui deve la sua stessa esistenza
come uomo, perciò la sua azione contro la natura lo porta inevitabilmente alla
rovina» (…). Il problema, dunque, non sono affatto gli ogm che possono aiutare
e molto nella lotta contro la fame, ma il loro sfruttamento economico. Il fatto
che la Monsanto controlli il 90 per cento dei semi transgenici e che sia nella
condizione di dettare condizioni capestro ai contadini che vogliono usarli. In
questo schema, (…), il progresso tecnologico non è un tentativo di migliorare
la vita, ma di fare in modo che alcuni accumulino più ricchezza: «Si tratta,
dunque, di inventare un modo per impossessarsi di questi nuovi ritrovati: di
individuare azioni politiche per mettere le nuove tecnologie al servizio di
molti». L’ultima data è l’unica precisa: 1991. Fu in quell’anno che Goldman
Sachs decise che «il nostro pane quotidiano sarebbe potuto diventare un ottimo
investimento». I loro quant ruppero l’ultimo tabù creando una specie di paniere
finanziario che riproduceva l’andamento delle principali materie prime
alimentari. Nacque così il Goldman Sachs Commodity Index e la gente cominciò a
comprare le sue azioni. Nel 2003 gli investimenti valevano circa 13 miliardi di
dollari. Nel 2008 invece 317. E i prezzi, sia dei titoli che dei cereali
sottostanti (i due terzi delle nostre calorie provengono da riso, mais e
grano), in quella sorta di profezia autoavverante che è il mercato, salirono
alle stelle. I fortunati azionisti festeggiavano a ostriche preferendo non
rendersi conto che quegli aumenti significavano la contestuale condanna a morte
per milioni di persone meno fortunate per cui anche la palla di miglio era di
colpo diventata una chimera. Nell’ultimo anno i prezzi dei cereali sono scesi
di parecchio. C’entra il rallentamento dell’economia cinese e soprattutto la
caduta del prezzo del petrolio, grazie al fracking e altre variabili, che serve
per far funzionare i trattori. «La cosa mostruosa» (…) «è che, sebbene siano
arrivati a costare anche la metà di soli pochi anni fa, nei Paesi poveri questa
riduzione non si è vista. Si è misteriosamente fermata prima del livello dei
consumatori». Tra le tantissime cose che non sapevo (…) rientra anche
l’andamento del numero dei denutriti nel tempo. Nel senso: ero convinto che si
riducessero di anno in anno. È vero il contrario. Nel 1970 si calcolava che
fossero 90 milioni solo in Africa, nel 2010 oltre 400 milioni. Come se non
bastasse nel 1990 la Fao rinnega il metodo statistico usato sin lì e, rifacendo
i calcoli, sostiene che gli affamati del '70 nel mondo non erano 460 milioni ma
941 milioni. «La cosa permetteva di affermare che i 786 milioni di quel
momento, il 1990, non significavano un aumento della fame ma una diminuzione:
155 milioni di affamati in meno, un grande risultato». (…). In questa opera
mondo c’è così tanta roba che si rischia di perdersi. Caparrós ha un occhio
aguzzo per le disuguaglianze. Mette a confronto un ettaro americano, che
produce fino a 2.000 tonnellate di cereali, con un ettaro del Sahel, che ne
produce a stento uno, poco meno di quanto faceva un contadino della Roma
antica. Oppure denuncia la contraddizione interna indiana, decimo Paese più
ricco del mondo e primo per denutriti, che ogni tanto prova a mettere sul
problemino delle goffe pezze simil-etiche («Pensano di avere scelto di essere
vegetariani»). La verità è che siamo tanto più umani quanto più siamo sazi. E
siamo tanto più umani quanto minore è il tempo che dobbiamo dedicare a saziarci
(quasi tutto per gli animali, circa una settimana all’anno per i norvegesi:
l’autore lo chiama «grado di umanizzazione»). Omero usava «mangiatori di pane»
come sinonimo per uomini. La fame è anche una delle ragioni principali che
spiegano la differenza tra gli 82 anni di aspettativa di vita di un italiano
contro i 41 di un mozambicano o dei 38 di uno zambiano. Eppure quelle vite
dimezzate avranno un senso, nel grande schema delle cose, se Franklin Delano
Roosevelt aveva ragione a dire che «gli uomini bisognosi non sono uomini
liberi. La gente affamata e senza lavoro è la pasta di cui sono fatte le
dittature». Da allora il criterio per definire la classe media (che anche da
noi si sta riducendo) è sempre stato che essa spende, in cibo, meno di un terzo
dei propri introiti. Gli chiedo, nei tanti gironi di privazione che ha
visitato, cosa l’abbia colpito di più. «Sono così tante che non sempre do la
stessa risposta. Oggi mi viene in mente quella donna del Bangladesh che faceva
bollire delle pietre in un marmitta per dare l’illusione ai figli che c’era
qualcosa da mangiare. Così drammatico, e così inutile. Una metafora tra tante degli
inganni che si accettano». E quindi, alla fine, come cavolo facciamo a vivere
sapendo tutto questo? Ci pensa un po’, si liscia il baffo e con tutto il
coraggio del domatore di leoni dice: «Illudendoci di fare, ognuno per la sua
parte, qualcosa che riduca il problema. Anche se servirà a poco o a nulla.
Anche se, come mi hanno spiegato dei ragazzi di Medici senza frontiere, è come
sperare di fermare un’emorragia femorale con un cerotto. Eppure quel cerotto ce
lo mettono. Sempre. Giorno dopo giorno. Così dobbiamo fare noi. Non tanto per
l’etica del risultato, ma per la necessità che sentiamo di farlo. La storia ci
ha abituati alle sorprese. Perché dovremmo escludere di averne delle belle
anche qui?». (…).
Nessun commento:
Posta un commento