"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 5 settembre 2024

Lamemoriadeigiornipassati. 100 Carrère: «Pier Paolo Pasolini diceva: è impossibile capire il Novecento senza comprendere il potere seduttivo del fascismo».

                                Sopra.  Eduard Limonov (nel 2004).

(…). «Rispetto agli inizi della guerra, quando mi trovavo in Russia per altri motivi, siamo passati da un’ostilità verso un conflitto che sembrava incomprensibile e assurdo a un vasto consenso per quello che ormai viene visto come uno scontro con l’Occidente. Che i russi rifiutano perché temono che la sua contaminazione, dall’identità di genere in giù, possa portare al collasso. La spacciano come questione religiosa, peraltro in un paese primatista mondiale di divorzi, ma in gioco è la tenuta della società. E Putin, che conosce la psiche della sua gente, l’ha capito. Quindi, in un aggettivo, i russi sono diventati molto più reazionari. In un mix di nostalgia del soviet, pulsioni fasciste, integralismo ortodosso e nazionalista. Che senso ha un mondo senza Russia? si chiede retoricamente l’archimandrita Tichon, e lo ripete Putin: ecco, il mondo sappia che siamo pronti a morire per difenderci».

(…). …la religione ha preso il posto del comunismo, nella nazione dell’ateismo di Stato… «Religione come ideologia, non come spiritualità. Tre quarti dei russi si definiscono cristiano-ortodossi ma in chiesa vedi solo poche beghine. Solo il 5 per cento è praticante. Però la religione, soprattutto dopo i terribili anni 90, ha riempito un vuoto. È stato il collante per mettere insieme l’idea del Russkij mir, la terza via russa tra Europa e Asia. La democrazia è proprio l’ultima idea quanto a popolarità. L’hanno avuta per soli dieci anni, i 90 appunto, e sono stati i peggiori della loro storia. Con la fame passata dall’1,5 al 45 per cento. Umiliazioni di ogni tipo. E un’ingerenza senza precedenti degli americani nella società, come mi racconta il ministro degli esteri di Eltsin. Serviva una contronarrazione».

Ci spieghi il termine passionarnost e perché è così importante per capire i russi? «Fu inventato, presumibilmente in un gulag siberiano, dal figlio di Anna Achmatova, Lev Gumilëv. È “l’energia interiore della nazione, la capacità di sacrificarsi per un bene comune superiore”. Una sorta di destino manifesto, ma scritto in cirillico. A provarne l’esistenza sono i morti della Seconda guerra mondiale. Nessuno che intenda combattere la Russia può sottovalutarla».

A proposito di guerra e vittime, scrivi che solo i poveri di provincia ci vanno… «Dopo esserti venduto le collanine d’oro dei figli puoi giocarti giusto la vita. È una specie di welfare. Più una zona è povera, più si vedono in giro manifesti per l’arruolamento. Un morto, mi ha raccontato una donna il cui marito era partito per il fronte, “vale” sugli 80 mila dollari, una decina di volte lo stipendio medio di un operaio. Un ferito sui 30 mila».

Hai incontrato la vicepresidente dell’Unione degli scrittori, mesta figura. Quanto è rappresentativa degli intellettuali? «Gli scrittori che vivono in Russia sono passati dal marxismo al patriottismo: prima, solo a nominarlo, finivi in Siberia, oggi è la condizione per essere nell’entourage che conta. Putin sa che i libri non vendono come una volta. L’opinione pubblica si forma su internet ed è lì che bisogna picchiare duro. Ma sa anche che in Russia senza intellettuali (sia pure scadenti) e senza monaci non è possibile né muovere truppe né tenere vivo il sogno dell’Impero. L’improvvisa ossessione del Cremlino per la letteratura sembra anche la risposta al demenziale boicottaggio della cultura russa in Occidente».

Altri cambiamenti nella vita quotidiana? «Bevono di più e, considerato il contesto, vuol dire davvero molto. Forse negli anni 90 se ne moriva di più ma i consumi, anche tra i giovani, non sono mai stati così alti. D’altronde l’alcol aiuta a entrare nella dimensione nichilista e autodistruttiva con cui i russi hanno molta familiarità. Quanto alle sanzioni, oltre a permettere a nuovi imprenditori di portarsi via per pochi rubli le aziende occidentali espropriate, all’inizio hanno un po’ peggiorato la vita pratica ma ora tutti si sono adattati. In termini più macroeconomici se la Russia ha perso il 58 per cento dell’export verso la Ue, ha guadagnato un 78 per cento di affari con l’Asia. E sta diventando, complice il cambiamento climatico che da quelle parti non è affatto un timore, una superpotenza agricola».

