Ha scritto l’amica carissima Agnese A. a commento
del post di ieri: “La lettura di questo stupendo post è una preziosa fonte di riflessioni
fondamentali e necessarie. "L'intera Europa sta al gioco paranoide del
despota Putin, parla la sua stessa lingua, invoca lo stesso fuoco della
guerra..." (Tomaso Montanari). Purtroppo bisogna prendere atto del fatto
che l'Unione Europea ha ormai intrapreso un percorso contrario a quello che è
il proprio principio fondatore: promuovere la pace. Infatti ha scelto di
affermarsi come potenza militare globale. E tutto ciò è veramente pericoloso e
preoccupante, perché il militarismo alimenta solo tensione, instabilità,
distruzione e devastazione e non contribuisce mai alla stabilità e alla pace. (…)”.
E di quella “paranoia” (?) ne ha scritto oggi sul quotidiano “la
Repubblica” lo psicoterapeuta Massimo Recalcati in “Il narcisismo bellico di Putin”: (…). …tutti i regimi non
democratici sono tendenzialmente sospinti verso la guerra perché, rigettando il
difficile lavoro del lutto, perseguono una realizzazione della verità che
esclude forzatamente la divergenza e il pluralismo imposti dalla legge della
parola (…). La guerra tende ad annichilare l'ostilità del mondo esterno mirando
ad uniformare la vita in un solo mondo. Al pensiero democratico
dell'integrazione si sostituisce quello autocratico della scissione; all'arte
della diplomazia e della mediazione quella del sopruso e della violenza
bellica. Non è forse quello che sta accadendo anche in questa ultima sanguinosa
guerra? Anziché procedere nell'elaborazione collettiva del lutto per la perdita
della grande Russia e dei suoi territori dovuta all'inarrestabile attrazione
dei popoli verso la libertà e la democrazia, dopo lo scioglimento del Patto di
Varsavia, anziché accettare, appunto, il lutto necessario imposto dalla
democrazia (non esiste un solo popolo, una sola lingua, una sola verità), il
miraggio autocratico di Putin si rivela fatalmente nostalgico, ancorato
all'idea di un Impero separato dal mondo che egli intende restaurare nelle sue
fondamenta. Con la complicazione ulteriore che il suo rifiuto del lutto non
provoca solo l'aggressione di un Paese (l'Ucraina) considerato come un proprio
territorio ingiustamente perduto, ma evoca la minaccia del ricorso all'arma
atomica. Qui si vede bene la radice autodistruttiva del narcisismo umano sulla
quale la psicoanalisi ha sempre scabrosamente insistito: l'estrema affermazione
della propria potenza di controllo - la bomba atomica - coincide con l'estremo
rischio di perdita di ogni controllo e di autoannientamento. Distruttività e
autodistruttività sono, infatti, sempre legate come il retro e il verso di uno
stesso foglio. Si vede drammaticamente nella bomba atomica: l'immenso potere di
questo ordigno di guerra mentre assegna una potenza illimitata a chi lo detiene,
lo lega altresì ad un fatale destino di auto-annichilimento. Lo strumento della
distruzione rivela così la sua cifra pienamente autodistruttiva. È la vocazione
profondamente suicidaria di ogni narcisismo maligno: l'affermazione illimitata
di se stessi coincide con la propria autodistruzione. Se Freud aveva messo in
luce come in ogni guerra la morte esce dall'oblio seminando angoscia e
rivelando la nostra natura più vulnerabile, nella minaccia atomica non è solo
lo spettro della nostra morte a venire evocato, ma la fine del mondo in quanto
tale. Se agli occhi di Freud la Prima guerra mondiale aveva animato la più
radicale angoscia di castrazione, in questo difficilissimo passaggio storico
viene promossa un'angoscia profondamente psicotica. La possibilità di una
declinazione atomica della guerra non ci fa solo sentire impotenti - accade
nello scoppio di ogni guerra convenzionale - ma mette a rischio, come avviene
in un vero e proprio delirio psicotico di "fine del mondo", la nostra
stessa sopravvivenza sul pianeta. E sempre oggi ma su “il Fatto
Quotidiano” Donatella Di Cesare – “filosofa”, editorialista, professore
ordinario di “Filosofia teoretica” alla Università "La Sapienza" di
Roma - in «Armiamoci e al rogo i “Complessisti”!»
affronta il problema della negazione della “complessità” nel e del mondo del
ventunesimo secolo, negazione che segna come un precipitoso e preoccupante
ritorno ad atteggiamenti di intransigenza dialettica e di violente
contrapposizioni che metteranno a rischio la convivenza, se non la sopravvivenza
stessa, del genere umano. Ha scritto: (…). Il deteriorarsi del dibattito pubblico
nelle democrazie occidentali non è un fenomeno di oggi. Lo aveva già scorto Leo
Löwenthal, esponente della Scuola di Francoforte, che con acume analizzò
l’America degli anni Cinquanta, dove disagio e disorientamento avrebbero aperto
le porte non solo al maccartismo, ma anche all’ascesa di una destra
autoritaria. Di recente questo fenomeno si è acuito al punto che si parla di
“grande regressione” per indicare brutalità e rozzezza che imperversano nella
sfera pubblica. La bolla di Internet non ne è il motivo, ma contribuisce
all’odio aperto, alle fantasie di violenza, agli insulti osceni. La guerra – si
sa – è rivelatrice. Fra l’altro ha messo in luce, ancor più della pandemia,
questa regressione che mina al fondo la democrazia rischiando di cancellarla.
