"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 8 maggio 2016

Oltrelenews. 87 “I costituzionalisti plebiscitari”.



Da “Un dovere per i giudici schierarsi sul referendum” di Armando Spataro, sul quotidiano la Repubblica dell’8 di maggio 2016: Caro direttore, ebbene sì, lo confesso: ho aderito da subito al Comitato promotore per il "No" in vista del referendum confermativo della recente riforma costituzionale. (…). …si tratta, (…), di un diritto costituzionale di cui anche il magistrato - come ogni cittadino - è titolare e che viene oggi contestato, in misura ben più dura di quanto avvenne nel 2006, quasi che una "militanza civica" comporti rinuncia alla propria libertà morale e di giudizio, quasi che una simile testimonianza abbia il significato dello schierarsi "contro" qualcuno, piuttosto che "per" valori e principi. Bisogna invece chiedersi perché mai un premier debba proporre una interpretazione impropria del referendum governativo: "per me" o "contro di me", annunciando l'impegno di dimettersi in caso di vittoria del "No"! Perché mai questa scelta, visto che si tratta di una riforma voluta da una oscillante maggioranza di governo e non certo da un vasto schieramento trasversale, politicamente e culturalmente solido? La risposta pare risiedere nelle modalità di comunicazione per spot e tweet che l'attuale contesto storico sociale sembra imporre, sicché conviene - secondo alcuni - proporsi ai cittadini invocando fiducia nella propria immagine e nella propria capacità manageriale (con brand del tipo: "meno spese e tempi rapidi per le leggi! Via i laccioli del bicameralismo che compromettono la governabilità del paese e l'azione dell'esecutivo!") senza doversi far carico di un difficile e motivato confronto con le preoccupazioni di chi ricorda che la nostra Costituzione fu approvata dopo diciotto mesi di lavoro da 556 parlamentari e giuristi di ogni estrazione, mentre questa riforma, anche attraverso mozioni di fiducia e tagli di emendamenti, ricorda piuttosto, almeno quanto al metodo, quella bocciata nel 2006, scritta da quattro "saggi" durante alcuni giorni estivi trascorsi a Lorenzago di Cadore. (…). Non esiste un "Governo costituente", specie se nato da una maggioranza partorita da una legge dichiarata incostituzionale, anche perché - come ha scritto L. Ferrajoli - "se c'è una questione che non ha niente a che fare con le funzioni di Governo è precisamente la Costituzione". (…). Bisogna ricordare a tutti che ben 56 costituzionalisti, tra cui 11 ex presidenti della Consulta e molti "saggi" in precedenza nominati per contribuire alla riforma della Costituzione, si sono schierati pubblicamente per il "NO", pur con rilievi ricchi di spunti propositivi. Bisogna far conoscere le argomentate ragioni dei numerosi altri professori del Comitato per il NO che hanno criticato il futuro pericolo di squilibrio tra le componenti del Parlamento, quello di indebolimento delle autonomie regionali, nonché il rischio di influenza del Presidente del Consiglio nelle nomine degli organi di garanzia (dal Capo dello Stato ad una parte dei membri della Consulta e del CSM). E tanto altro potrebbe dirsi. (…). A tanti di noi, (…), tale impegno appare doveroso anche se, come ha detto Paolo Borgna, esso va attuato, "rifuggendo da atteggiamenti di schieramento e da logiche di amico-nemico" e ricordando quanto avvenne nel gennaio del 2005 e del 2010, in occasione delle cerimonie di inaugurazione dell'anno giudiziario, allorché tutti i magistrati italiani vi parteciparono stringendo in mano, ben visibile, una copia della Costituzione, quel pezzo di carta - disse Calamandrei - che non va lasciato cadere inerte al suolo. (…).