Di Putin, alla fine, cosa pensano? «Che è un condottiero forte. Dà l’impressione di avere in mano il Paese e ciò fa digerire ogni danno collaterale, dalle purghe anni 30 ai più recenti assassini degli oppositori. I russi sono assuefatti all’idea della morte, sia per alcol, omicidio o guerra. Ma non a quella del collasso, l’idea che le tante nazionalità entrino in conflitto l’una con l’altra, facendo riemergere rancori e pretese secolari. Per averlo scongiurato, cinquecento anni fa, oggi ha fatto riabilitare anche Ivan Groznyj, il Terribile. Ora è la volta di Vlad Groznyj». (Dalla intervista di Riccardo Staglianò – “Passionarnost. Ricordatevi questa parola” – a Marzio G. Mian pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 30 di agosto 2024).

“Diavolo di un Limonov”, testo di un colloquio a più voci – Nicola Mirenzi, cronista; Kirill Serebrennikov, regista; Emmanuel Carrère, scrittore – pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 30 di agosto 2024: (…). Serebrennikov: «Era un mistero» (…) come avesse fatto questo strano personaggio russo, poeta underground, rivoluzionario fallito, ad attirare tanto l’attenzione. Mi chiedevo: Come è potuto diventare così popolare, cosa ci vede la gente nella sua storia? Eduard Limonov (…) è stato il profeta del risentimento politico, la fonte del nuovo nazionalismo russo, la pulsione che ha sprigionato la guerra contro l’Ucraina». Carrère: (…). «Ogni tanto qualcuno mi chiede di indovinare la posizione che avrebbe preso oggi sulla guerra in Ucraina, in virtù dell’opposizione che ha fatto a Vladimir Putin. (…). Non ho dubbi su quale sia la risposta. Sarebbe stato senza tentennamenti dalla parte della guerra. È per questo che la sua storia racconta molto della Russia di oggi». Mirenzi. (…). …la storia segue l’avventura di Limonov fin dalla sua giovinezza in Ucraina, quando lavorava come metalmeccanico a Kharkiv (…). Poi racconta il suo percorso nel mondo letterario non ufficiale, il conflitto con le autorità sovietiche, la fuga negli Stati Uniti, la miseria, i lavori umili, il successo in Francia, il ritorno in Russia mentre l’Urss crolla, l’umiliazione della rovina che Limonov trasforma in rabbia, il carburante dell’attività politica che gli varrà la galera e la gloria. Serebrennikov. «Da Byron a Lermontov a D’Annunzio (…) c’è una lunga tradizione di poeti che hanno fatto la storia delle nazioni, non sempre stando dalla parte giusta. Limonov è un interprete modernissimo di questa tradizione. Oggigiorno la tendenza è credere che la poesia sia solo un innocuo canto dei sentimenti piccolo-borghesi. Mentre la grande poesia può avere in sé anche qualcosa di tremendo. È stata e può essere ancora – almeno, in Russia lo è – veicolo di idee sanguinarie, di pulsioni terrificanti che non appartengono solo a chi compone i versi, ma condensano le passioni di intere comunità. Questo è stato essenzialmente Limonov. Poi, secondariamente, anche un politico». Mirenzi. Nel prologo del suo romanzo, Carrère racconta che tra gli ammiratori di Limonov c’era anche Anna Politkovskaja, giornalista critica del regime putiniano uccisa nel 2006. Pensava che era grazie a tipi come lui e agli adepti del suo partito – i nazbol, una sorta di milizia naziskin comunista – che si poteva guardare con fiducia all’avvenire morale della Russia. (…). Carrère. Il risentimento (…) è la parola chiave della vita di Limonov. È ciò che l’ha fatto cadere e rialzarsi innumerevoli volte. È ciò che l’ha fatto sentire offeso e calpestato. Ciò che gli ha dato la forza di sollevarsi e di alimentare la voglia di farla pagare al mondo intero. Ma, a ben vedere, il risentimento non è solo un’energia della sua vita: è anche il fuoco che brucia nel mondo che viviamo. (…). In questo senso, penso che Limonov sia stato il sintomo che ha annunciato la malattia che sarebbe esplosa a distanza di qualche anno. Principalmente in Russia, ma non soltanto lì». (…). In lui tutte queste pulsioni esistevano in maniera caotica, confusa, a tratti schizofrenica. Il fascista russo era mescolato al ragazzo talentuoso, dinamico e vitale, una sorta di Johnny Rotten della letteratura. Era un uomo che guidava una milizia fascista, d’accordo, ma allo stesso tempo incarnava l’unica, vera, autentica controcultura russa». (…). Mi viene in mente una frase di Pier Paolo Pasolini che diceva: è impossibile capire il Novecento senza comprendere il potere seduttivo del fascismo. Ecco, sono convinto che la stessa cosa valga per Limonov». Mirenzi. «Ma oggi che la guerra è stata scatenata, e la Russia è passata dal sentimento della rivalsa all’azione militare, non si corre il rischio di mitizzare il nazionalismo russo, (…)». Serebrennikov. «No, non credo di correre questo