La violenza schematica sta già nel voler stabilire l’inizio, nel fissare il
principio. Meglio, poi, se è tutt’uno con il Male impenetrabile. “La violenza
putiniana che viene dal cielo…”. C’è uno fuori di testa, un matto, un folle
oppure – e propagandisticamente è lo stesso – un tiranno, un dittatore, che ha
deciso di dirottare il corso della storia umana, le sue magnifiche sorti. Guai
a interrogarsi su quel principio, ad andare oltre guardando al contesto,
provando a esaminare le cause. È pericoloso, anzi ambiguo e infido, già quasi
un cedimento al male, un compromesso con il nemico. Mica risaliamo a chissà
quando! In tutta tranquillità si può ignorare il “resto”, perché quel che conta
è solo sentirsi nel giusto. C’è il male e il bene, l’autocrate e le democrazie,
la repressione e la libertà. Ringrazia piuttosto di essere da questa parte,
perché dall’altra saresti già in galera. E dunque taci! Smetti di fare domande
fastidiose e riconosci il fatto oggettivo che in sintesi è: A ha invaso B.
Punto. Altrimenti detto: il grosso ha picchiato il piccolo. E tutti non
potranno fare a meno di essere con quest’ultimo. In questa nuova concezione
della storia che, alla faccia di Hegel, ben si adatta alla foga regressiva, non
c’è assolutamente nulla da capire. C’è appunto solo da allinearsi nell’ordine
bellico, favorito da schemi ideologici. Non vorremmo certo che la gente discuta
le cause della guerra mondiale nel cuore dell’Europa, che le conosca davvero!
Tutt’al più si possono buttare lì un paio di paragoni perché si senta
sollevata: Putin = Hitler, combattenti ucraini = partigiani italiani, ecc. Non
importa se la storia non sia quella novecentesca, se la potenza nucleare muti
il significato stesso di guerra. Viva la pigrizia mentale condita di malafede.
La semplificazione investe anche l’interlocutore che ha comunque torto e va
perciò delegittimato a priori. Anche qui non c’è nulla da capire. Sarà tutt’al
più un neneista di sinistra. Dice sciocchezze e amenità. Merita sarcasmo,
scherno, se non disprezzo, astio, aggressività. Da tempo il livore
anti-intellettuale non emergeva in forma così esasperata. Poi magari c’è chi
rimpiange “gli intellettuali di una volta”, anche perché non sono qui a
importunare. In tutto questo non stupisce che perfino la “complessità” sia
stata presa di mira e sia, anzi, assurta a stigma. Come se si trattasse di un
esercizio inutile o di una confusione pretestuosa. Eppure, sappiamo che uno dei
grandi pericoli oggi è, al contrario, la semplificazione, la scorciatoia (come
quella complottistica) per venire a capo di un mondo difficile da interpretare.
Non è più la natura a essere impenetrabile, ma è ormai la storia umana a
divenire per noi sempre più enigmatica. Si è spezzato il filo della narrazione.
Di qui l’ansia per il futuro che non è mai stato così incerto. La reazione,
però, non può essere quella dei nostalgici di una leggibilità del passato. Mai
come ora è necessario quel che la tradizione occidentale ci ha insegnato: dalla
domanda di Socrate, che proprio salvaguardando la democrazia metteva in forse
le certezze dei suoi concittadini, fino al sospetto di Marx, di Nietzsche, di
Freud, che vuol dire meno falsa coscienza, più avvedutezza. Studio,
interpretazione, giudizio sono la base della democrazia. Non servono solo gli
esperti, che peraltro non sono mai neutrali. Altrimenti tutti i cittadini
sarebbero deresponsabilizzati nelle scelte politiche – come l’invio di armi –
che li riguardano direttamente. Occorrono invece le domande, e tanto più se
sono spiazzanti, perché ci aiutano a cambiare prospettiva, a vedere quel che
accade sotto una nuova angolazione trovando magari la via d’uscita dalla
trappola. Un computer è un meccanismo complicato; qualcuno l’ha progettato e
aprendolo si può veder l’intreccio di parti. La storia umana è invece
complessa, perché agiscono molte dimensioni. Applicare gli schemi A – B è
grottesco. L’illeggibilità del mondo, di cui parlava Hans Blumenberg, è oggi
sotto gli occhi di tutti. Gridare “all’armi” limitandosi a mettere l’elmetto sulla
mente, come fanno alcuni, non serve davvero. Non abbiamo bisogno di paraocchi,
ma di confronto aperto, dibattito critico, spazi interpretativi comuni. Questi
sono i valori democratici occidentali. Noi complessisti cerchiamo di farcene
carico in questo momento grave in cui vengono richieste solo adesioni empatiche
alla guerra. La libertà di pensiero è il diritto alla complessità. Anche il
diritto di comprendere il male, di decostruirlo, senza per questo
giustificarlo. Certo, poi riconosciamo di essere pur sempre complessisti molto
imperfetti, non abbastanza vigili, non sempre capaci di capire. Ma se ci
fossero più complessisti a interrogarsi sui motivi, forse un po’ delle guerre
in corso avrebbero potuto essere evitate.
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