Da “L’equivoco del plebiscito” di Salvatore Settis, sul quotidiano la Repubblica del 3 di maggio 2016: Chiunque intenda il referendum d’autunno sulla Costituzione come un plebiscito pro o contro il governo fa un errore di grammatica istituzionale. La Costituzione non è un regolamento condominiale. Non si riforma per comodo di chi governa, né si respinge se l’attuale governo non ci piace. Le Costituzioni vanno pensate “per sempre”: come quella americana, che dal 1789 ha avuto solo 27 emendamenti, dei quali dieci tutti insieme, e dal 1992 nessuno. Ma l’equivoco del plebiscito oscura la sostanza dei problemi, spinge a trattare il tema come una competizione sportiva e non come una discussione sul merito, da valere nei tempi lunghi. Dimenticando che dalla tenuta della Costituzione dipende la vita della democrazia, anzi della Repubblica. Certo, non è facile discutere nel merito una riforma che modifica in un sol colpo 47 articoli della Carta; mentre dal 1948 ad oggi si erano cambiati 43 articoli, a uno a uno, seguendo l’aureo principio secondo cui le revisioni della Costituzione devono essere «puntuali e circoscritte, con una specifica legge costituzionale per ogni singolo emendamento» (Pizzorusso). Nonostante questa valanga di modifiche, è assolutamente necessario entrare nel merito. Con un intervento tanto invasivo, è statisticamente improbabile che vada tutto bene o tutto male. Proverò a indicare due punti che ritengo accettabili e due che mi paiono da respingere. Va bene aggiungere la “trasparenza” tra i requisiti dei pubblici uffici (art. 97). La parola non era nel linguaggio politico del 1948, lo è adesso. Forse non è proprio la Costituzione il luogo per dirlo, ma in fondo perché no? Altro punto su cui si può esser d’accordo, la restrizione del potere del governo di emanare decreti legge (art. 77). Ma punti ancor più importanti suscitano gravi preoccupazioni. Ne indico solo due. L’art. 67 della Costituzione vigente dice: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» (ossia senza obbligo di ubbidienza verso il partito, ma con piena responsabilità personale). Questo principio è stato già svilito dall’indecorosa migrazione di parlamentari da un partito all’altro (a fine gennaio 2016 si contavano 325 metamorfosi dei voltagabbana di questa legislatura). Ma nella proposta di riforma costituzionale il testo vigente, breve e chiaro, viene smembrato e disfatto. Il nuovo articolo 67 direbbe infatti: «I membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato ». Scompaiono le parole «rappresenta la Nazione», trapiantate (depotenziandole) nell’art. 55, da cui risulta che «Ciascun membro della Camera dei deputati rappresenta la Nazione». Avremo dunque un Senato i cui membri non rappresentano piú la Nazione, perché «il mandato dei membri del Senato è connesso alla carica ricoperta a livello regionale o locale» (cosí la relazione esplicativa). Ma siccome gli ex Presidenti della Repubblica saranno senatori a vita, avremo l’assoluta meraviglia di Presidenti come Ciampi e Napolitano che non rappresenteranno più la Nazione, bensì le istanze locali. Ma come verrà eletto, secondo la riforma, il Presidente della Repubblica? Lo faranno deputati e senatori, come ora (art. 83). Ma con una differenza importante. Oggi il Presidente è eletto con una maggioranza di due terzi dell’assemblea nei primi tre scrutini (così nel caso di Ciampi, 1999), con la maggioranza assoluta dal quarto in poi (così Napolitano, 2006). In futuro, se la riforma sarà approvata nel referendum, non sarà più così. Nei primi tre scrutini resta valida la maggioranza di due terzi dell’assemblea, dal quarto in poi si passa ai tre quinti dell’assemblea; ma la vera novità della riforma scatta a partire dal settimo scrutinio: da questo momento in poi basterà la maggioranza assoluta non più dell’assemblea, bensì dei votanti. In altri termini, se al settimo scrutinio dovessero votare solo 20 fra deputati e senatori, a eleggere il Presidente basteranno 11 voti. Gli assenti dall’aula avranno sempre torto. Si aprirebbe così la gara a colpi di mano, delegittimazioni, conflitti procedurali. Un Presidente eletto cosí, certo, non «rappresenta la Nazione» nemmeno quando è in carica, figurarsi da senatore a vita. Chi ha votato questo articolo in aula doveva essere davvero assai distratto. Nel merito bisogna entrare (non lo farò ora) anche sul neo-bicameralismo che nasce dal nuovo Senato non elettivo. È  difficile, è vero, render conto dell’intrico di competenze fra le due Camere quale risulta dall’ammucchiata verbale della riforma (l’art. 70, nove parole nella Costituzione vigente, ne conta 434 nel nuovo). Ma è importante parlarne nel merito: perché criticare il “bicameralismo perfetto” della Costituzione vigente non vuol dire necessariamente sottoscrivere un testo che «non funzionerà mai e complicherà in modo incredibile i lavori del Parlamento» (Ugo De Siervo). Davanti a enormità come quelle degli artt. 67 e 83 (e non sono le sole), c’è da chiedersi perché mai l’elettore debba essere obbligato a votare in blocco con un SI’ a tutto (comprese le modifiche che detesta) o con un NO a tutto (comprese quelle su cui è d’accordo). È stato uno svarione istituzionale cucinare in un unico testo una riforma tanto estensiva; ma è ancora possibile rimediare in parte segmentando i quesiti referendari in più punti, come propone il documento firmato da 56 costituzionalisti, fra cui 11 presidenti emeriti della Corte Costituzionale. Sarebbe più rispettoso della Costituzione, degli elettori, della democrazia. Ma il governo avrà il coraggio di farlo?

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