pericolo. (…). L’idea che il male sia separabile dal bene in maniera esatta è un’idea irreale e, in fin dei conti, propagandistica. Sulle televisioni russe ogni giorno danno risposte semplicissime, lineari, ai più grandi problemi del Paese. La guerra? È necessaria – rispondono – perché siamo circondati da nemici. Il malessere economico? Colpa degli scriteriati anni Novanta. Certamente Limonov è un personaggio detestabile. Soprattutto oggi che il mio Paese ha invaso l’Ucraina. Lui desiderava la guerra, le andava incontro, la bramava. Ma compito del cinema è guardare con attenzione anche dentro gli abissi, non solo nelle cavità pulite. È come per i virus: l’organismo deve essere infettato per riuscire a sviluppare gli anticorpi necessari a combattere la malattia. Io da ragazzo sono stato un fan di Limonov. Leggevo la sua rivista e ci trovavo dentro la stessa rabbia che avevo io, la stessa voglia di fare tutto a pezzi. Poi ho pensato fosse un atteggiamento infantile. Sì, la seduzione del fascismo esiste. Quando ho visto lo stadio Olimpico a Roma sono stato colpito dalla bellezza che sprigiona l’architettura del Foro Italico. Questo non significa giustificare Mussolini e quello che ha fatto all’Italia. Comprendere un’idea, anche la più spregevole, non significa aderirvi. Si tratti di Hitler o di Limonov». Cercando l’anima russa. Mirenzi. L’idea dell’“anima russa” è allora solo un concetto turistico, e non il mare in cui nuotano pesci grandi come Dostoevskij e meno grandi come Limonov? Serebrennikov. «L’idea dell’“anima russa” è un cliché». Carrère: «L’idea dell’anima russa non è solo un concetto usato da occidentali superficiali. È anche un’idea che pensatori, scrittori e politici russi hanno creato per rappresentare la Russia come nazione unica, eccezionale, investita di una speciale missione nel mondo. Il risentimento, in questo senso, non è una passione triste: è invece il modo in cui un vero russo reagisce alle storture del mondo, alle ingiustizie. Tutt’altro che docile, l’idea dell’anima russa può facilmente trasformarsi in un veleno». Mirenzi. Il padre funzionario dei servizi segreti, l’ammirazione per Stalin, l’insofferenza per Solzenicyn, Brodskij e tutti i dissidenti coccolati in Occidente, l’odio per Gorbaciov e Eltsin: dei pensieri, delle opere e delle omissioni di Limonov (…) c’è tutto. Manca però uno dei momenti più problematici. Il periodo in cui va a combattere nella guerra dei Balcani con i serbi di Karadzic. Carrère. «Quando ho visto Limonov sparare con una mitragliatrice verso la città di Sarajevo nel documentario di Pawel Pawlikowski, Serbian Epics, la scena mi ha raggelato al punto che ho abbandonato il libro per un anno (…). Non tanto perché lo si vede compiere un delitto – in effetti, non si vede nulla di tutto questo – ma perché Limonov appare come un personaggio ridicolo. Un ragazzino che si atteggia da duro in una sagra di paese. Non ero sconvolto solo dalla ripugnanza di quel che aveva fatto. Ma, da scrittore, il mio vero problema era che improvvisamente il mio personaggio – l’uomo per il quale fino a quel momento ero riuscito a provare anche ammirazione – appariva ai miei occhi una persona piccola piccola. Insomma, uno che forse non meritava un libro. Ci ho messo un anno ad assorbire questi dubbi e riuscire ad andare avanti. Poi ho accettato che Limonov fosse anche questo: un uomo piccino. Mentre in altre circostanze riusciva a essere eroico. Così ha affrontato gli anni della prigione politica a Lefortovo, dove vengono spediti i più pericolosi nemici dello Stato: da eroe. Un momento che lui ha sognato tutta la vita. Come una consacrazione». (…). Mirenzi. (…). …come può un uomo dall’immagine grigia e noiosa, come il presidente della Federazione russa, essere uguale a questo sgargiante e irresistibile stronzo? (…). Carrère. «Ero impressionato dal fatto che pur essendo contro il presidente russo, Limonov ne condividesse nella sostanza la linea politica». Serebrennikov. «No, non penso che le due figure siano realmente accostabili. Però è altrettanto vero che ascoltando i discorsi dei putiniani oggi, leggendo i loro saggi e i loro articoli sui giornali, si ha l’impressione che non facciano altro che ripetere a pappagallo tesi che Limonov aveva formulato dieci o vent’anni fa. Come se passo dopo passo le sue teorie avessero fatto breccia nella classe dirigente russa e appaiano, oggi, all’improvviso, come un’opera d’avanguardia». Mirenzi. «Prospettiva dalla quale ci si potrebbe avventurare a concludere che – da morto – Limonov è riuscito nella sua impresa più spericolata: conquistare il Cremlino. Anche se, più probabilmente, è il Cremlino che ha conquistato lui».

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