“Psiche&politica”. Ha scritto Michele Serra in “Il maschio tradito” pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” del 3 di marzo 2022: Conoscete qualcosa di più russo
di Gogol'? E di Bulgakov? Beh, Gogol'e Bulgakov erano ucraini. Il primo era
nato in un villaggio a est di Kiev. Il secondo a Kiev. Entrambi sono morti a
Mosca. Lo stuolo dei russi-ucraini, e degli ucraini-russi, è molto lungo. Non
lo conoscevamo: sinistro merito di questa guerra idiota, assurda, è averci
aiutato a conoscere un poco meglio i due popoli e le due culture scoprendo che
sono, in larga parte, lo stesso popolo e la stessa cultura. E questo rende
ancora più tremendo il capo di imputazione che grava su Vladimir Putin. È il
fautore di una guerra fratricida. "Colpa" degli ucraini, secondo
Putin, è proprio questa vicinanza tradita. L'idea che sia il tuo prossimo, non
il tuo opposto, non un estraneo, a scegliere una strada diversa (l'Europa, la
democrazia) rende ancora più insopportabile l'offesa. Putin ha ragionato, e si
è comportato, più o meno come il maschio che uccide la compagna che lo vuole
abbandonare. Non riesce a contemplare l'idea di non essere più amato, di non
essere più obbedito. Per lui l'Ucraina esiste in quanto "sua", oppure
non ha il diritto di esistere. Meglio morta che libera. Il machismo di Putin è
uno degli elementi fondamentali della sua popolarità presso le destre estreme,
in tutto il mondo. Il mito "dell'uomo forte" è pre-politico, è legato
alla tradizione tribale e patriarcale che con la libertà non ha un rapporto
facile. L'ostentazione di virilità e di prestanza fisica è una sua ossessione
di sempre. Niente riesce a levarmi dalla testa l'idea che questo elemento sia
molto rilevante nella sua storia politica e, ahimè, nella nostra storia del
momento. E che sia un elemento patologico. Arcaico. Ma ben presente, e
pericoloso. Di seguito, “La
radice del male è il nostro razzismo” di Sergej Lebedev, pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” del 2 di marzo 2022: (…), …il veleno dell'ostilità
ribolliva da tempo. Molti oggi dicono che l'unico responsabile è il presidente
Putin e che i russi sono nell'insieme contrari alla guerra, sebbene abbiano
timore a manifestarlo apertamente. Forse una parte considerevole della società
è contraria alla guerra, perlopiù per ragionevoli motivazioni di interesse
personale. Questo, però, non impedisce di chiederci come questa guerra sia
possibile politicamente e psicologicamente. Si palesa la questione del razzismo
russo post-imperiale, che era e resta il presupposto di fondo dell'aggressiva
politica di Putin, sia all'estero sia a livello interno, e che non sparirà da
sola, nemmeno se Putin se ne andasse. La Federazione russa è un Paese razzista.
Questo razzismo post-imperiale inalterato nel tempo allunga le sue radici nella
nostra coscienza collettiva e nella nostra cultura, nella nostra lingua e nella
nostra concezione del mondo, ed è radicato non in uno, non in due, ma in decine
di Paesi che formano una gerarchia multi-composita dallo sciovinismo fluido.
Alla metà degli anni Novanta e nei primi anni del Duemila, quando la Russia era
in guerra con la Cecenia, gli atteggiamenti razzisti presero di mira le persone
originarie del Caucaso. Esisteva addirittura una definizione semi-ufficiale:
"Persona di nazionalità caucasica". Era il "volto della
nazionalità caucasica" che la propaganda di Stato cercò di trasformare nel
volto del nemico, dell'invasore, del terrorista. L'immagine stessa del male.
