È primavera... svegliatevi bambine
alle cascine, messere Aprile fa il rubacuor.
E a tarda sera, madonne fiorentine,
quante forcine si troveranno sui prati in fior. (…).
Da “Mattinata fiorentina” di Rabagliati- D'Anzi - Galdieri
alle cascine, messere Aprile fa il rubacuor.
E a tarda sera, madonne fiorentine,
quante forcine si troveranno sui prati in fior. (…).
Da “Mattinata fiorentina” di Rabagliati- D'Anzi - Galdieri
Da “Tav, i confini del progresso e gli affari sporchi delle mafie” di
Salvatore Settis, sul quotidiano la Repubblica di giovedì 8 di marzo dell’anno
2012: (…). Per sviluppo, (…), dovremmo intendere il beneficio che deriverà al
Paese e ai cittadini da una "grande opera" dopo che sia stata
eseguita e sia entrata in funzione. Sempre più spesso, invece, si tende a
considerare "sviluppo" l'opera stessa, la mera mobilitazione di
banche e imprese, capitali (pubblici) e manodopera. Sterile progetto, se la
"grande opera" si rivelasse inutile o producesse guasti ambientali e
sociali. (…). In un racconto di Mario Soldati, “Il berretto di cuoio” (1967),
il protagonista, Aduo, è «lo scemo del villaggio», che però «non era affatto
uno scemo», era anzi «aperto, simpaticissimo, intelligente». Ma non lavorava,
non aveva un mestiere; un caso, dicevano i medici, «di sviluppo arrestato».
Finché, affascinato dal cantiere dell'autostrada Torino-Piacenza, scatta la
scintilla: assunto come guardiano, «lavorò per dieci», senza limiti di tempo,
dall'alba a notte fonda»; sempre «scrutando con rapide occhiate» i lavori
dell'autostrada, felice e attonito, con «lo sguardo che avrebbe potuto avere un
assoluto responsabile, unico appaltatore, unico progettista, unico azionista
dell'autostrada». Quando l'autostrada è finita, il tracollo: Aduo non può
vivere senza, non mangia e non beve, viene ricoverato. Una specie di
"complesso di Aduo" sembra aver preso alla gola troppi italiani, che
non sanno immaginare altro sviluppo che la cementificazione del suolo.
Distraendoci da altri investimenti più lungimiranti e produttivi, questo
modello di crescita alla cieca è, come quello di Aduo, uno "sviluppo
arrestato" che inceppa il Paese. Una risposta autoritaria non è
accettabile. È necessaria una discussione aperta e radicale, tanto più in tempi
di contenimento della spesa pubblica. È giusto spendere per la Tav, quando sono
allo sfascio ferrovie minori e treni notturni, anche internazionali? Non
sarebbe meglio potenziare le strutture esistenti, a cominciare dalla cintura
ferroviaria di Torino? È meglio costruire nuove grandi opere o arrestare il
degrado dei servizi sociali e della scuola? Viene prima la difesa del
paesaggio, dell'agricoltura e dell'ambiente o la (presunta) convenienza
economica della Tav? Unica bussola per rispondere a queste domande, la
Costituzione consacra la tutela del paesaggio e dell'ambiente: «La primarietà
del valore estetico-culturale», anzi, non può essere «subordinata ad altri valori,
ivi compresi quelli economici», e pertanto dev'essere «capace di influire
profondamente sull'ordine economico-sociale» (Corte Costituzionale, 151/1986).
I portatori (sani?) del "complesso di Aduo" dicono il contrario: che
le ragioni economiche sovrastano i principi del bene comune. (…).
