"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 14 marzo 2022

Lavitadeglialtri. 16 «Il teologo Don Severino Dianich: "Penso a Bertolt Brecht: beato il popolo che non ha bisogno di eroi"».

Sostiene il teologo Don Severino Dianich, nell’intervista a firma di Tommaso Rodano “Inviare armi è etico solo se si può vincere, se no è inutile strage” pubblicata su “il Fatto Quotidiano” di ieri 13 di marzo 2022: (…). “Sono impressionato - (…) - dal fatto che persista nell’opinione pubblica una certa mistica della difesa armata”. (…). Sono andato a rivedermi il Catechismo della Chiesa Cattolica e osservo che vi si raccomanda di ‘considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale’”.

Contesta la resistenza di un popolo aggredito? “Credo che l’esaltazione della patria e dell’indipendenza nazionale come valore assoluto, da difendere anche attraverso un massacro e il sacrificio di vite umane, sia una piaga del nazionalismo dell’800. Bisogna trovare un equilibrio tra il valore dell’indipendenza di un popolo, che è innegabile, e il prezzo da pagare in vite umane per rivendicare quel valore”.

Chi può stabilirlo? “Credo che il passaggio dall’indipendenza nazionale a una forma di dipendenza non sia sempre uguale. Ci sono dipendenze distruttive, umilianti per il popolo che le subisce, e altre in cui la dipendenza – negativa in via di principio – può evitare il massacro di centinaia di vite”.

Si può negare il sentimento collettivo del popolo ucraino e il suo diritto all’indipendenza? “Dal punto di vista etnico e culturale è difficile negare che ci sia una vicinanza tra la popolazione ucraina e quella russa. Io vengo da Fiume, la mia famiglia è fuggita dal regime di Tito. Quella fuga per qualcuno fu ispirata anche dal senso nazionale: volevano restare italiani. Ma la maggioranza della popolazione è venuta via per fuggire da un regime oppressivo e dalla fame”.

Ritiene un artificio il nazionalismo ucraino? “Mi sembra sbagliato esaltarlo conferendogli un valore mistico. Penso che la trasformazione religiosa del sentimento patrio sia pericolosa. Mi chiedo: chi si è trovato con figli, genitori o un marito morto, pensa a loro come eroi della patria?”.

Sta dicendo che gli ucraini dovrebbero arrendersi? “Credo che la valutazione della durata della resistenza armata debba essere in funzione della possibilità effettiva di una vittoria. Quale prezzo, quanti morti si possono sacrificare per ottenere questo risultato? Mi torna in mente un passaggio del Vangelo: anche un re valuta se può combattere una guerra con un esercito di 1.000 soldati contro uno di 20.000”.

È contrario all’invio di armi in Ucraina. “Armare il popolo ucraino allunga la guerra. Con quale ipotesi? C’è la previsione che l’Ucraina possa vincerla? O si vuole allungarla esaltando l’eroismo degli ucraini? Penso a Bertolt Brecht: beato il popolo che non ha bisogno di eroi. Noi mandiamo le armi, ma chi ci lascia la pelle sono loro: quando questo popolo ci chiede di partecipare alla sua resistenza, la decisione ricade anche sulle nostre coscienze”. Di seguito, “Il militarismo da divano farà strage di ucraini” di Tomaso Montanari, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” dell’11 di marzo 2022: Quando sono gli ucraini stessi, magari collegati da Kiev alle nostre televisioni, a parlare della lotta per la loro vita e per la loro libertà, quando sono loro a chiederci armi per poterla continuare in prima persona, allora, la parola “Resistenza” ha un significato chiaro, profondo, morale. Che merita solo rispetto, solidarietà, dolore per la loro sorte terribile. Ma quando a esaltare l’eroismo di questa Resistenza, pestando su tutta la tastiera della retorica, sono i maschi di mezza età della politica e del giornalismo italiani, il significato è tutto un altro. C’è qualcosa di imbarazzante, di penoso, in questo militarismo da divano, in questa passione da giocatori di Risiko. Perché sappiamo tutti benissimo che chi resiste all’aggressione scellerata di Putin non chiede solo missili e mitraglie: chiede soprattutto la no fly zone, gli aerei. E sappiamo anche che tutto questo non possiamo darglielo, perché il rischio di un conflitto nucleare, fatale per l’umanità, aumenterebbe esponenzialmente. È tutto qua il cinismo di un Occidente che ha usato l’Ucraina come una scacchiera per una lunga partita con Putin, pur sapendo benissimo che quando questi avrebbe preso la scacchiera, non avremmo potuto salvare gli scacchi, cioè i corpi degli uomini e delle donne ucraini. Arrivati a questo punto, l’unica posizione morale per noi occidentali è la più forte pressione possibile per un cessate il fuoco immediato, per un tavolo della pace dove Ucraina e Russia trovino un accordo. Un accordo che sarebbe comunque meglio della continuazione di questa carneficina senza senso. Soffiare invece sul fuoco della Resistenza ucraina significa mettere nel conto migliaia (e in prospettiva centinaia di migliaia) di morti di resistenti ucraini: e significa sperare di mettere Putin nell’angolo, il che potrebbe avere esiti dirompenti per l’Ucraina stessa. Non è realismo: è avventurismo con la pelle degli altri. Oppure, ancora peggio, è un diverso, cinico, realismo: quello di chi si augura che l’Ucraina diventi una sorta di Afghanistan in cui intrappolare Putin. Un esito forse desiderato in qualche cancelleria occidentale: ma il cui prezzo in vite umane sarebbe spaventoso, e i cui rischi sistemici incalcolabili. È tutta qua la menzogna del confronto con la Resistenza italiana contro i nazifascisti tra il 1943 e il 1945: allora c’era una concreta prospettiva di vittoria, non un vano massacro. I partigiani combattevano contro un nemico che si stava ritirando (non avanzando, come oggi in Ucraina) perché incalzato dagli Alleati, nel cuore di un conflitto mondiale. Oggi gli Alleati non arriveranno: perché Putin – a differenza di Hitler – l’atomica ce l’ha. E questo cambia tutto. Nel 1965, don Lorenzo Milani scriveva (nel suo discorso in difesa dell’obiezione di coscienza) che, di fronte alla minaccia nucleare, “siamo dunque tragicamente nel reale. Allora la guerra difensiva non esiste più. Allora non esiste più una ‘guerra giusta’ né per la Chiesa né per la Costituzione”. E, nel 2020, papa Francesco dice, in Fratelli tutti, che di fronte “allo sviluppo delle armi atomiche, chimiche, biologiche”, “non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile ‘guerra giusta’”. Posizioni per nulla utopiste, anzi realiste: ma irrise dai molti che, in queste ore, inneggiano invece ai nuovi partigiani ucraini. Significativamente, il paragone con la guerra di Liberazione viene oggi rigettato da chi quell’esperienza fondante l’ha sempre difesa e studiata (per esempio Marco Revelli) e invece entusiasticamente propalato da ex comunisti, operaisti, esponenti di Lotta Continua che dopo essere passati al conservatorismo più codino, all’occidentalismo fanatico, spesso all’anti-antifascismo “militante”, riscoprono oggi, da anziani, la retorica resistenziale e il fascino delle armi: usate da altri, ovviamente. Anche qui sta la truffa delle parole in guerra: i più scalmanati sostenitori occidentali del riarmo della Resistenza ucraina non sono davvero i migliori alleati della sopravvivenza dell’Ucraina.

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