Poi, quando la Cecenia infine è stata occupata, molti lavoratori provenienti
dagli stati dell'Asia centrale - Tagikistan, Uzbekistan, Kirghizistan e altri
ancora - sono venuti in Russia per cercare lavoro. Si è andata affermando così
un'altra immagine razzista, sostenuta dalla cultura popolare: quella dell'uomo
"giallo", asiatico, una creatura sporca di seconda categoria,
ignorante ma astuta, che doveva servire padroni bianchi arricchitisi
enormemente in poco tempo. I due esempi citati presentano un tipo di razzismo
costruito a partire dall'esplicita contrapposizione tra "noi" e
"loro", gli altri, i pericolosi esseri di serie B. Esiste poi un
altro tipo di razzismo, quello contro i popoli di Ucraina e Bielorussia. Basato
sul modello paternalistico e sull'ethos sovietico della "famiglia delle
nazioni". Ucraini e bielorussi sono considerati vicini, abitanti di
nazioni "fraterne", ma pur sempre collocate su un gradino più in
basso di questa gerarchia familiare immaginaria: sono come i russi, ma un po'
più in basso. I russi hanno un livello gerarchico superiore. Uno studio
accurato rivelerebbe decine di ulteriori motivazioni razziste diverse nei
confronti delle nazioni che costituiscono la Federazione russa. Questo razzismo
poliedrico è una conseguenza diretta della storia imperiale russa e della sua
politica coloniale. Per settant'anni il sistema sovietico ha postulato
"l'amicizia dei popoli" e l'eguaglianza delle nazioni. In verità, vi
furono occupazioni e innumerevoli deportazioni; i movimenti per l'indipendenza
nazionale furono imbavagliati e messi a tacere, si incoraggiò il
collaborazionismo e il rifiuto di un'identità nazionale a favore del
"Soviet". Purtroppo, però, questo strumento repressivo non rimase un
carattere peculiare del progetto comunista sovietico. È inverosimile che nella
Russia odierna vi sia una percentuale significativa della popolazione smaniosa
di riportare in vita l'ideologia comunista. Il razzismo post-imperialista,
invece, è vivo e vegeto. La leadership politica russa non considera l'Ucraina protagonista
di una sua storia e di un suo destino. Nel suo prolisso discorso pronunciato
per giustificare la guerra, Vladimir Putin non ha impartito soltanto una
lezione storica non richiesta sull'Ucraina. In linea con la logica imperiale
russa, Putin di fatto nega all'Ucraina il diritto di essere la vera Ucraina. E
non si parla soltanto di indipendenza dello Stato, ma di nazione in quanto
tale. Stiamo parlando di una terribile ricaduta nel razzismo post-imperiale, in
virtù del quale sui territori che la Russia considera storicamente
"suoi" esistono soltanto nazionalità subordinate e secondarie. Quei
Paesi sono trattati con condiscendenza nel migliore dei casi, o soggetti
soltanto a ubbidire agli ordini. Il loro destino è scritto da altri. Purtroppo,
io credo che questi atteggiamenti mentali siano condivisi consapevolmente o
inconsapevolmente, in misura più o meno grande, da una percentuale
significativa del popolo della Federazione russa. Perfino nello scenario futuro
più ottimistico - la caduta del regime di Vladimir Putin - continuerebbe a
esserci una domanda senza risposta: che fare del razzismo post-imperiale? Che
farne, visto che permea il senso dello stato dei russi, la politica russa, la
vita russa in tal misura e a tal punto da non essere neanche più notato
dall'interno? Sarebbe ingenuo pensare che, da sole, l'economia di mercato e le
prassi democratiche potrebbero bastare a risolvere una volta per sempre il
problema. Dopo tutto, la guerra della Russia contro l'Ucraina è, tra altre
cose, il segno del crollo morale e umanitario della cultura russa, di una
cultura i cui molti illustri rappresentanti - da Dostoevskij e Bulgakov a
Brodskij e Solgenitsyn - furono colpiti anch'essi dal virus dell'imperialismo,
dal principio di "superiorità" della lingua russa e dei suoi diritti
speciali. Adesso che le parole "russo" e "russi" sono
diventate ulcere lebbrose per molti anni a venire, noi russi dovremmo ripensare
da zero la nostra cultura, la nostra storia, il nostro sistema politico. Il mondo
non ha bisogno soltanto di una Russia senza Putin. Il mondo ha bisogno di una
Russia sprovvista per sempre di una coscienza imperiale. Molti dei miei
conoscenti e amici russi oggi chiedono perdono agli ucraini. Credo che sia
troppo presto per chiedere perdono. Noi, cittadini russi, non abbiamo ancora il
diritto di farlo. Lo avremo soltanto quando i criminali di Stato al potere nel
nostro Paese saranno assicurati alla giustizia e condannati alla punizione che
meritano. Se ciò non accadrà, non ci potrà essere perdono alcuno per noi.
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