Da “Un paese
dai piedi d’argilla” di Tomaso Montanari, sul quotidiano la Repubblica del 26
di maggio 2016: (…). La prima cura di cui le città storiche hanno bisogno è assicurare
che al loro corpo fragile non manchi il sangue vivo: che sono i cittadini, i
residenti stabili. Firenze, da questo cruciale punto di vista, è in caduta
libera: mentre gli abitanti scendono vertiginosamente (dal record di 500mila
siamo ora a 370mila), la monocultura del turismo scommette di portare la quota
annuale dei visitatori fino al tetto fatidico dei venti milioni. In questo
quadro di declino civile e urbano, anche scelte come la pedonalizzazione di
piazza del Duomo si sono rivelate dei fatali boomerang: perché, in assenza di
una pianificazione adeguata del trasporto pubblico, hanno di fatto
desertificato un’altra porzione cruciale della Firenze monumentale. Qualche
settimana fa, su un Lungarno non lontano dal crollo, è comparsa una grande
scritta: «No gentrification». Fa una certa impressione che una difficile parola
della sociologia urbana (che indica appunto la disneyficazione delle città, con
relativa espulsione dei residenti) diventi una bandiera della comunicazione dal
basso. È la città dei fiorentini a parlare: quella che teme di finire come
Venezia, che è ormai una meravigliosa quinta disabitata. Come nella Venezia del
Mose, anche a Firenze ci si illude di supplire alla mancanza di manutenzione
ordinaria attraverso le Grandi Opere: aggiungendo così danno a danno, pericolo
a pericolo. Torna in questi giorni attuale la dissennata idea di scavare
l’ennesimo, inutile parcheggio sotterraneo in piazza Brunelleschi: cioè a due
passi dalla fragile Cupola del Duomo. Ma c’è di peggio: incombe il progetto di
sventrare il centro storico per interrare la rete della tranvia, e non si è
ancora abbandonato il dispendiosissimo, antiquato e potenzialmente fatale
sottoattraversamento Tav della città ottocentesca e delle sue falde acquifere. Non
basta: è prossimo l’ampliamento di un aeroporto che rimarrà comunque da
operetta (l’unica scelta sensata era raddoppiare quello di Pisa, e creare una
navetta veloce come in una qualunque metropoli occidentale), ma sconvolgerà
l’equilibrio idrogeologico della piana fiorentina. Le immagini del Lungarno
Torrigiani sventrato sono un monito contro tutto ciò: nessuno potrà più dire
che non sapeva quanto il corpo di Firenze sia fragile, delicato, esposto. Più
in generale, invece di continuare a massacrare il tessuto dei nostri centri
storici, dobbiamo ricominciare a prendercene cura. Amiamo le nostre città
perché la loro bellezza è stata plasmata da una lunga storia: ma quella stessa
storia ha prodotto cicatrici, debolezze, pericoli che non possiamo ignorare. È
difficile tenerlo a mente in un’epoca che rimuove i segni del passaggio del
tempo dai corpi vivi delle donne e degli uomini, e anche dai corpi (non meno
vivi) delle opere d’arte più celebri, condannate ad un continuo, terribile
lifting che ambisce a cancellare la storia e troppo spesso ci restituisce una
bellezza astratta, disumana, inutile. È difficile perfino saperlo, in un Paese
dove invece di muoverci noi alla scoperta delle nostre mille città storiche,
preferiamo “movimentare” ogni anno 25.000 tra reperti archeologici e opere
antiche e moderne per alimentare un’insensata industria delle mostre. È
difficile riconoscerlo di fronte a una politica che rottama le soprintendenze,
sradica i grandi musei dal territorio e usa i centri storici come location. Siamo
pronti a usare il Colosseo come un palasport, a far suonare Elton John nel
teatro di Pompei, a coprire l’Arena di Verona come un auditorium: consumare,
valorizzare, sfruttare sembrano le uniche parole d’ordine. Ci sentiamo gli
utilizzatori finali di un patrimonio millenario. Sia chiaro: le città sono
fatte per essere vissute, e non dobbiamo scegliere tra passato e futuro. Il
punto, però, è costruire un futuro sostenibile, riprendendo ad investire sulla
manutenzione ordinaria e sul governo del territorio. Già nel 1955 Leo Longanesi
scriveva che «alla manutenzione l’Italia preferisce l’inaugurazione», e uno
storico dell’arte come Giovanni Urbani - il quale concepiva invece il restauro
come una conservazione generale dell’ecosistema di ambiente e arte, fondata su
una manutenzione programmata - dovette dimettersi dalla direzione dell’Istituto
Centrale del Restauro per la completa sordità della politica. Gli
amministratori sanno che la gestione ordinaria non dà visibilità, gloria
mediatica, ritorno di consenso: e dunque spingono sul pedale degli eventi,
delle grandi opere o dei restauri ad effetto. Dobbiamo guarire da questa
cecità. Se vogliamo dare un senso a quella ferita nel cuore di Firenze dobbiamo
riacquistare una dedizione quotidiana alla salute delle nostre città: in fondo
è proprio così che è nata, lentamente, la loro bellezza. Una bellezza di cui
siamo custodi, non padroni.
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