A lato. Una immagine dall'Ucraina.
Dalla raccolta “Ommini e bestie” di Carlo Alberto
Camillo Mariano Salustri – in arte “Trilussa” - la “Riunione socialista” (1911):
Allora li vedevo all’osteria:
ereno una ventina e tutt’eguale,
uniti ner medesimo ideale
pe’ demolì la grassa borghesia.
Ma poi Checchino aperse un’aggenzia,
Pio diventò padrone d’un locale,
Giggetto fece un zompo ar Quirinale,
uno annò fora e un antro scappò via…
Mó so’ rimasti in tre: ma puro adesso,
co’ tutto ch’er partito sta abbacchiato,
la sera se riunischeno lo stesso.
Defatti l’antro jeri protestorno
contro la guerra, doppo avé votato
un litro asciutto e un ordine der giorno.
Di seguito, “L’amore degli animali in tempo di guerra” di Serenella Iovino, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri, sabato 12 di marzo 2022:
L'identificazione
è scattata quando li abbiamo visti abbracciati ai loro animali. Ed è stata
immediata: può capitare anche a me, ci siamo detti, e abbiamo cercato con lo
sguardo il nostro cane o gatto, provando a immaginarci come avrebbe reagito se
all’improvviso lo avessimo avvolto in una coperta e trascinato fuori, mentre la
città esplodeva. Che cosa avrebbe pensato, se ce lo fossimo portato di corsa in
un rifugio improvvisato, una metropolitana imbottita di gente o una cantina, al
buio, con acqua e cibo che non bastano, e la paura? Oppure al freddo, in un
trasportino di plastica, in cammino per strade interminabili coperte di neve,
costeggiate da filo spinato; o in un treno, stipato di donne e bambini e cose? Lui
si sarebbe affidato. E in tutte queste assurde circostanze, ci siamo detti, noi
non avremmo smesso di abbracciarlo. Per questo, quando abbiamo visto gli
ucraini insieme ai loro cani e gatti, ci è bastato un istante per capire che
sono come noi, che loro sono noi. È una cosa nuova e strana insieme, perché ne
abbiamo visti tanti, di rifugiati e migranti, profughi di guerre pazzesche, e
ci siamo commossi di fronte alle loro storie. Ma l’effetto identificazione non
c’era stato. Serviva un ponte, e il ponte erano loro: questi animali. La
presenza delle creature non umane nelle immagini dei teatri di guerra non è mai
stata così dirompente. Non che prima non ci fossero. Spesso anzi queste
creature sono state al fronte, al fianco dei soldati. Nella Grande Guerra, (…),
masse di animali - muli, asini, cavalli, e non solo - trasportarono nelle
trincee dolomitiche strumenti, armi, materiali, soldati, prigionieri. E sotto
le bombe, di guerra o di pace, innumerevoli animali sono caduti, anche per
valutare gli effetti (prevedibili) degli armamenti. Tra loro le migliaia di
capre, maiali e ratti sacrificati nell’esperimento nucleare americano condotto
al largo dell’atollo di Bikini nell’estate del 1946. Ne parlò anche Calvino,
che si chiese: «che cos’avranno pensato le capre, a Bikini?». Possiamo ancora
vederle nelle foto in rete, queste capre: ingabbiate in piccole strutture
metalliche, con accanto un secchio d’acqua e un po’ di paglia sparsa
tutt’intorno. Ora però è diverso, perché è la normalità degli animali ucrani
che c’interpella, siano essi domestici o in cattività, come quelli del Feldman
Ecopark di Kharkiv, bombardato a fine febbraio: 2000, per la maggior parte
uccisi e feriti, con i pochi superstiti terrorizzati sparsi per la città. Che
cos’avranno pensato i lupi rossi a Kharkiv? Difficile dirlo, ma la risposta in
fondo la conosciamo già: avranno avuto paura, esattamente come noi. Per secoli
una filosofia sorda alle loro voci ha scavato le sue trincee nel dualismo tra
noi e loro. Cartesio, e non era il solo, li vedeva come macchine, orologi
animati. Un secolo e mezzo di evoluzionismo e svariati decenni di ricerche di
etologia, zoologia, primatologia, antropologia multispecie e più umane filosofie
hanno però lavorato a colmare queste trincee. Ci hanno fatto capire che il loro
mondo è il nostro mondo, che il loro agire e la loro emotività esistono e si
combinano con le nostre. Anche per loro dormire in un rifugio significa
soffrire il freddo e la fame, e sentire l’insicurezza. Anche loro, come noi,
sono rifugiati e migranti. La loro pena è la nostra pena. Lo confermano le
immagini. Eppure, quanti li hanno visti (e ancora li vedono) come creature
imperfette, perse in un abisso di alterità e nell’oscurità dei loro istinti?
C’è cascato pure Emmanuel Levinas: proprio lui che, in risposta all’Olocausto,
costruì sul richiamo infinito e senza parole del volto dell’Altro la sua etica
della responsabilità. In un saggio intitolato Il nome di un cane o il diritto
naturale, Levinas, ebreo di Lituania che sarebbe diventato uno dei più grandi
filosofi di Francia, racconta la storia di Bobby, cane del lager. Comparso dal
nulla, ogni sera Bobby aveva l’abitudine di accogliere scondinzolando i
prigionieri che tornavano dal lavoro forzato. Solo loro però: non i nazisti,
che infatti presto lo fecero sparire. Bobby fu l’unico a guardarci come esseri
umani, dice Levinas, e in ciò fu l’«ultimo kantiano della Germania nazista».
Levinas dice questo, e però contemporaneamente aggiunge che a Bobby mancava «la
mente necessaria per universalizzare». Non aveva un volto, Bobby. Solo gli
umani ce l’hanno e quindi solo loro è il regno dell’etica. Eppure, che cos’era
quello scodinzolare se non un linguaggio, e che cos’era quel venir incontro
soltanto ai prigionieri se non l’espressione di un’etica? Distingueva tra il
bene e il male, Bobby, anche senza la “mente” o il concetto. Con la sua
specifica intelligenza riusciva a leggere segni intorno a sé che gli
permettevano di comunicare con gli umani che gli interessavano. La verità è
che, finché le nostre morali si baseranno su dualismi e petizioni di principio,
ci sarà sempre spazio per nuove trincee e nuove esclusioni: umane e non umane.
E invece la biologia ci precede, facendoci trovare vicini già da sempre, nei
rifugi e nelle dimore: ce lo dice tutto il cammino evolutivo fatto insieme.
Perché, come ci ricorda un’altra filosofa, Donna Haraway, le specie nascono
solo quando s’incontrano; e umani e cani sono specie compagne. I nostri geni si
parlano come i nostri giochi, siamo emersi insieme dalla stessa alba evolutiva:
quella in cui gli ominidi erano prede, e nel cercare rifugio si sono trovati
insieme a piccoli lupi, che hanno preso con sé, selezionando quelli che
percepivano come più docili o affidabili. È da questo incontro che è scaturita
sia la nostra specie che, da alcuni di quei lupi, il cane. E dinamiche di
coevoluzione si riconoscono con altre specie compagne o commensali: gatti,
cavalli, maiali, bovini... Siamo vicini nell’essere al mondo. Per questo, i
nostri animali ci avvicinano agli altri, e ci rendono umani. Sono loro i nostri
corridoi umanitari.
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